Al cimitero, scrigno del rimpianto, per leggere e tutelare le storie dei nostri defunti
Ci siamo inoltrati nel Cimitero di Castello, per “leggerlo” nelle sue suggestioni rimaste impigliate tra lapidi e croci, per scoprire nelle scritture incise sulle tombe la forma e l’intensità dei sentimenti che hanno accompagnato la volontà di perpetuare una memoria. Di storie e di nomi se ne trovano tanti: sono brandelli di vite, più che fuggite, sospese. Un’epigrafe funeraria, letta altrove, recita così: “Le persone non muoiono, restano incantate”.
Nelle iscrizioni tombali sono concentrate le storie più varie, raccontate da chi resta per onorare gli esempi di vita, personale e sociale, che il defunto ha lasciato. In certo senso il Cimitero è come un archivio: in luogo di carte chiuse in plichi ingialliti trovi lastre sottili di pietra i cui dati tornano utili alla riflessione sul nostro destino, alla ricerca storica, alla documentazione della cultura popolare.
Gli stilemi del compianto variano secondo i tempi. Le scritture leggibili sulle lapidi che contano ormai un secolo di vita (il camposanto locale fu inaugurato nel 1902) hanno un’intonazione aulica soprattutto se plaudono a benemerenze patriottiche. Non c’è da stupirsi se ci si imbatte in un simile epitaffio: “Domenico Z. (+1919). Ebbe in retaggio dagli avi un’anima invitta, un nobil cuore / I tempi di fuoco lo temprarono / La storia, equa misuratrice delle ere, dei sacrifici / lo vide rinnovare le epiche gesta dei Romani nel 1860-61 in Sicilia”. Una caratteristica delle sepolture più antiche come questa è la forma stilizzata del compianto solenne. In altri casi la memoria di chi ha esposto la vita al pericolo anche oltre i limiti del proprio dovere trova l’espressione più patetica e più contenuta della rimembranza famigliare. La causa di morte del soldato Giuseppe S., a cui i parenti hanno associato il nome del fratello disperso in combattimento nella Grande Guerra, è così ricordata: “Travolto miseramente nelle acque del Canale Baiona di Ravenna il 5 novembre 1917 dopo aver sfidato per lunghi anni i pericoli della dura trincea”.
Anche su questa tomba, piuttosto consunta, oggi svolazza il famigerato cartello comunale che ne preavvisa l’eliminazione. Resta inascoltato l’appello, già da tempo rivolto, a non smantellare indiscriminatamente le sepolture anche se in stato di abbandono. L’istituzione deve provvedere non all’eliminazione ma alla tutela, colta e reverente, che preservi il patrimonio funerario, il suo carico di significati e restituisca i segni disfatti di una storia che appartiene a tutti.
Le epigrafi più antiche, abbondanti di dati e molto descrittive, esaltano in particolare le virtù dell’operosità e della rettitudine, le qualità della persona mite, giusta e larga di consiglio. Un esempio: “Domenica G. (+1930). Sentì e visse la poesia della famiglia / la gioia dell’onesto lavoro / la bontà vera che si diffonde su tutti / Meritò la schietta benevolenza che si deve ai migliori / la vita serena che è premio e riposo agli operosi”. Altrove l’accento è posto non solo su quello che il defunto è stato, ma anche sulle relazioni che aveva tessuto: “Francesco P. (+1920). Uomo di fede, di pietà, di rettitudine antica / che con saggia prudenza resse la casa / Giovò pubblici e privati istituti / con l’opera assidua e zelante / col prezioso consiglio / Visse in benedizione 66 anni”.
Sono storie belle e reali, tanto vive da destare ammirazione. Le iscrizioni moderne si situano in un’ottica molto diversa. Più di frequente, presentano i semplici nomi e date e, più raramente, brevi citazioni dal Vangelo o frasi di rimpianto che rendono il senso di una mancanza più che l’identificazione di un caro estinto. L’interesse storico e narrativo è scomparso, ma l’intensità del sentimento è maggiore.
Angelo B., deceduto ventenne nel 1959, è ricordato così: “L’amore ti diede la vita / la promessa di un sogno / L’inaspettato tramonto calava su te / trasformando quel sogno in eterno riposo”. Sono parole toccanti, con il tratto distintivo stilistico di quarant’anni fa. Il loro contenuto, tuttavia, potrebbe ancora parlare alle madri di oggi, straziate dalla perdita dei giovani figli nelle stragi del sabato sera.
Accanto ad Angelo è stato tumulato da pochi anni il padre, dietro una lapide in cui si legge: “Disprezzo l’età passata / Ho odiato le avversità dalla vita / Non credo al bene dell’aldilà / Unisco il mio amore ai vicini ricordi”. Sono parole tremende, in cui vibra il dolore senza speranza.
Nel corso della nostra esistenza non sempre ci è concesso di ottenere o di diventare quello che vorremmo. Chi siamo veramente stati in vita forse ce lo diranno da morti, se qualcuno riterrà opportuno scriverlo sulla pietra tombale che sigillerà la nostra fine. Ma se da vivi siamo stati abbastanza reali non ci sarà bisogno di tante parole.
Pia P. (+1999) riposa in un loculo dell’ala nuova del camposanto. Sulla sua lapide è incisa questa parola, semplice e gentile: “Grazie”.
Stefano Borghesi
Articolo tratto dal Nuovo Diario Messaggero del 28/10/2000.
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