Pittuto
(Introduzione) Pubblichiamo questa semisconosciuta novella, una delle prime di Serantini, pur non essendo riusciti ad identificare i due principali personaggi di essa, ossia Giuseppe Casadio detto Pittuto e il garibaldino Simone Zama. Sicuramente Serantini si era ispirato a personaggi castellani realmente esistiti modificandone il nome, ma in modo tale da non renderli immediatamente riconoscibili. Di altri personaggi citati nella novella, Serantini si era limitato a “storpiarne” leggermente i nomi e quindi, quando possibile, abbiamo inserito il reale nome. In alcuni casi, poi, nomi e soprannomi dei personaggi sono quelli originali.
La novella è molto interessante dapprima per la storia di Pittuto, che incarna uno dei tanti “semplici di cuore” che animeranno molte delle successive novelle di Francesco Serantini; poi perché l’autore descrive il clima di Castel Bolognese nel periodo immediatamente precedente all’entrata dell’Italia nella Grande Guerra e la divisione fra interventisti e neutralisti; infine perché Serantini racconta la morte di un eroe romagnolo famoso, Decio Raggi, che fa da contraltare a quella del commilitone Pittuto, eroe suo malgrado ma destinato ad essere dimenticato dalla storia.
Scritta da Francesco Serantini durante la guerra, nei mesi di gennaio, febbraio e marzo 1917, la novella apparve sul “Giornale del Mattino” del 23 febbraio 1919. Come tante altre, anche questa novella fu successivamente rimaneggiata dall’autore, che mutò il titolo in “Gli eroi”, ma a differenza di altri casi, la nuova versione rimase inedita.
Ringraziamo per la trascrizione/digitalizzazione Alessia Bruni e Tomaso Marabini e doppiamente Tomaso Marabini per avercela segnalata. (A.S.)
di Francesco Serantini
(tratto dal “Giornale del Mattino”, 23 febbraio 1919)
Al mondo Pittuto possedeva due cose che rappresentavano tutto per lui; un asino nominato Peppino e un violino. La bestia e lo strumento erano i suoi amici, i suoi fratelli, l’amore delle sue viscere, ciò che egli aveva più caro nella sua dolce vita. Perché Pittuto era felice, sebbene non amasse gli uomini e le donne si facessero beffe di lui, come sembrava un po’ semplice. Una notte la Luigiazza, una femmina che saziava i carrettieri sul fieno degli stallatici, s’era introdotta da lui ebbra di foia perversa e di vino e là, sulla mangiatoia, sotto gli occhi esterrefatti del fidato amico, aveva fiaccato l’adolescente vergine che era rimasto altri due giorni a gemervi per la febbre e il ribrezzi. Or dunque né pure le donne amava, nessuna, senza riguardo verso sua madre, che, del resto, non aveva conosciuta mai: né lei, né suo padre.
Per tal modo non aveva debiti verso la società.
Per conto suo, si fidava poco degli uomini, perché era persuaso che non fossero buoni e non si amassero niente affatto fra loro. Questo glielo aveva detto anche Stròscia [Francesco Topi, ndr] che, quand’era briaco, sentenziava alla maniera dei saggi:
«Sta attento a quello che ti dico io: il lupo mangia il cristiano quando proprio non trova altro per cavarsi la fame e allora è nel suo diritto, non ti pare? l’uomo invece dice male del prossimo, perché si ci diverte e gli serve per ammazzare l’ozio. E’, o non è così?».
Con Stròscia si intratteneva volentieri; erano vicino di uscio e quasi tutte le sere nel cortile scambiavano quattro chiacchiere, l’uno strigliando spazzolando lustrando l’asinello, l’altro seduto avanti un monte di cenci che veniva scernendo con cura, dividendoli secondo la qualità e il colore. Lo stambugio di Stròscia era attiguo alla stalla di Pittuto; quegli dormiva in un lettuccio sepolto dietro le balle degli stracci, questi nella mangiatoia ove s’era acconciato benissimo. Una tavola per traverso divideva la sua testa dalle umide froge di Peppino, si che tutte le mattine, al primo svegliarsi, allungando indietro un braccio, egli carezzava con fraterno amore le lunghe orecchie del suo amico.
