Affascinante e tragica Luisa Ferida, la diva che crebbe a Castel Bolognese
La proiezione del film “Sangue Pazzo” richiama alla memoria la relazione avuta con Castel Bolognese da Luisa Ferida, una delle più celebri attrici del cinema italiano degli anni ’30 e ’40. Il film di Marco Tullio Giordana ricostruisce la tragica storia di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti, passati dai fasti di Cinecittà e dalla corte della Roma di Ciano al plotone d’esecuzione. Ma le concessioni all’inventiva da parte del regista e le interpretazioni di Luca Zingaretti e Monica Bellucci non rendono tutta l’autenticità storica ed umana della vicenda.
Il vero nome dell’attrice era Luisa Manfrini, nata a Castel San Pietro il 18 marzo del 1914. Scelse il nome d’arte “Ferida” da un vecchio stemma visto nella casa paterna, raffigurante una mano trafitta (“ferida”) da una freccia, senza ravvisarla come predizione di un tragico destino. Il padre Luigi era un proprietario terriero di Castel San Pietro. La madre, che trasmise alla figlia gran parte della sua bellezza invece, era una donna di umile estrazione sociale, residente a Castel Bolognese in via Amonio, nelle Cortacce. E nel suo paese fece trascorrere alla figlia gran parte dei suoi primi anni. Luisa fu tenuta a balia da Anna Dall’Oppio (“Nina d’la Gagia”) nella casa di via Morini 21. Era sorella di latte di Sante Dall’Oppio conosciuto dai castellani come “Pavièt”. Accudita con amore dal nonno materno, frequentò anche il locale asilo delle Maestre Pie. Ricordata come una ragazzina irrequieta, dopo la morte del padre fu mandata a studiare in un collegio di suore, ma non concluse gli studi.
Scappò a Milano e si introdusse nel teatro recitando accanto a Ruggero Ruggeri e Paola Borboni.
Nel 1935, accettando l’offerta per una particina in un film si trasferì a Roma. A lanciarla nel mondo della celluloide fu propriamente il produttore della Scalera film, suo convivente e protettore, che le fece interpretare il film “Un’avventura di Salvator Rosa” diretto da Alessandro Blasetti. Sul set del film Ferida conobbe il bel tenebroso Osvaldo Valenti, mitomane, cinico, spregiudicato, e ne rimase folgorata. Fu così che nacque la coppia bella e dannata, legata dalla passione dei sensi e da quella per la cocaina, resa popolare da molti film, capace di suscitare gelosie per il successo dei due amanti e di far parlare a lungo per i loro costumi disinibiti. Le colleghe della Ferida erano Alida Valli, Doris Duranti e Clara Calamai, attrici dei cosiddetti film dei telefoni bianchi, ovvero attrici delicate, ostentatamente perfette, un po’ tutte uguali.
Un gerarca disse della Ferida, dopo aver assistito alla prima di un suo film: “Ecco l’unica donna vera nel mondo delle bambole”, con riferimento alla nota di passione morbosa che essa aveva introdotto. Eppure all’inizio della sua carriera, la critica l’aveva definita “bellezza animale”, più adatta a “cuocere la piadina romagnola e a dare morsi al suo amante”. In realtà Luisa Ferida restò sempre una brava ragazza di paese e non fece mai suo il sussiego che contraddistingue le dive di oggi.
A Castel Bolognese ritornava per l’amicizia con la famiglia Dall’Oppio. Una volta fu vista in piazza con Osvaldo Valenti, che incuriosì la gente per gli stivali che calzava e l’auto lussuosa. E poteva anche capitare di incontrarla per il viale del cimitero nel giorno del Morti. Nel novembre del 1941, reduce dal successo riportato alla Mostra di Venezia per la “Corona di ferro” (Coppa Mussolini per il miglior film italiano), la Ferida fece da madrina al battesimo di una nipote della sua balia nella chiesa di San Petronio, come attestano i registri conservati in parrocchia. Ai parenti e ai conoscenti di Castello, che le ricordavano l’infanzia, fece poi pervenire il suo ritratto con dedica autografa. La madre Lucia contrastò invano la relazione con Osvaldo Valenti, che accusò sempre di aver introdotto la figlia alla droga e di averla portata alla rovina. Luisa invece, dapprima piuttosto indifferente al regime, decise di condividere ogni esperienza dell’amante. Fu così al fianco di Osvaldo quando questi, aderendo alla Repubblica di Salò, indossò la divisa della Decima Mas e divenne fedelissimo del principe Junio Valerio Borghese. Frequentarono la famigerata Villa Triste di Milano, dove la polizia segreta di Pietro Koch e i gerarchi compivano atrocità sui prigionieri, vicenda per cui il cardinale Schuster inoltrò a Mussolini ripetute proteste. Si disse che anche la Ferida partecipasse alle sevizie, ma di questo non furono mai fornite prove sicure. Fu inevitabile che nel crollo del regime i due attori venissero travolti insieme per l’immagine che si erano costruiti nella vita e nel cinema.
Il 30 aprile 1945 furono fucilati in via Poliziano a Milano con l’accusa di aver torturato partigiani.
Il fatto suscitò scalpore anche a Castel Bolognese. E in città, per timore di essere accusati di complicità col fascismo, alcuni fecero sparire fotografie e dediche ricevute dall’attrice.
Nel dopoguerra Lucia Manfrini fu più volte ospite dei Dall’Oppio a Castel Bolognese. Si sentiva ferita dalle vane insinuazioni formulate sulla tragica fine della figlia e lamentava la perdita dei dodici bauli in cui gli attori avevano riposto i loro beni, rubati cinque giorni dopo la loro morte. Il Ministero del Tesoro riconobbe alla Manfrini una piccola pensione motivata dalla “morte per cause di guerra” della figlia. Fu implicito dunque, il riconoscimento dell’innocenza dell’attrice.
La signora Lucia però morì nella miseria in una località del bolognese.
(s.b.)
Testo tratto da Sette Sere del 19 luglio 2008.
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