La cavalla galeotta
(Introduzione) Un caso davvero fortunato ci ha permesso di (ri)dare un volto e un nome (altrimenti destinati all’oblio) a Masone di Carvàia, uno dei protagonisti assieme a Ribelle Cavallazzi di questo elzeviro di Serantini. Siamo partiti dal ritrovamento della foto che vedete; ci siamo ricordati di averla vista in giro per il cimitero e abbiamo scoperto che la foto ritraeva Tommaso Panazza (1846-1926). E poi grazie ad un articolo (che proporremo) di Mario Santandrea è emerso che Panazza era il proprietario della “cavalla galeotta”. Il racconto, già bellissimo di suo, corredato da questa e altre tre immagini, ne esce ancor di più impreziosito. Ringraziamo Cristina Villa per la fotografia e Carlo Bruni e Maria Teresa Liverani per la trascrizione del testo. (A.S.)
di Francesco Serantini (tratto da Il Resto del Carlino del 19 settembre 1957)
Masone di Carvàia aveva una bella barba intera, spampanata sul petto, dove si perdevano i grossi baffi che coprivano la bocca e il suo abituale sorriso perché lui era buono, indulgente e si contentava della sua vita. Il sorriso gli si vedeva sopra soprattutto negli occhi e anche adesso, quando vado al cimitero a trovare i miei morti e gli passo davanti, lui mi sorride dal ritratto ovale di porcellana e io gli faccio con la mano un cenno di saluto perché eravamo amici. Dicevo: «Masô, stasera sono lì un’ora prima di mezzanotte». Puntuale come un orologio, lui mi faceva trovare la cavalla bell’e attaccata. Montavo, prendevo le redini, lui spalancava il portoncino tenendo levata la lanterna perché potessi infilarlo, non diceva una parola, solo gli occhi sorridevano maliziosamente.
Il trotto della cavalla picchiava sull’acciottolato della viuzza dei contrabbandieri che da una parte aveva le mura del paese e dall’altra una fila di case vecchie, strette, con l’intonaco sbreccato: una camera sotto, una camera sopra congiunte da una scala di legno. Quando tornavo, all’alba, la cavalla si era appena fermata con il muso davanti al portoncino verde, che alla finestra di sopra compariva la barba di Masone occhiridente. Gli davo il buongiorno, i soliti quaranta soldi, una manata sulle spalle e via.
Alla cavalla il mio amico Ribelle gli aveva messo nome: la cavalla galeotta. «Masô, – chiedeva al caffè – è uscita, stanotte, la cavalla galeotta?». Lui lo guardava con il solito sorriso negli occhi, senza interrompere la scopa col calzolaio Volpino che era tutto voce e penna, il contrario di Masone che non parlava mai: era per questo che andavano d’accordo.
Ribelle era anarchico e poeta, divorava libri uno dietro l’altro, aveva un sacco d’ingegno, una bolletta permanente e campava facendo il tipografo con un antico torchio a mano che gemeva come le anime del purgatorio. Un anno facemmo un giornale che si chiamava come il nostro fiume e lo stampava lui, naturalmente, ma siccome ci metteva più di una settimana, «Il Senio» era per forza di cose quindicinale. Bisogna aggiungere che il tipografo non era in caso di lavorare di notte per via che il torchio non lasciava dormire i vicini. A stamparlo, lo aiutava una sorella esile, silenziosa, a cui suo padre aveva messo nome Anarchia ma noi la chiamavamo Giannina.
Fu Ribelle a insegnarmi come si fa a correggere le bozze: «Devi leggere a bassa voce, sillabando le parole». Macché: nonostante codesti precetti e la sua supervisione, il giornale era pieno di errori. Mi ricordo che io avevo scritto un articolo (di fondo, si capisce) dove denunciavo non so quali immaginari pericoli «mentre gli italiani, al solito, si perdono in beghe tra loro», citando quando a Roma si facevano delle chiacchiere e intanto Annibale espugnava Sagunto e quando a Costantinopoli, davanti alla spaventosa immanenza delle orde di Maometto, un sinodo disputava se gli angeli siano maschi o femmine. L’articolo era intitolato «Dum Romae…» con i suoi puntini, che erano le prime parole della narrazione di Tito Livio: Dum haec Romae geruntur Saguntum expugnatur. E qui successe il guaio perché Giannina, che non aveva mai composto del latino, prese l’e del dittongo per una c e scappò fuori una Dum Romac che io non vidi e che fece smascellare dalle risa gli intellettuali del paese.