Poi partivano, l’uno tirando il carretto, l’altro camminandogli accosto, sbocconcellando un pane, incitandolo a parole con un grido allegro, con qualche colpetto affettuoso sulla groppa lucida, dividendo con lui la colazione; andavano per le larghe strade del pian di Romagna sotto il buon sole, verso i paesi raccolti fra mura turrite o slargantisi nei quadrivi luminosi, verso i casolari occhieggianti fra le campagne opulenti, in quella verde feconda terra ove gli uomini sono adusti e rudi e le donne hanno le labbra dolci come il vino dei grappoli e i seni erti sul torso agile e snello. E tornavano a sera, l’uno sempre vicino a l’altro, quando il sole calava dietro Monte Mauro elevante nel cielo purissimo i ruderi del suo castello e ovunque incominciava la tregua del lavoro. Allora dai campi, dalle aie, dalle piazze, da tutta la terra soffusa della rossa luce del tramonto salivano canti vicini e lontani, voci di richiamo, liete grida di bimbi, tutta la gioia della vita, il respiro largo che dà il lavoro, la soddisfazione serena del riposo, il sentimento esuberante da ogni anima davanti allo spettacolo del cielo e della terra.
A casa, il ragazzo puliva l’asinello e, dopo il pasto frugale, suonava a lungo. Così vivevano quei due esseri di cui l’uno aveva visto nascere l’altro, che dividevano il letto e il pane, campando di lor fatica.
Una volta Pittuto ebbe compassione di una vecchia che aveva i piedi piagati e la fece salire sul carrettino. Per nessuna ragione mai egli avrebbe gravato il suo asino di soma umana; Peppino, in vita sua, non portò che quella vecchia la quale probabilmente era una strega. Costei, per sdebitarsi raccontò al ragazzo che sua madre era stata una povera serva e suo padre un vecchio signore che giocava agli scacchi da solo e passava molte notti strologando le stelle. Morendo, poiché era un uomo timorato di Dio, aveva diviso il molto fra i preti e frati e un lontano parente ricchissimo. I preti e i frati avevano durato un mese sano a cantare messe in suffraggio dell’anima sua. La vecchia aggiungeva che colui era stimato ovunque e passava per un degno e onorato signore.
Quando a lui, Pittuto, si era trovato in una casa di villani, più nudo di tutti fra una torma di ragazzi malvestiti i quali lo picchiavano volentieri e lo deridevano ogni volta egli chiamasse mamma e babbo la loro mamma e il loro babbo:
«Stupido, non sai che la nostra mamma non è la tua?».
Egli non capiva. Allora, non sapendo quale appellativo dare a quei due dai quali aveva più calci che carezze e più male parole che pane, non li chiamò più e fu finita. Così a cinque anni aveva imparato a parlare poco e a dieci meno che a cinque. Nessuno si era curato di mandarlo a scuola, però Dorina, che andava in terza, gli aveva insegnati i numeri. In tal modo aveva contati quelli di casa, compresi due gatti e il cane, le galline, gli alberi dei filari, i travicelli del soffitto della stalla ove dormiva in compagnia dei buoi e di un asino. Inoltre aveva contati i bottoni del panciotto del signor Bernardo, il padrone, certe belle patacche nere col brillante di vetro nel mezzo che facevano un gran vedere sulla sua epa rotonda. Costui doveva essere un potente signore perché comandava a voce alta e Coriolano, quel suo padrigno putativo, che era un orso, gli si sberrettava sempre con grande unzione.
Una notte, destatosi di soprassalto, si trovò legato come un salame, con la bocca imbavagliata e fu a un pelo di morire di paura. I ladri portarono via le bestie. Sotto il portico fu trovato Fido, il cane, stecchito per aver abboccato a una polpetta che gli avevano gettata. Per fortuna Pittuto riuscì a liberarsi dal bavaglio e si trovò ancora tanto fiato in corpo da mettersi a urlare. Ne venne che Coriolano, in camicia, correndo qua e là per i campi come un ossesso bestemmiando orrendamente e sparando fucilate alla cieca, riuscì a ricuperare gli animali che i ladri abbandonarono.
