Biancini Archives - La Storia di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/tag/biancini/ Sun, 31 Jul 2022 21:22:50 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.7.1 Anzulè https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/artisti/anzule/ https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/artisti/anzule/#respond Sun, 31 Jul 2022 20:49:13 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=9794 (Premessa). Nel sito castelbolognese.org è sempre mancata una biografia di uno dei più grandi personaggi del nostro paese: Angelo Biancini. Non abbiamo mai trovato un testo che fosse soddisfacente, completo di tutto ma nel contempo abbastanza breve. Negli anni sono poi comparsi tanti testi su internet ed è nato un …

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(Premessa). Nel sito castelbolognese.org è sempre mancata una biografia di uno dei più grandi personaggi del nostro paese: Angelo Biancini. Non abbiamo mai trovato un testo che fosse soddisfacente, completo di tutto ma nel contempo abbastanza breve. Negli anni sono poi comparsi tanti testi su internet ed è nato un sito, in continua crescita, dedicato espressamente allo scultore: https://www.angelobiancini.com/. Vi invitiamo a visitarlo, così come vi invitiamo a leggere gli articoli che il nostro Valentino Donati sta pubblicando da alcuni anni sul periodico 2001 Romagna, con una dettagliata biografia a puntate a cui abbiamo dato, di tanto in tanto, un piccolo contributo.
Qualcosa ad Angelo Biancini vogliamo dedicare anche noi, e riproponiamo un articolo, con la firma prestigiosa di Orio Vergani, comparso nel 1959 sul Corriere della Sera, dedicato non tanto al Biancini scultore, ma al Biancini uomo. Crediamo sia una delle cose migliori scritte su Anzulè (e così si intitola l’articolo): una biografia bonaria, come la definisce Vergani stesso. Gli aneddoti si sprecano e alcuni sono oramai leggendari. L’articolo inizia parlando della madre di Anzulè, Francesca Diversi (1872-1970), e della festa annuale che Biancini organizzava in suo onore, in prossimità del suo compleanno, invitando tutti i suoi amici. Una festa che, divenuta sempre più partecipata, da casa Biancini fu poi spostata all’Albergo Ristorante Paradiso di Riolo Terme. Biancini stesso faceva stampare un invito per la festa, e ne parla anche nella toccante memoria funebre dedicata alla madre, a cui era legatissimo. Una volta mancata la mamma, Biancini mantenne la bella tradizione e il ritrovo annuale divenne, semplicemente, festa dell’amicizia, e per diversi anni si svolse al ristorante Spaventapasseri di Argenta. Interessantissimo anche il riferimento al nonno di Biancini, che si chiamava pure lui Angelo Biancini (1838-1910) ed era stato garibaldino, oltre ad essere stato cuoco nelle cucine di re Umberto I nonché in quelle del nostro ospedale. (Andrea Soglia)

di Orio Vergani
tratto dal Corriere della Sera, 18 marzo 1959

La madre di Angelo Biancini, lo scultore romagnolo autore del Crocifisso che Papa Giovanni XXIII ha donato alla città dove fu Patriarca, ha compiuto poche settimane or sono ottantasette anni. Il figlio le ha riunito attorno uno squadrone di nipoti, di nipotini, di parenti, di amici. C’era una grande tavola imbandita, che tagliava in mezzo la cucina perché, secondo il vecchio uso romagnolo, le donne di casa Biancini stavano ai fornelli, e dai fornelli alla tavola doveva esser breve il passo per le pentole, per i tegami, per le teglie. Alla prima tavola, che già si prolungava nell’anticamera, se ne aggiunsero altre, che formavano per le varie stanze, dal pianerottolo ai tinelli e fin sulla soglia delle camere da letto, una specie di snodatissima architettura astratta. Il vocìo degli invitati giungeva in strada, si spandeva sotto al portico, che ripara le passeggiate serali dei cittadini di Castelbolognese, nipoti e pronipoti degli antichi elettori di Giosuè Carducci. Il Sangiovese zampillava dalle damigiane, come l’acqua dagli otri di marmo delle antiche statue che raffigurano, allegoricamente il Nilo pingue e il Tevere barbuto. Dai magazzini dei grossisti di frutta — Castelbolognese è una delle “capitali” delle mele italiane — arrivava un profumo senza confini di renette.

