Dall'Oppio Archives - La Storia di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/tag/dalloppio/ Mon, 10 Oct 2016 21:45:32 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.6.2 Suor Vincenza (Egle Dall’Oppio) (1901-1977) https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/sacerdoti-religiosi/suor-vincenza-egle-dalloppio-1901-1977/ https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/sacerdoti-religiosi/suor-vincenza-egle-dalloppio-1901-1977/#respond Tue, 10 Sep 2013 17:55:03 +0000 https://www.castelbolognese.org/uncategorized/suor-vincenza-egle-dalloppio/ Una figlia della Carità non è sola. La sua professione di fede la conduce continuamente a contatto con gli altri. Questa fu la scelta di Suor Vincenza, al secolo Egle Dall’Oppio, nata a Castel Bolognese nel 1901 da un garibaldino, che fu tra i sei castellani volontari a Domokos. Rivelò, …

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Una figlia della Carità non è sola. La sua professione di fede la conduce continuamente a contatto con gli altri. Questa fu la scelta di Suor Vincenza, al secolo Egle Dall’Oppio, nata a Castel Bolognese nel 1901 da un garibaldino, che fu tra i sei castellani volontari a Domokos. Rivelò, ancor giovane, forza di carattere e intelligenza che la rendevano ribelle alle leggi di antiche educazioni laiciste.

Maturò la vocazione sotto la guida spirituale del “padrino” di Biancanigo, don Pietro Amadei, ed entrò in religione a 24 anni, il 29 agosto 1925, lasciando il paese e la famiglia ostile alla sua scelta, per sposare una religione di amore e di carità.

Iniziò il suo itinerario a Siena, a S. Girolamo. Fece una breve sosta a Tarquinia. Giunse ad Arezzo il 31 agosto 1936 e per quarant’anni si prodigò nelle più svariate forme di apostolato e di beneficenza in quella città, che le fu particolarmente cara e dalla quale era meritatamente ricambiata, perché gli aretini, di qualsiasi ceto, sono affezionati all’Istituto Allotti, dove gli adulti e i vecchi furono avviati saggiamente nel cammino della vita e dove ora conducono con fiducia i nipotini che le Figlie della Carità educano con materna premura. All’Istituto Allotti suor Vincenza dedicò le sue migliori energie.

La partecipazione perfino passionale ad ogni vicenda pubblica e privata, i rapporti con le personalità più significative di Arezzo, erano mossi dalla sua ansia di bene e dalla sua sete di carità. Durante la guerra fu ferita ad una spalla, mentre cercava di raccogliere una consorella colpita più gravemente da un mitra tedesco. Aveva costruito un centro per gli sfollati. Pagava i debiti a famiglie con lo sfratto; andava a cercare un posto per chi era disoccupato. Per le giovani aveva ideato i “convegni delle lavoratrici”, ma soprattutto era preoccupata perché non si avviassero sole nel mondo. Per le anziane cercava di recuperare un accogliente ambiente di famiglia.

Nel momento in cui il trasformarsi delle abitudini pareva cambiare il tipo di presenza delle religiose negli ospedali, creò una scuola per infermiere professionali; e la professionalità stessa allora sembrava un lusso. La carità, per suor Vincenza, non era approssimazione, ma intelligenza delle cose e della vita. Della vita ebbe un senso profondo, come valore che si costruisce con fatica, con tenacia, con forza, se necessario: con la forza della fede.

Chiuse il suo laborioso e fruttuoso itinerario terreno il 30 gennaio 1977 tra il compianto degli aretini; la sua salma, composta nell’Istituto Aliotti, fu per due giorni meta di un pellegrinaggio ininterrotto di autorità religiose e civili, di ex alunni, di persone di ogni ceto che volevano rendere omaggio ed esprimere sentimenti di gratitudine. Il sen. Giuseppe Bartolomei pronunciò un commosso elogio funebre.

Lo scultore castellano Angelo Biancini, che poté apprezzare da vicino le elette doti cristiane di suor Vincenza, ha voluto onorarne la memoria e tramandarla ai posteri con un pregevole pannello di ceramica collocato sotto il porticato del Convento Cappuccino di Castel Bolognese.

Tratto da: M. MERENDA, Testimoni della fede, in: Il voto della Pentecoste e la tradizione religiosa castellana, Galeati, Imola, 1981.

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Il barbiere di campagna: Antonio Dall’Oppio https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/il-barbiere-di-campagna-antonio-dalloppio/ https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/il-barbiere-di-campagna-antonio-dalloppio/#respond Tue, 10 Sep 2013 17:52:06 +0000 https://www.castelbolognese.org/uncategorized/il-barbiere-di-campagna-antonio-dalloppio/ Superare la soglia dei novant’anni oltre mezzo secolo fa era cosa più rara di adesso. Se poi il vecchio nonno aveva la saggezza e il vigore fisico di Antonio Dall’Oppio, classe 1849, non ci si deve stupire se il suo ingresso nelle osterie, di cui Castello un tempo era pieno, …