In quella occasione, come fu chiamato in pretura per deporre, come si dice in criminale, seppe il suo nome. Giuseppe Casadio detto Pittuto.
E questo fu l’unico compenso perché, per via della gran paura divenne balbuziente e parve perdere quel po’ di giudizio che si trovava.
Forse aveva dodici anni quando strinse patto di garzoneria, per duecento lire l’anno, con Bastiano del Bozzo e abbandonò Coriolano. Ora Bartolino, figlio di Bastiano, libero pensatore e socialista militante, in omaggio ai dettami di sua fede, si ingegnò alla meglio che sapeva per insegnare di leggere al garzoncello, per modo che questi poté con alquanta fatica sillabare la
«Face» palestra di liberi spiriti, di cui Bartolino era strenuissimo propugnatore e sostenitore sempre che si trattasse di menar le mani e di versare l’obolo; ma in capo a quattro anni tolse ancora congedo dal padrone, salutò Bartolino e la «Face» e se ne venne al paese con cento scudi di risparmio e un’asina gravida che Bastiano gli aveva venduta. Comperò un carretto, tolse in affittanza una stalla che serviva anche per lui e si pose a lavorare al servizio di chiunque lo comandasse. E un giorno l’asina, sentendosi stanca, se ne morì, lasciandogli sulle braccia un redo a pena divezzato che fu poi Peppino, il suo pupillo, il fratel suo dolce.
Occupava il bugigattolo accanto al suo un vecchio suonatore ambulante che si chiamava Gasparone. Costui forse era stato col Passatore, forse contrabbandiere, poi fuoruscito e infine aveva combattuto sotto Garibaldi; nessuno sapeva la sua età, ma tutti conoscevano la sua barba bianca e un violino famoso che egli faceva parlare per le fiere delle terre di Romagna. Ora il vecchio, tremulo per anni e quasi cieco, attendeva tranquillo la morte e non usciva più in giro. E amò, lui freddo e solo, l’altro solitario e sperduto nella dura via e gli disse le buone parole che fanno bene all’anima e gli insegnò i segreti delle cose semplici, saggezza di vita ignota a tanti sapienti raccolta a briciole per le vie del mondo. E anche il violino gli insegnò a suonare, il suo bel violino che il vegliardo palpava con le dure aride mani fatte lievi e gentili nel tocco amoroso. Poi il suo amico partì, spegnendosi dolcemente una notte, vegliato da Pittuto cui lasciò lo strumento e che lo aiutò, pochi istanti prima, a indossare la sua bella camicia rossa. Ora Peppino lo aiutava validamente e il pane e il fieno non mancavano mai.
Anni passarono su quella felicità serena.
…
E venne tempo che si parlò di guerra e la voce corse il paese di Romagna come un turbine scatenandovi furiosamente tutte le passioni, agitando negli uomini tutti i desideri. Il vento passava sulle città saturandosi di urlamenti e la terra ribolliva come in una convulsione mostruosa.
Il bene e il male, l’amore e l’odio, la gioia e il dolore, la preghiera e l’imprecazione, l’offerta e la negazione, tutto ciò che esalta e tutto ciò che fiacca cozzavano, si accavallavano, si mescolavano, si confondevano dì e notte nelle vie, sulle piazze, sui quadrivi. Tutte le impurità e tutte le bellezze, tutte le verità e tutte le eresie, ogni idea di libertà e ogni forma di schiavitù, le cose sacre e le cose empie schiumavano sulla marea degli uomini urtandosi nella tempesta.
Ora la primavera soffiava sulla terra il suo tiepido fiato fecondo e la linfa circolava nelle piante e negli animali più calda, più sciolta, gonfiando le vene e spaccando le cortecce, seme scorrevole potente carico di innumerevoli vite.
Gravi decisioni parevano imminenti e pure gli orizzonti erano incerti e scuri. La vita era come la corda tesa dell’arco.