Il giornale costava un soldo, era grande come un fazzoletto da spesa e siccome era fatto di piccole cose oneste della vita paesana tutti lo prendevano; ogni tanto Ribelle ci metteva una poesiola carina. Una volta successe che non si trovò più il ministro; cerca di qua, cerca di là: il ministro era scomparso: vuoi vedere che è scappato con la cassa? In cassa c’era una cifra: novanta lire: il tipografo era aggrondato come il cielo di un temporale estivo. Il ministro ricomparve il terzo giorno: s’era perso dietro una sottana ma la cassa era incolume, lui aveva dato e ricevuto soltanto amore.
Quando ci fu la guerra del quindici, Ribelle anarchico e poeta si arruolò volontario, combatté nella fanteria, fu fatto prigioniero e morì appena tornato a casa, forse per lo stento che aveva patito in prigionia.
Un giorno mi fa: «Ci stai a venire con me la sera di Pasqua? andiamo a Bagnara». Bisogna sapere che in paese, in occasione di una sagra, c’erano stati i soliti divertimenti: qualche giostra, un piccolo circo equestre, un paio di tiri a segno. Ribelle si era messo con una zingara bronzina che teneva, con una sorella o cugina che fosse, un tiro a segno dove lui aveva fucilato non pochi soldarelli a sparare nelle pipe di gesso. Poi l’aveva riveduta non so dove e lei gli aveva detto che, sotto Pasqua, la carovana si sarebbe fermata a Bagnara. Mi convinse di andare con lui, Masone ci affidò la cavalla galeotta.
Pasqua, che viene dopo il plenilunio susseguente all’equinozio di primavera, cadeva quell’anno poco dopo la metà di aprile. Faceva dolco, la notte era serena, trasparente, venata di qualche bava odorosa respiro degli alberi già fioriti, il biroccino ruzzolava sulle stradette limitate dalle siepi. I baracconi erano in uno spiazzo sotto le mura, ci fermammo fuori mano, vicino a un torrione di angolo, io rimasi sul biroccino, Ribelle si incamminò verso le luci. Un grammofono a tromba gracchiava con la voce nasale qualcosa che non riuscivo a percepire, la cavalla brucava l’erba, si sentiva il morso di ferro che urtava nei denti.
Passò del tempo, le luci si spensero man mano, finalmente vidi che arrivava con due ragazze: «Leviamoci di qui, presto!» disse una; salirono tutti e tre io feci voltare la cavalla e prendemmo la strada sotto le mura. Quella che mi stava a ridosso si teneva con la mano alla mia spalla e mi mandava sentore caldo di ascelle.
Tutto in una volta sentimmo gridare dietro le spalle. Istintivamente voltai la testa: due uomini venivano di corsa gesticolando come ossessi. Le ragazze capirono in un lampo: svelte come due cerve si buttarono giù, Ribelle diede una violenta frustata alla cavalla che incespicò ma io la sostenni con le redini, poi le allentai e lei prese il galoppo sotto la gragnuola dei colpi. Corremmo un pezzo, infilando stradette a casaccio, prendendo le voltate di corsa, più di una volta fummo sul punto di ribaltarci, finalmente la cavalla si mise al passo.
Poi si fermò e non ci fu verso di farla smuovere. Scendemmo: era tutta bagnata di sudore, io le palpai la testa, dissi: «Sei stanca e voi dormire: ài ragione». Lì vicino, al principio di una viottola campestre c’era una quercia fronzuta; prendendola dolcemente vicino al morso, guidai la cavalla nel campo sotto la quercia, le stesi addosso la coperta, poi alzai il soffietto e salii. Ci mettemmo a dormire tutti e tre vigilati dalla misteriosa luna.
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