E’ facile, disegnando il ritrattino di un romagnolo, che ci tenti il ricordo delle vecchie novelle di Antonio Beltramelli, e che si intinga la penna nel calamaio del “luogo comune” di una Romagna clamorosa, godereccia, assetata di Albana davanti a massicce imbandigioni di tortellini. Beltramelli fu un caro amico e anche, in alcuni capitoli, uno scrittore non trascurabile; ma, a guardar con una certa attenzione in quelle sue vecchie pagine, per le quali Renato Serra dettò un giudizio di una esattezza non superata, ci si avvede ch’egli, a suo modo, fu, con apparenze opposte, un dannunziano. Dalle “Novelle della Pescara” alla “Figlia di Jorio” colui che, anche se gli allievi gli si dichiaravano avversi, fu il maestro, allora, di tutti, aveva fatto gradatamente giganteggiare, sino a farne talvolta delle statue tragiche ma ogni tanto solamente delle maschere di una retorica regionalista, i personaggi delle genti d’Abruzzo, dai serpari dei primi racconti ai “Mietitori di Norca”. La letteratura regionalista italiana si popolò così di genti irsute, di femmine infocate, di malandrini che dormivano sotto siepi di gelsomino. Nello stesso anno 1904, l’abruzzese Gabriele di quarantun anni guidato dagli infoiati mietitori dalle gole ebbre di sole e di vino, approdò a Mila di Codro, e il Tognazz romagnolo, di venticinque, si incantò, dietro gli occhiali a farfallina, a rimirare il volto di Anna Perenna. La dimora beltramelliana della Sisa, due o tre chilometri fuori porta a Forlì, fra i poderi di Coccolia, fu, e poi sempre rimase, una specie di Capponcina dei folclòre romagnolo. Beltramelli sarebbe stato un uomo felice se avesse potuto disporre di cinquanta locali, per farne un museo del costume di Romagna, come aveva fatto, ad Arles, il poeta Mistral, cantore della provenzale Mirella. Provenza e Romagna molto si assomigliano. Accanto a D’Annunzio, fra i maestri indiretti del romagnolismo letterario, collocherei, come ho detto, Mistral, ma soprattutto Alphonse Daudet – il Cavalier Mostardo di Beltramelli senza ironiche allegrie, si specchia in Tartarino — e Paul Arène, l’autore di Jean des Figues e della Chèvre d’or.
A chi affidare un ritrattino di Biancini, che, senza volerlo, ha imposto agli amici d’ogni parte d’Italia di chiamarlo come si fa nella piana di Faenza, Anzulè? A Marino Moretti, così segretamente amaro, il primo e grande antismargiasso della narrativa di Romagna? A Francesco Serantini, tutto calato nei colori dell’Ottocento del Passatore? Al poeta e senatore Aldo Spallicci, chiuso con il suo caro e per noi ermetico dialetto fra i libri e i pini della sua casetta di Cervia? Ad Antonio Baldini, per metà di sangue romagnolo e per metà di sangue toscano, maestro nel cucinare gli “amici allo spiedo”? A tutti, fuorché, mi sia concesso, agli specialisti del romagnolismo – me lo perdoni la cara ombra del Tognazz di Coccolia… – che continuano a trascinarsi appresso quell’aggettivo di “solatia” così facilmente e tenacemente appiccicato all’immagine che da non so quanti decenni a questa parte ci si è fatta, appunto, della “Romagna solatia”.
Chi scrive queste righe non fa professione severa di critico d’arte. Due colossali autocarri carichi di bassorilievi in ceramica sono arrivati giorni fa a Milano, per esporre molti metri quadrati di bassorilievi di Biancini nel salone della Galleria di San Fedele: e in queste colonne ne ha parlato Leonardo Borgese. A me piace continuare nel mio ritrattino, secondo la mia vocazione che è quella del biografo bonario.