Sulla piazza, sui innumeri voli di rondini, in un tramonto rosso, un giovine parlava. Era alto, pallido, vestito di scuro, con la cravatta nera svolazzante; aveva gli occhi chiari e sereni sotto la fronte grande e il naso diritto e forte. La sua voce suonava limpida nel silenzio:
«Uomini, udite, io vi parlo la dottrina del Maestro, di colui che tutti veneriamo, ascoltate le sue parole: – Santa è ogni guerra comandata dalla necessità di un progresso vitale verso il fine comune assolutamente vietato per ogni altra via, o contro chi contende a un popolo la libertà di compiere la propria missione. Come i membri di una famiglia i popoli sono, a seconda dei loro mezzi, solidali e chiamati a combattere il male ovunque si accampa e a promuovere il bene ovunque può compiersi. Le Nazioni che rimangono spettatrici inerti di guerre ingiuste e ispirate da egoismo dinastico o nazionale non avranno, il giorno in cui saranno alla loro volta assalite, che spettatori».
La figura dell’«Esule smorto» sorgeva gigantesca e severa della sua stessa profezia.
Mormorî lunghi come increspamenti di acque serpeggiavano nella turba ogni petto respirava più forte, ogni cuore batteva più frequente. Il ritmo della vita aveva l’ineguaglianza del polso febbrile.
Molti, presi dalla passione, lasciavano ogni altra cura. Le discussioni tenevano le menti come demoni urlanti.
Il Caffè della Guerra era la rocca degli interventisti, mentre chiunque gridasse abbasso e moia era accolto e lodato nel Caffè del Borgo. A nessuno era lecito vivere privo d’opinione la quale non poteva essere che di una specie: o pro, o contro. Non si ammettevano tergiversazioni, né incertezze, né sfumature.
Gli scialbi, gli incolori, i pusilli erano scomparsi o poco si facevano vedere. Il cavaliere Rambò si era tappato in casa. Il cavaliere Rambò, assessore comunale, celibe, ricco, aveva cinquant’anni e in politica parteggiava sempre per chi restasse sopra. Era di quelli che si sogliono chiamare i bempensanti. Uomini di tal fatta amano il quieto vivere, mangiano generalmente bene, bevono meglio e hanno quasi sempre la serva. Inoltre tengono in serbo per le occasioni qualche incommodo scelto tra i tanti che la Provvidenza ha distribuiti all’umanità, come la renella, la gotta, l’acido urico e simili. Il cavaliere Rambò si fece venire i reumi per modo che la serva dovette fargli molti massaggi. Più massaggi del solito.
Chi centellinava il buon caffè di Gianni il Maschio [Giovanni Tosi, volontario a Domokos, ndr] era per la guerra. Così Leone Satis, che ci veniva da trent’anni a fare il pisolino in un cantuccio dopo desinare, divenne interventista egli insieme con Natale del Taglino che ci veniva a giocare ai tarocchi. Leone in vita sua non aveva amato che i cavalli, Natale era analfabeta, aveva la lingua sciolta e la mano destra a dare e rimescolare le carte.
Capeggiavano il gruppo Sante Dosi [Sante Tosi, ndr] arguto e sottile, col cuore giovine e i capelli bianchi. Oreste Gianelli [Oreste Zanelli, ndr] pallida e pensosa figura di asceta anarchico e il fratel suo Mario repubblicano di fierissime tradizioni. E v’era Ribello Giacobazzi [Ribelle Cavallazzi, ndr], magnifico esemplare della multiforme razza romagnola, ingegno vivacissimo autodidatta, poeta, musico, artefice di qualunque cosa si mettesse in capo di costruire, e Fazzi fornaio [Antonio Raccagna detto Gnazi, ndr] v’era e Ugone del Badoia [Ugo Costa, ndr] e molti altri, gente risoluta di cuore saldo e di robuste pugna.
Più volte le 2 fazioni furono per assalirsi e giorni tristissimi trascorsero. Oratori di ogni parte agitavano le idee, scaldavano gli intelletti, esaltavano gli animi.
Ormai la terra era nel colmo del suo risveglio e si era tutta quanta vestita di verde.
Un giorno arrivò dall’America Francesco Budini, che poi doveva morire, capitò in piazza verso sera con le mani in tasca e una bella pipa di schiuma tra le labbra, così, semplicemente, con un suo passo calmo e tranquillo come se venisse da una passeggiata. Disse:
«Sono venuto a combattere; viva l’Italia!».