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Superare la soglia dei novant’anni oltre mezzo secolo fa era cosa più rara di adesso. Se poi il vecchio nonno aveva la saggezza e il vigore fisico di Antonio Dall’Oppio, classe 1849, non ci si deve stupire se il suo ingresso nelle osterie, di cui Castello un tempo era pieno, fosse salutato dagli umili avventori con un vociare festoso che si levava dalle tavole insieme con un applauso spontaneo.
Antonio Dall’Oppio era l’amico di tutti; di fronte a lui molti anziani si sentivano ringiovanire. Lo soprannominavano “Tugnì la Bagliona” perché la madre era una “bélia” molto popolare, una levatrice di robusta corporatura che era solita augurare cent’anni ai suoi figli e a tutti gli infanti che aiutava a venire al mondo.
Antonio vantava nel suo casato alcuni tra i più valorosi garibaldini di Castello. Da parte della moglie Rosa, sorella di don Achille, parroco della Serra, era imparentato con la distinta famiglia Bornazzi di Massa Lombarda. Francesco, il primogenito prematuramente scomparso, fu sacerdote e stimato latinista. Un altro figlio, Natale, durante l’ultima guerra fece parte del Comitato di Liberazione a Firenze segnalandosi per i suoi meriti. Adele, l’ultimogenita, gli diede i due nipoti Francesco e Rosalba Martini, nati nella casa dei nonni materni in via Ginnasi a Castel Bolognese: il primo divenne monsignore e fece carriera nella Segreteria di Stato del Vaticano.
Tugnì la Bagliona, barbiere e cercatore di funghi, conosceva palmo a palmo la campagna di Castello che percorreva dalla mattina alla sera per fare la barba ai contadini e ai signori. Fedele agli insegnamenti materni che gli raccomandavano di camminare continuamente, sarebbe entrato in competizione con i podisti di oggi i quali, riconoscendo in lui un precursore, potrebbero intitolargli la loro associazione.
All’età di novant’anni compiuti il barbiere di campagna si vantava di percorrere a piedi dieci chilometri al giorno. Dritto come un fuso, faceva passi brevi ma sicuri. Sapeva tenere ancora in mano il rasoio anche se negli ultimi anni si limitava a radere la barba al conte della Serra, che gli faceva gran festa quando lo vedeva arrivare (a piedi, naturalmente) alla villa.
La Serra era tra i luoghi più battuti da Tugnì insieme con il cane Furia che tra gli alberi e i rivali dei fossi gli scovava grosse palle di trifola: la bella trifola bianca da agosto a Natale, poi la trifola nera fino a febbraio e la rossiccia marzuola.
Rimasto vedovo partì con l’unico figlio maschio superstite per Firenze. Ritornò poi nella terra natale a scorrazzare come prima e a incontrare la sua gente nelle osterie dove l’odore dei tartufi risvegliava i suoi più cari ricordi di vagabondo. E gli amici lo ascoltavano a bocca aperta come se fosse un padre: i suoi detti, i racconti della sua vita polarizzavano l’attenzione di tutti attorno alle belle tavole bagnate di albana e battute dai pugni degli avventori avvolti in nubi di fumo e capaci di passare repentinamente dalla lite alla risata più scrosciante.
Tugnì il vegliardo ultranonuagenanio, tracciava i profili dei suoi parenti garibaldini, degli amici e dei clienti o rievocava in modo fascinoso fiere e feste delle parrocchie che descriveva così: “Campiano dove si accamparono i soldati; la Serra dove i soldati fecero la trincea; Bergullo dove i soldati fecero l’albergo; Mazzolano sul rio Sanguinanio dove avvenne la battaglia; Ossano dove furono sepolte le ossa dei caduti; Biancanigo dove i cavalieri si batterono all’arma bianca; la Pace, dove nel 1100 fu fatta la pace. Ogni parrocchia mi dà la trifola e la trifola mi dà la forza di vedere ancora tante cose nuove e belle nel mondo”.
Ad ogni replica del racconto seguiva immancabilmente l’acclamazione dell’uditorio: “Evviva Tugnì la Bagliona!”.
Nell’inverno 1944 il fronte di guerra si porta sul Senio: Castel Bolognese è investito in pieno dalla bufera.
Tugnì la Bagliona ha 95 anni, ancora lucido e saldo sulle gambe ma costretto dagli eventi bellici a sopportare l’immobilità del rifugio.
Si ammala di bronchite e viene ricoverato nell’unico locale allora agibile e sicuro dell’ospedale: la cantina. Qui presta servizio civile come volontaria Rosalba, la nipote prediletta che un giorno gli aveva detto: “Se tu, nonno, dici che quando sarò grande morirai, voglio restare piccola”. Rosalba, che lo sente ripetere: “Aiutami, aiutami!”, lo assiste notte e giorno fino alla morte. E’ il 18 dicembre 1944.
Il funerale dell’amico di tutti si svolge in circostanze drammatiche.
Il custode del cimitero non ha il coraggio di muoversi a causa dei bombardamenti e consegna le chiavi alla nipote e al genero dell’estinto. La bara viene caricata dai due famigliari su un carretto sotto il quale, all’altezza del prato della Filippina, essi sono costretti a cercare riparo sorpresi da un’incursione aerea.
Nonostante la furia bellica il vecchio Tugnì può dirsi fortunato: viene condotto al camposanto da due famigliari che lo amano e che con le loro poche forze riescono a sollevare la bara fino ad introdurla al sicuro nel loculo a lui destinato accanto a quello della moglie.
In quello stesso loculo Tugnì la Bagliona riposa tuttora in pace.

S. Borghesi

Testo tratto da Il Nuovo Diario del 21 marzo 1998; fotografia tratta dal Fondo Stefano Borghesi, Biblioteca comunale di Castel Bolognese.

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