A quel tale pranzo per “Mamma Biancini” non potei essere presente: ma, nel gran frastuono di quel giorno, mi par di sentire aggiungersi il latrato dei cani di Anzulè, che non va a caccia, ma che alla custodia dei cani, come a fedelissime e feroci governanti, ha sempre affidato i suoi figli. Quello che li allevò da bambini e che ringhiava con ferine minacce se qualcuno si avvicinava alle loro culle, era un famoso divoratore di polpacci degli accalappiacani romagnoli. Nelle sere d’inverno, quando i geloni cominciavano a pungere, scaldava col fiato, il temibile lupo, le manine dei suoi protetti. Il vecchio cane, la belva affettuosa e terribile, non minaccia più, dalla buia scala di Anzulè; è ormai là, nel misterioso luogo da cui i cani fedeli vegliano ancora sulla sorte dei loro padroni. Al suo posto son cresciute altre belve, perché Biancini ha un affetto quasi medievale per i cani di alte membra e di minacciose fauci come nei conviti dipinti dal Veronese, e nel “pranzone” di Castelbolognese i cani di Anzulè campeggiano, fiutando il fondo dei pantaloni degli invitati, senza badare se si tratta del prefetto di Ravenna o del direttore del Museo della Ceramica di Faenza, e mettendo ogni tanto le zampe sulle tavole. Ciotole per loro sono sparse da tutte le parti, perché anch’essi festeggino la decana. Mamma Biancini non è a tavola, perché non si vuole che la vegliarda sia indotta in tentazioni gastronomiche non adatte ai suoi anni: siede ad un tavolino appartato, davanti ai suoi “assaggi” e, dietro ai suoi occhiali, controlla l’andamento della augurale bisboccia.
Fu una mammina un po’ dura di mani, come per necessità lo sono state le mamme che furono molto povere in gioventù. A forza di colpi di nocche sulla testa del figliolo, il suo Anzulè è cresciuto gigantesco. Razza solida: per quattro mesi, quando la guerra batteva orribilmente su tutta la Romagna, mamma Biancini visse, per così dire, sepolta viva in una cantina. Il figlio, uscito sotto alle cannonate per rubare in un campo qualche cavolo, si trovò ad essere “scavalcato” da una improvvisa avanzata americana; per quattro mesi, lacero e alla fine scalzo, vagò per la campagna senza poter più tornare a casa. Come campò? Staccando dei rami di pero o dì ciliegio, che trasformava in bastoni scolpendone il manico con un coltelluccio, e vendendoli ai negri, che aspettavano sui fiumiciattoli un nuovo ordine di avanzata. Intagliava bastoni come l’Aligi dannunziano, e intanto pensava che, con tutta probabilità, sua madre, la moglie, i figli, la sorella erano rimasti sfracellati da qualche bomba.
Suo nonno, di famiglia di contadini, era cuoco delle cucine di Re Umberto. La regina bionda che fu cantata dal Carducci assaggiò spesso, assieme, a Marco Minghetti suo maestro di latino, i tortellini del vecchio cuoco Biancini, che erano piaciuti anche ai legati di Pio IX. Anzulè lavora fin da ragazzo alle argille del Lamone come suo nonno lavorava nelle sfoglie di pasta all’uovo. Ragazzo passò l’Appennino, calò a Firenze, fu scolaro prediletto di Libero Andreotti. A venticinque anni scolpì i gruppi equestri per il ponte sull’Adige a Verona. I primi soldi che guadagnava li portò a casa, perché la mamma avesse una casuccia tranquilla. Non sciacquò in Arno i panni dei suo dialetto: non si ingentilì fra i camiciai dì via Calzaioli e i sarti di via Tornabuoni: non si rase mai i baffi ispidi e forti come pesanti scopettoni da pavimenti. Fu fedele al sarto del suo paese, alle stoffe di solidi e un po’ strani colori, alle camicie da carrettiere, ai maglioni da muratore. Non imitò un costume esistenzialista: restò fedele al vestire paesano, ai berrettoni da ciclista col paraorecchie. Quando lavorò all’Angelicum di Milano per collocare nel refettorio dei Padri Minori il bassorilievo dell’Ultima Cena, che è forse il capolavoro della ceramica moderna, girando per via Moscova vestiva in modo tale da essere scambiato – fosse stata notte – per un rapinatore, o, di giorno, per uno che andava a ricevere dai frati di Padre Zucca la pagnotta di Sant’Antonio Credo che sua madre, in ottantasette anni, non si sia mai allontanata da Castelbolognese, e che sia andata, una sola volta a