Simone Zama lo abbracciò piangendo. Simone Zama aveva posto domicilio in piazza e tutto il giorno era là a dire a ascoltare a riportare a comentare. Il gran vecchio aveva ottant’anni, due enormi baffi bianchi sotto due occhi spiritati e un corpo maravigliosamente vigoroso. A Roma nel ’49 a quindici anni si era battuto per la Repubblica, poscia non aveva posato più: coi Mille, nel Tirolo, a Mentana, a Digione, con Lui sempre con Garibaldi, e sempre per la Libertà.
«Viva l’Italia! ah, perché non c’è più? Signore, fallo rivivere, fallo ritornare, Signore fammi vedere il tuo segno, Signore Iddio, fallo comparire un’ora, un istante solo, Signore che sei onnipotente!».
Il vecchio pregava così e piangeva come un fanciullo. Aveva negli occhi la luce inspirata dei martiri e dei profeti. Un giorno perdette la fede e singhiozzò: «E’ finita; è meglio morire!». Tremava brividi lunghi come se avesse la febbre.
Volgevano le giornate oscure; i destini della Patria parevano tramontare in una bruma ambigua, opaca e inerte; qualche cosa di viscido, di innominabile, di inafferrabile sommoveva il fango che saliva a coprire, a contaminare, a soffocare. L’attesa era angosciosa come la pausa di un rito immane, paurosa come i silenzi dell’ignoto. Un gran fuoco divorava il cuore degli uomini e le notizie erano attese con ansia avida. Ognuno, rattenendo il respiro, sentiva urtare il sangue contro le vene.
E vi fu, una di quelle sere, rumore di tripudi verso il Caffè del Borgo e dall’altra parte uomini si mossero taciti, minacciosi, parati a ogni evento.
Nella mite sera di maggio, piena di serenità luminosa, carica di mille profumi, in quelle calme ore misteriose che precedono la notte e il richiamo dell’amore prende i sensi in un languore dolcissimo, la violenza era negli atteggiamenti, nei gesti, sui volti, nel volgere degli sguardi. Qualche lama brillò. Ormai gli uomini erano di fronte.
Veniva da tutti i campanili il suono della salutazione angelica e da tutte le case l’affaccendarsi per la cena imminente: deschi coronati di piccole teste irrequiete, sorrise di piccole bocche voraci, benedetti dalla canizie dei vecchi.
I petti respiravano minacciosi nell’affanno delle ire mal represse. Tutte le impurità dei desideri, tutte le violenze della passione, tutta la foia bestiale dei maschi in calore parevano dovessero sommarsi per esplodere nella strage. Gli occhi avevano la concupiscenza della carne lacerata, delle vene aperte vomitanti i gomitoli del sangue e le mani brancicavano come nell’orgasmo del piacere. L’aria bruciava la pelle degli uomini.
Scendeva di levante, dalla lontana spiaggia del mare, un odore di salsedine, ma il profumo acuto della pineta vi aveva mescolata la sua resina e le grande praterie l’essenza delle loro erbe. L’amore e la morte, le due cose perfette, potevano egualmente compiersi in quell’ora.
E quando la strage pareva inevitabile e si maturava in un mostruoso silenzio fatto di lampeggiamenti di pupille, quando non si aspettava che il segno, accadde il portento: Simone Zama, più grande, più bianco della morte, giunse ansante per la corsa, affannato per l’orrore, con gli occhi smisuratamente dilatati; arrivò tra gli uomini barbugliando parole tronche, incomprensibili, strappandosi la camicia sul petto. Tre cicatrici lunghe, profonde apparvero. Una era sotto il costato come quella di Cristo Redentore. Fu l’ultimo gesto. Il magnanimo vecchio si abbatté al suolo con le braccia aperte senza un gemito. Il suo gran cuore, che gli si era rotto nel petto, l’aveva ucciso.
…
Oh rifiorenti giornate di maggio!
Continuamente i soldati passavano, a piedi, sui treni zeppi, stivati nelle grandi automobili rombanti. Dalle caserme delle città, incapaci a contenerli, dilagavano sciamando nei paesi vicini. Erano belli e tutti li benedivano e le donne li amavano. Essi erano l’Italia.