Faenza. Biancini è abituato a comandare in famiglia; è lui che compra i mobili, che rifornisce la cantina, che arriva da Faenza, dove insegna, con un sacco di farina “zero-zero “. Ogni tanto sbarca con un pacco di stoffe sulla canna della bicicletta, e grida affettuosamente: “Ecco qua, donne! Vestitevi… “. Non ha mai ammesso che sua moglie e le figlie scegliessero una stoffa per proprio conto. Così si usava nella Romagna del Trecento, quando Dante viveva, vecchierello, a Ravenna. Alle otto e mezzo si va a letto, nelle stanze che vibrano per il traffico notturno della via Emilia. Alle quattro e mezzo Anzulè è sveglio, e alle cinque e mezzo è già in bicicletta per andare all’Istituto della Ceramica di Faenza dove insegna scultura. Alle sei bussa al portone della Scuola, e, fino alle otto, ha due ore buone per lavorare mentre il custode torna forse a dormire
E’ uno strano viaggiatore. Se deve venire a Milano sale, quando è possibile, su un camion di frutta, con la testa chiusa in un passamontagna di lana. Io ho fatto vari viaggi con lui: non gli ho mai visto una valigia. Gli albergatori devono fidarsi di questo viaggiatore che ha una camicia di ricambio in una tasca del pastrano, due paia di calzette nelle saccocce dei pantaloni e un pettinino nel taschino. Ma cosa gli occorrerebbe di più, se è quasi sempre ospite dei conventi e dei santuari dove va a lavorare? In città lo infastidiscono gli alberghi dove è così difficile avere in camera, alle quattro e mezzo del mattino, una pagnotta e mezzo litro di rosso per far colazione. Fino a qualche anno fa, quando partiva, sua madre gli consegnava un cartoccio di “crocette “, certe ciambelle di biscotto sulle quali denti che non siano quelli di Biancini o dei suoi cani non lasciano segni. Una volta mi aspettò tra la folla ad un passaggio del Giro d’Italia: mi sentii chiamare dalla sua voce tonante: lanciò attraverso il finestrino dell’automobile un pacco di quelle “crocette”: non fui svelto, mi presero in piena faccia, mi fecero sanguinare i denti, mentre sentivo la voce rombante, sempre più lontana, di Anzulè che gridava “Te le manda ia mia mamma!!!…”. Una volta arrivò a Milano alle sei del mattino: aveva viaggiate tutta notte con sulle ginocchia un branzino da cinque chili, avvolto nel ghiaccio. Fradicio d’acqua, con il gocciolante branzino, tenuto contro il gilet come un bambino, la portinaia lo fece salire alle stanze per la scala di servizio, ritenendolo un garzone pescivendolo. Per non disturbare, Anzulè depose il branzino sullo storino dell’ingresso, vicino alla bottiglia del latte, e sparì per correr a lavorare con i muratori dell’Angelicum per collocare una statua della Vergine. Una sera tarda di domenica, uscendo dal mio ufficio al giornale, sbagliò scala e si sperse nel buio degli uffici al pianterreno. Due guardiani gli saltarono addosso. Non capirono nemmeno una parola del dialetto con cui cercava di spiegarsi quel tipo che aveva il passo cauto di uno scassinatore: già lo palpavano per vedere se aveva addosso armi o trapani e “piedi di porco” quando accorsi ad una loro agitatissima chiamata.
Credo che dubitino ancora di me, che dissi: “Scassinatore? Ma se è il più caro e buon scultore di angeli e Madonne che ci sia in Italia…”.
Non credo vivessero diversamente gli scultori dei secoli dietro: il Brunelleschi, che andava a far la spesa in grembiule, Michelangelo vecchio che dormiva senza levarsi i pantaloni per un mese: e, più giù nel tempo, gli scultori romanici che riposavano come gli scalpellini sul pavimento dei Battisteri, mentre fuori sibilava l’inverno. Insomma, nella figura di un uomo di quarantotto anni, un italiano antico, quando gli scultori si chiamava modestamente “tagliapietre”. E se volete conoscere di lui l’altra faccia, e come lui veda Gesù e Maria, e gli Angeli e gli arcangeli, andate a San Fedele.

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I derelitti di Angelo Biancini, Monumento alle vittime civili di guerra https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/derelitti-angelo-biancini-monumento-alle-vittime-civili-guerra/ https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/derelitti-angelo-biancini-monumento-alle-vittime-civili-guerra/#respond Sun, 08 Oct 2017 22:19:21 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=6109 (a cura di Andrea Soglia) Non tutti sapranno che la bella fontana, posta al centro del chiostro del municipio di Castel Bolognese, costituisce il Monumento alle vittime civili di guerra ed è stato il primo monumento castellano in ordine di tempo a ricordare le tragedie belliche ed in particolare le …

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(a cura di Andrea Soglia)

Vista panoramica della fontana (foto tratta dal sito castelbolognesenews.eu)

Non tutti sapranno che la bella fontana, posta al centro del chiostro del municipio di Castel Bolognese, costituisce il Monumento alle vittime civili di guerra ed è stato il primo monumento castellano in ordine di tempo a ricordare le tragedie belliche ed in particolare le centinaia di morti e feriti fra la popolazione civile castellana.
Il monumento fu inaugurato il 24 novembre 1962 ed è stato riqualificato una decina di anni fa, quando la preesistente fontana fu inserita all’interno di una vasca esagonale.
Il complesso scultoreo che lo compone, denominato “I derelitti”, fu donato ed ideato dallo scultore castellano Angelo Biancini. E’ composto da due figure in bronzo di fanciulli seduti e raccolti su sè stessi, disposti diagonalmente sulla superficie di un basamento quadrato in travertino scabrato. La figura a sinistra misura cm 60×70, quella di destra cm 55×65 mentre il basamento misura cm 32x188x188.
“I derelitti”, già presentati a Milano nel 1956, costituiscono la rielaborazione di due diversi lavori realizzati da Biancini nel 1942 e oggi conservati a Roma presso la Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea: “Il derelitto del Senio” e “Il povero”, due sculture molto importanti nella produzione di Angelo Biancini, su cui numerosi critici si sono espressi. Riportiamo due brevi giudizi, uno di Sergio Baroni, che definisce “Il povero” “un’icona dell’innocenza disarmata di fronte agli orrori della guerra” e l’altro tratto da Vita e Pensiero, vol. 31, 1948, che a proposito del “Derelitto” scriveva “Una nota di poesia è data dalla sensibile scultura di Biancini, specie il bimbo derelitto il cui scheletro affiora doloroso sotto l’involucro stento dell’epidermide mentre la grossa testa reclina spira l’incapacità triste di rendersi conto del dramma, egli che pure è un ciotolo lasciato sul greto dalla fiumana che è trascorsa“.
All’inaugurazione del Monumento alle vittime civili di guerra presenziarono numerose autorità, fra i quali il Ministro della Marina mercantile on. Cino Macrelli, il senatore faentino Guglielmo Donati e il prefetto di Ravenna Eduardo Zappia. Angelo Biancini, che, come si legge sull’invito alla cerimonia aveva offerto ai concittadini il gruppo scultoreo, accompagnò poi le autorità ad una mostra collettiva di artisti castellani che si teneva nella chiesa di Santa Maria della Misericordia.
La riqualificazione del monumento aveva parzialmente nascosto la scritta “Alle vittime civili di guerra, i concittadini memori, 1945-1962”, che era originariamente stata posta sul pavimento del chiostro, e che era divenuta osservabile all’interno della vasca esagonale ma chiaramente leggibile solo quando la vasca era vuota o con acqua perfettamente pulita. Nella primavera del 2020 il fondo della vasca è stato rialzato per motivi di sicurezza e ciò ha portato la scritta quasi a pelo dell’acqua, rendendola più facilmente individuabile. Non sarebbe male, però, se nei pressi della fontana fosse posta una targhetta con il titolo e l’autore dell’opera, analogamente a quanto fatto per le varie sculture che compongono il Museo all’aperto Angelo Biancini, di cui “I derelitti”, per i motivi sopra esposti, sono uno dei pezzi di maggior significato.

L’inaugurazione del Monumento. Alla destra di don Giuseppe Sermasi il senatore Cino Macrelli, allora ministro della Marina Mercantile e il sindaco dell’epoca, Reginaldo Dal Pane (foto tratta dal volume “Uomini e cooperazione di credito fra due vallate”).