Giunsero anche al paese di Pittuto, e un plotone occupò il cortile; avevano le mostre gialle ed erano di Romagna. Che allegria! cantavano spesso una canzone preferita:
O Romagna bella Romagna
Tu sei forte, tu sei bella,
Dei tuoi figli sei la stella,
Tu sei fiore di libertà.
La sapevano tutti, era la loro canzone, la marcia della Brigata gialla, quella che le fanfare suonavano, che era destinata a squillare sui campi di battaglia sotto le tempeste di ferro.
Il trombettiere la insegnò a Pittuto il quale la ripeteva mirabilmente sul violino e anche con la tromba. Il ragazzo era divenuto amico coi soldati. Quanto entusiasmo avevano mai quei giovani! Ma non li attendeva la morte?
Pittuto pensava a lungo. Un giorno aveva chiesto a Simone Zama:
«Perché ci dev’essere la guerra, Simone?»
«Per la giustizia e per la libertà.»
«Simone, che cos’è la libertà»
«E’ più dell’aria che si respira.»
«Ragazzo, vieni dunque con noi – gli disse un giorno un caporalino biondo e gentile come una fanciulla – staremo allegri, vedrai!»
«Ma per chi combatteremo?»
L’altro lo guardò negli occhi con gli onesti suoi occhi azzurri, poi prendendogli le mani, lo attirò a sé dolcemente come un fanciullo da ravvedere con bontà, piamente come un piccolo peccatore da redimere:
«Oh, fratello, ma la Patria è dunque nulla se ci ha dato la vita se è la Madre prima di tutti gli italiani?» la voce del giovine tremava di tenerezza commossa e gli occhi si riempirono di lacrime.
Una vita nuova incominciava. Il ritmo eguale era interrotto spezzato, gli uomini foggiavano sé stessi nella disciplina di abitudini novelle.
E soldati e soldati sempre e ovunque. Oh glorioso grigio verde come potremo dimenticarti?
Tutto si rinnova, perfino il dolore delle madri era forte e dava un pianto silenzioso, quanti fiori, quante benedizioni accompagnarono i partenti! Cantavano alto. Era la voce possente della Patria che si era levata in piedi.
Così nella fruttifera primavera cominciò la risurrezione.
…
«Sì, Pittuto».
«… e lo governerai come facevo io, tutte le sere, e non lo farai stancare e per la strada gli camminerai vicino e gli darai del tuo pane come facevo io …»
«Sì, Pittuto.»
«e gli vorrai bene come te stesso e … Stròscia, giurami che farai anche questo!»
L’onesto Stròscia si beveva a uno a uno i lacrimoni che gli rotolavano giù in silenzio.
«Tutto quello che vorrai.»
«gli dormirai vicino nel posto ove dormivo io.»
«Sì, Pittuto.»
L’aurora dalle dite rosate tingeva l’oriente.
Il ragazzo era pallido e tremava un poco, ma gli occhi gli brillavano pieni di una luce nuova. Era vestito tutto di grigio verde e a tracolla portava, ben chiuso nella sua guaina, il suo violino. Peppino attendeva tranquillo, mangiandosi placidamente un bel quarto di pagnotta; Stròscia si asciugò la faccia con il dorso della mano e si abbracciarono. Fermo in mezzo alla maestosa strada consolare, Pittuto li vide partire e perdersi lontano. Andavano col destino.
Allora un grande singhiozzo gli ruppe dal petto e si inginocchiò:
«Oh Patria, oh Patria mia!!»
La compagnia era schierata per quattro.
«Ci siamo tutti?» domandò forte il tenente.
Tutti fu risposto.
No.
Ce n’era uno di più.
Malanconico autunno che hai i più tersi cieli e le notti più sfavillanti, tu riempi l’anima d’amore come la primavera ne riempie i corpi.
Nel campo, fin dove il suono giungeva, tutti stavano a ascoltare. Erano le canzoni della dolce terra e il suonatore trasfondeva l’anima nello strumento. Pareva si struggesse, pareva languisse di passione. Le madri, le sorelle, le donne amanti, i figli, rievocati, venivano. Chi non aveva cantato, chi non aveva udito suonare qualcuna di quelle canzoni?
Romagna la bella rifioriva davanti gli occhi dei suoi figli.