Copertina dell’invito all’inaugurazione del Monumento

Interno dell’invito all’inaugurazione del Monumento

 

Il monumento durante la nevicata della sera del 26 febbraio 2018 (foto di Ivan Morotti gentilmente concessa per il sito castelbolognese.org)

Bibliografia essenziale:
Angelo Biancini, le forme della scultura, Castel Bolognese, 1994

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Sante “Tino” Biancini (1904-2004) https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/vecchi-castellani/sante-biancini-1904-2004/ https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/vecchi-castellani/sante-biancini-1904-2004/#respond Tue, 10 Sep 2013 17:55:06 +0000 https://www.castelbolognese.org/uncategorized/in-memoria-di-tino-biancini/ In memoria – Tino Biancini: cento anni di vita e di storia Avrebbe compiuto cento anni il 31 agosto prossimo. A quanti dispiace di non poter festeggiare il raggiungimento del raro traguardo Tino ha lasciato comunque il ricordo indelebile del suo viso sorridente, il viso di un signore distinto, non …

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In memoria – Tino Biancini: cento anni di vita e di storia

https://www.castelbolognese.org/wp-content/uploads/2013/09/tino_biancini.jpg (34996 byte)Avrebbe compiuto cento anni il 31 agosto prossimo. A quanti dispiace di non poter festeggiare il raggiungimento del raro traguardo Tino ha lasciato comunque il ricordo indelebile del suo viso sorridente, il viso di un signore distinto, non segnato dagli anni, tanto da far desiderare a tutti di carpire il segreto di una fibra così ben conservatasi. Giustamente si diceva di lui che era intramontabile, come si suol dire di ogni persona che è ancora attiva dopo tanti anni di attività e ha un seguito di simpatie e di attestati di gratitudine, perché è sempre vissuta nell’apertura al prossimo e con spirito di servizio.
Cerchiamo di scoprire il segreto di una vita così bella e così lunga. Al centro dei suoi valori ideali e affetti sacri c’era innanzitutto la fede cattolica, testimoniata con la sapidità delle anime semplici ma spiritualmente elette. Tino si sosteneva con la preghiera rivolta a Padre Pio ma anche a San Giuseppe, tradizionalmente invocato patrono della buona morte che, per Tino, era tale se si risolveva in un sereno trapasso. Poi l’onestà e la dedizione zelante e disinteressata al lavoro, prestato al servizio di antiche farmacie locali. Tino era andato in pensione dopo 66 anni di lavoro, senza accusare alcun affaticamento, tanto da non rinunciare a rendersi disponibile in altri campi. Coltivò le passioni di sempre, in particolare quella per il teatro che condivise con l’inseparabile amico “Cavurì”: attori, registi, suggeritori della filodrammatica nata all’ombra del campanile di San Petronio. Tino e Cavurì condivisero pure l’amore del bello, un amore che tradussero soprattutto in un servizio reso alla Chiesa e alla parrocchia come generoso complemento della preghiera. Insieme allestivano il presepe per Natale, il sepolcro per Pasqua e provvedevano all’addobbo delle chiese castellane nelle solennità. Alla mirabile coppia era affidato anche un altro incarico particolare: la vestizione della statua della Beata Vergine della Concezione venerata nella chiesa di San Francesco. Nel passato la vestizione era un privilegio concesso solo alle “vergini” ovvero pie donne castellane non sposate, che eseguivano il compito a porte chiuse. Con il cambiamento di mentalità e il venir meno di pie donne siffatte, Cavurì e Tino subentrarono alle “vergini” e, quali precursori dei diaconi di oggi, furono tra i laici più addentrati nei servizi liturgici, i più fidati custodi delle tradizioni sacre. Né si deve dimenticare il servizio reso da Tino, finchè le forze glielo concessero, alle monache domenicane, alle quali ogni mattina di buon’ora e con esemplare puntualità portava il pane fresco.
Meritata fu dunque l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine di San Silvestro Papa, che a Tino fu conferita nel 1997 per interessamento dell’arciprete monsignor Dall’Osso a nome della comunità parrocchiale.
Tino apparteneva all’antica gens castellana dei Biancini. Il nonno materno, Luigi Tampieri, combattè con Garibaldi sui monti del Trentino per la libertà della Patria. La lapide, che si può leggere al cimitero, recita così: “Fu buon cittadino e onesto compendio di vita umana”. Non è forse esatto dire che con Tino se ne è andato un altro pezzo del vecchio Castello? Piuttosto con lui si estingue la schiera dei castellani doc la cui vita ha attraversato tutto il Novecento (un secolo già consegnato alla storia) incarnando la laboriosità, la creatività, lo spirito di sacrificio, la probità civica e religiosa che contraddistinsero generazioni di castellani rimasti impressi nella memoria di buona parte di noi. Ora Tino si è ricongiunto a Francesco Serantini e alla nonna Oliva, sua ispiratrice in quelle mirabili pagine di narrativa in cui Serantini ha dato a Castello i suoi inconfondibili colori, allo scultore Angelo Biancini, al liutaio Nicola da Castel Bolognese, ad Ubaldo Galli e, fra i tanti altri, all’indimenticabile pittore e poeta Fausto Ferlini, che ha celebrato in versi dialettali il viale dei cipressi che conduce all’estrema dimora di tutti i castellani.
Versi toccanti, che costituiscono un “amarcord” del vecchio Castello. Li rileggiamo per un omaggio affettuoso a Tino Biancini, in questa mesta circostanza del congedo da lui:

… Sol un vièl d’arzipress l’è armast cum ch’l’era
trama e su verd i va a puler j’uslèn
che ciacarend i ciama i vecc castlèn
e i dis a tott… durmè… durmè ch’l’è sera!

(discorso letto in San Petronio il 7/7/2004)

S. Borghesi

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Tommaso Biancini (1801-1835) https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/personaggi/tommaso-biancini-1801-1835/ https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/personaggi/tommaso-biancini-1801-1835/#respond Tue, 10 Sep 2013 17:55:06 +0000 https://www.castelbolognese.org/uncategorized/tommaso-biancini/ Tommaso Biancini (1) nacque a Castel Bolognese il 30 gennaio 1801 (2), da Giuseppe e Olimpia Scardovi. Avendo egli dimostrato sin da fanciullo un non comune ingegno, fu collocato dal padre nel prestigioso Seminario di Faenza, ove aveva studiato, qualche decennio prima, anche il grande Vincenzo Monti. Una volta compiuto il corso di …

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Tommaso Biancini (1) nacque a Castel Bolognese il 30 gennaio 1801 (2), da Giuseppe e Olimpia Scardovi. Avendo egli dimostrato sin da fanciullo un non comune ingegno, fu collocato dal padre nel prestigioso Seminario di Faenza, ove aveva studiato, qualche decennio prima, anche il grande Vincenzo Monti. Una volta compiuto il corso di lettere umane, il giovane Biancini si dedicò agli studi di filosofia e di geometria frequentando altre ottime scuole di Faenza.

Trovando assecondata in famiglia la sua irresistibile inclinazione per gli studi anatomici, nel 1820 il Biancini si trasferì quindi a Firenze dove, frequentando l’Arcispedale di Santa Maria Nuova, conseguì, nel 1826, la laurea in Medicina e Chirurgia.

Ottenuta la laurea, il Biancini potè dedicarsi completamente all’anatomia e divenne ben presto famoso per le sue preparazioni anatomiche che, oltre ad essere donate al Museo anatomo-patologico dell’Arcispedale e a quello dell’Accademia Medico-Fisica di Firenze, furono persino spedite, a seguito di diretta richiesta, in America. Il valore del Biancini fu ben presto riconosciuto anche dal Governo Toscano che, il 5 gennaio 1828, lo elesse a Dissettore e Ripetitore anatomico nell’Università di Pisa. Per opera sua fu istituito il Museo di Anatomia Umana, inaugurato il 15 novembre 1832.
Nel 1833, in sostituzione di un professore ammalato, si dedicò all’insegnamento della fisiologia e della patologia in un modo talmente proficuo ed originale che, nel settembre del 1834, un Motu Proprio sovrano gli conferiva il titolo di Professore nelle sopracitate materie.
Appena tre giorni dopo la nomina a Professore il Biancini si ammalò gravemente, sopravvivendo solo alcuni mesi. Morì, infatti, a Pisa il 16 febbraio 1835, lasciando la moglie Francesca Alboni (sposata nel dicembre del 1825 (3) ) e due figli, Francesco e Laura.
Il 7 aprile successivo, nella Chiesa di San Michele in Borgo, fu letto un Elogio funebre in suo onore, scritto da Giovanni Carmignani.