Tripudi carnevaleschi e serenate a lume della luna, canzoni di sfogliatrici, di mietitrici, di vendemmiatrici ebbre per l’odore del mosto, canti solenni come preghiere, nenie lunghe sotto il solleone cadenzate col motto della falce, cantilene tarde come il passo dei buoi aggiogati all’aratro e poi tutti i ritornelli, gli strambotti, i cori che si cantano nelle veglie, nelle sagre, nei conviti riecheggiavano in quella musica primitiva, ma facile piana commovente che ricorda i luoghi gli aspetti le persone della casa.
Le stelle tremavano d’amore come i cuori dei soldati, come le lacrime che brillavano sulle ciglia.
Veniva dalla linea, or sì or no, la voce del cannone.
Poi, ai comandi brevi, precisi, dati a voce bassa, tutti furono pronti. Il violino tacque. I cuori tornavano di bronzo, le anime si rivestivano di ardore disperato e tenace. Ordinatissime nella oscurità le compagnie si mossero. Era il cambio. Tornavano faccia al nemico.
Altri scendevano sfilando tacitamente; erano uomini della stessa terra, il verde insanguinato di una Brigata gloriosissima.
Correva il primo autunno della guerra.
L’attacco.
L’inferno scatenato sulla terra una cosa inenarrabile indescrivibile non immaginabile.
Poco prima di scattare, il tenente aveva parlato loro. Quel tenente era un eroe. Era nato sul Rubicone. Il suo profilo pareva tolto da una medaglia delle antiche età. Cesare ne avrebbe fatto un centurione, la Repubblica fiorentina un commissario come il Ferruccio. Il suo posto era davanti a tutti, l’aggettivo che gli conveniva era: il primo. Era un’anima di ferro, un cuore di leone. Nessuna cosa poneva al disopra della Patria. Era un eletto destinato a ricevere la prima palma d’oro del suo sacrificio.
Era Decio Raggi.
Li aveva guardati negli occhi a uno a uno e aveva detto:
«Sono sicuro che mi verrete dietro tutti».
E tutti si erano ripetuti nel cuore muto tenace il proposito: verremo.
Pittuto si era occupato di riporre con grandi cure il suo violino. Non aveva paura, era sicurissimo che sarebbe andato anche lui con gli altri e non avrebbe ceduto un palmo. Come tutti.
Uscirono.
Fanti d’Italia, chiunque vi ha veduti ricorda quei momenti con un brivido lungo come la morte.
Contro al ferro e al fuoco c’erano i vostri petti. La trincea nemica era formidabile: tutti i cannoni tuonavano, tutte le mitragliatrici cantavano, tutti i fucili crepitavano. E contro c’erano i vostri petti.
Come si poteva, come si poteva?!
Gli uomini erano incollati bocconi sul terreno e vi si comprimevano contro disperatamente. Un nembo di morte passava urlando su loro, come una tregenda infernale di spiriti flagellati da mille martiri.
Avanti avanti!
Era una voce umana quella?
Avanti! Uno sbalzo, uno sbalzo ancora!
Quanti erano caduti?
Si sollevarono trasfigurati terribili negli aspetti a sbalzi a salti inciampando cadendo risollevandosi e procedendo ancora.
Ma la resistenza era terribile. La schiera degli assalitori oscillò, si fermò un istante, parve ondeggiare.
Allora una cosa nuovissima accadde.
Una tromba squillò acutissima limpidissima sulla battaglia; le note del preludio si succedevano veloci precise chiare fluide saettanti serrate dominanti ogni frastuono.
Era il loro inno la loro canzone, quella che le fanfare suonavano e che era destinata a squillare sui campi di battaglia sotto le tempeste di ferro. Era la terra di Romagna che li guardava.
Oh prodigio!
Il suono avanzava di corsa, veniva verso il nemico. Chi era il novello Miseno possente a suscitar Marte?
Un attimo. Dopo il preludio, si slargò la musica della canzone:
Oh Romagna bella Romagna…
Una palla spense il suono. Pittuto cadde lentamente sui ginocchi.
Pochi se ne avvidero. Ormai non occorreva più.
Il Tenente era in testa.
Avrebbe forzato le rupi.
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