Nel 1838 fu murata in sua memoria nel Museo Patologico di Pisa una lapide, con una iscrizione latina. Anche il suo paese natale, Castel Bolognese, gli rese omaggio qualche decennio più tardi, intitolandogli una via del centro storico.

Già dal 1823, quando era ancora studente, il Biancini iniziò a partecipare al dibattito scientifico e pubblicò una dissertazione dal titolo “ Risposta di Tommaso Biancini alla dissertazione del Sig. Giovanni Battista Bellini sopra la vera struttura dell’utero” (4). In essa si dimostrava, attraverso osservazioni ingegnose e nuovi argomenti di notomia comparata, l’esistenza di fibre muscolari all’interno dell’utero. Nel 1827 il Biancini si impegnò in ricerche anatomiche sui vasi linfatici, perfezionando la tecnica di iniezione, inventata pochi anni prima da Paolo Mascagni, e pubblicando sull’argomento una monografia.

Nel 1828-29 Biancini studiò un feto privo di cervello e di midollo spinale, e scrisse una memoria dal titolo “ Di una anencefalia. Osservazione anatomica fatta nel febbraio 1828.” (5)
Nel 1833 Biancini di nuovo indirizzò i suoi studi verso l’anatomia dell’apparato genitale femminile e stabilì dapprima “la continuità del tessuto fra l’utero e la placenta”, dimostrando che “la comunicazione tra l’uno e l’altra era immediata”, poi giunse a stabilire che “la placenta non è divisa in due parti, l’una uterina l’altra fetale, ma il suo vero tessuto è unico, ramoso, reticulare, onde il sangue nutrica in un tempo stesso il feto, e la placenta in cui si ravvolge”. I risultati di queste ricerche furono pubblicati in varie memorie, una delle quali si intitola “Sul commercio sanguigno fra madre e il feto” (6).
Nel 1834, poco prima di ammalarsi, Biancini iniziò alcuni studi sul cuore e per primo dimostrò che esisteva “tra gli atrii, e i ventricoli un tessuto ligamentoso; nel quale, come le radici di due diversi alberi in un terreno medesimo, le fibre musculari dell’una cavità, e dell’altra si impiantano”. Fu dimostrata così la continuità fra le fibre muscolari degli atrii e quelle dei ventricoli.

Per questi studi fu chiamato a partecipare a numerose Società Scientifiche, tra le quali ricordiamo la Società Medica Chirurgica di Bologna (1828), la Società Medica di Livorno (1830), l’Accademia di Lettere, Scienze ed Arti Economiche di Bologna (1832) e la Società Frenologica di Parigi (1834) (7).

Andrea Soglia

(1) Gran parte delle notizie sulla vita del Biancini provengono da: Elogio funebre alla memoria di Tommaso Biancini già professore nella Università di Pisa detto nella Chiesa di S. Michele in Borgo il dì 7 aprile 1835, Pisa, 1835.
(2) La data di nascita corretta è dedotta dall’atto di battesimo (Archivio Parrocchiale di S. Petronio, Castel Bolognese. Registri dei Battesimi. Libro XX). L’elogio funebre citato riporta come data di nascita il 21 ottobre 1801.
(3) Il Biancini sposò la faentina Francesca Alboni una volta ultimati gli studi, dopo 6 anni di fidanzamento e di lontananza. La rara fedeltà degli sposi colpì Giovanni Damasceno Bragaldi, illustre politico e letterato di Castel Bolognese, che compose il sonetto di nozze.
(4) Risposta di Tommaso Biancini alla dissertazione del Sig. Gio B. Bellini sopra la vera struttura dell’utero, Firenze, 1823
(5) Di una anencefalia. Osservazione anatomica fatta nel febbraio 1828, Pisa, 1829
(6) Sul commercio sanguigno fra madre e il feto. Lezione detta all’Accademia Medico-Fisica Fiorentina nell’adunata del dì 9 dicembre 1827, Pisa, 1833
(7) Biblioteca Comunale di Castel Bolognese: G. EMILIANI, Cenni storici biografici di Castelbolognese, manoscritto.

Contributo originale per “La storia di Castel Bolognese”.
Per citare questo articolo:
Andrea Soglia, Tommaso Biancini, in https://www.castelbolognese.org

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