Bernardo Bernardi (1463?-1553)
Bernardo Orefice, padre di Giovanni da Castelbolognese
Un incontro fortunato mi permette di presentare un pezzo d’oreficeria firmato e molto raro, anzi, come caso d’identificazione, un unicum; e che, per quanto spetti ad artefice di minor grado e ignoto, ma padre di un altro nel medesimo ramo celebre, merita attenzione anche perché cade in una età in cui se già nomi abbondano, sempre relativamente scarse sono le opere di sicura attribuzione, specie per la più comune produzione. Il medesimo pezzo consente d’altro canto l’avvio alla ricostruzione della figura artistica del suo autore altrimenti sinora noto per atti di genere affatto diverso degni però di richiamo nella pittoresca cornice d’ambiente. Dico subito che il figlio celebre è Giovanni Bernardi da Castelbolognese, ma faentino d’adozione, glittografo protetto da Clemente VII, da Paolo III, dagli Estensi, dai Medici, dai Salviati, e soprattutto dai Farnese: mentre il padre, rimasto ad arrancare nella sua scia, è Bernardo di Giovanni de’ Bernardi. Castelbolognese è, come dice il nome, la nota piazzaforte dei bolognesi affacciata alle porte, si può dire, di Faenza. Bernardo dunque è orefice e fratello di un Orfeo, chiamato anche lui maestro. Orfeo a sua volta è padre di Alessandro continuatore sino alle soglie del sec. XVII della medesima arte, nonché di un Giovan Battista pittore.
Di Bernardo, attraverso documenti pubblicati quasi contemporaneamente, nel secolo passato, dal Ronchini a Parma e dal Valgimigli a Faenza, non si sa molto, ma il poco appare caratterizzato da forte morsura. Nel 1543 abitava ancora nel natio castello (vedremo subito dopo l’essenziale perché), quando già il celebre figliolo sin dal 1539 era in Faenza anche se in abitazione non propria: proprietà raggiunta solo nel 1544, cioé appena nove anni prima della morte avvenuta nel 1553 a 60 anni (nato dunque intorno al 1494), dopo una vita intensa ed errabonda che dalla corte di Ferrara (post 1515) l’aveva portato ai massimi incarichi a Roma (dal 1530), coincisore capo della zecca dal 1534 al 1538, e di nuovo incisore capo dal 1540 al 1546.
Se accenno a ripetere anche solo in ristretto alcune delle principali date della vita del Bernardi, basandomi in particolare sulle più aggiornate recenti ricerche del Bulgari che precisano vari dei punti lasciati in forse dai vecchi biografi a cominciare dal Vasari per finire a mons. Francesco Liverani (1870) suo tardo concittadino, non è per pedanteria; ma perché tali date costituiscono una curiosa alternativa al curriculum di suo padre, la cui vita tanto più longeva appare a sua volta assecondare come inseparabile ombra nell’intero suo arco quella del figlio: anzitutto sotto il profilo della discutibile solidarietà coi suoi pochi simpatici interessi finanziari o in patria (a Castelbolognese) o in Romagna (a Faenza e ad Imola) durante le periodiche assenze professionali. Proprio, anzi, negli anni estremi cioè quando di certo l’attività di orefice doveva essersi rallentata, la vitalità del vecchio sembra ringiovanire. Si pensi infatti che Bernardo risulta morto, a circa 90 anni, nel 1553, o poco prima: anno fatale che vede scomparire di seguito i due stessi figli, Orfeo (27 febbraio) esso pure ridottosi con gli altri in Faenza, e Giovanni (22 maggio). Si dissoiveva in tal modo a mezzo il secolo il nucleo più organico dei Bernardi, vero e proprio clan famigliare ed artistico, costituito, in pieno sec. XV almeno, da Bernardo di Giovanni, nato intorno ai 1463. Nucleo, ripeto, strettamente funzionale in quanto anche la sola probabilità più semplice induce a credere che primo maestro dei figli sia stato lo stesso capofamiglia, e non affatto quell’Alfonso ferrarese -il Cittadella cioè, o Lombardi, biografato al pari di Giovanni dal Vasari- cui ipoteticamente si riferisce il Liverani. L’equivoco è nato dalla citazione che il Vasari nella vita del Lombardi fa di “alcune cose pur di stucco a Castelbolognese”, che il Liverani suppone siano stati ornamenti di casa Bernardi, che invece doveva essere ben modesta. I Bernardi -l’abbiam visto- non ebbero sufficiente casa propria che tardi a Faenza, nel 1544, in cappella di S. Emiliano, adorna anzi di pitture con una certa sontuosità di cui Giovanni stesso si fa vanto. Per contro -e qui prendo occasione per rettificare un’opinione corrente, ripetuta anche, ad esempio, nel commento del Ragghianti al Vasari (vol. IV, 460)- gli stucchi citati dall’ Aretino, in realtà opere di terracotta, esistono ancora e non possono essere altro che un cospicuo e ben consistente gruppo di autografi lombardiani: una Visitazione, i santi Lorenzo e Girolamo, un secondo S. Girolamo, tutte cose già nella chiesa di S. Maria dello Spedale, oggi nell’ arcipretale. Qui si trova anche una pala plastica della Crocifissione (dalla chiesa di S. Croce) per la cui attribuzione mentre certi documenti accennano ad un ignoto parmigiano, quella al Lombardi è affatto da escludere. Al contrario una piccola testa di Madonna, oggi nell’ Ospedale, spetta alla bottega del ferrarese.
Tornando a Bernardo, la sua figura curiosamente si inserisce, tra il 1536 e il 1539 -sono gli anni in cui gli interessi professionali romani di Giovanni subiscono una sospensiva, mentre si ampliano quelli romagnoli- in quello che oggi si chiamerebbe un vero scandalo di sottogoverno. Il card. Alessandro Farnese spinto dalla necessità di tenersi l’esclusiva dell’abilità eccezionale dell’incisore di cristalli, per mandare innanzi senza posa una serie di opere di gran lustro per la sontuosa casa Farnese stessa (es. la famosa cassetta), o per S. Pietro in Vaticano (i non meno famosi candelabri con croce), o per Monreale (opere disperse), ecc., si risolve di far intestare dal Papa al suo raccomandato qualcuno di quelli che allora si chiamavano “fiscalati”, privilegi cioè esentivi di dazio o gabella, es. sul commercio del sale, o sull’incetta dei grani, ecc.; e ciò per quanto si trattasse di negozi, se pur redditizi, nient’altro che rappresentativi, cioè intimamente estranei alla professione stessa del beneficiario; e -quel che fa più vergogna- tali poi da concedersi con disinvoltura in subappalto a protetti di protetti, se non addirittura a famigliari.
Il famigliare adatto Giovanni l’aveva trovato nel padre, che da Castelbolognese si trovava anche più vicino alla zona di attività imolese e bolognese: vecchio smaliziato, già sui 75 anni anche se -certo per apparire più efficiente- tirava a diminuirseli. Quel che subito ne nasce è una serie di incidenti più o meno gravi. Il vescovo di Rieti, mons. Mario Aligeri della Colonna, governatore di Romagna, al vedersi comparire munito di regolare Breve pontificio nel pur illegittimo incarico proprio il padre di Giovanni, Bernardo, anche se tosto ammette di voler legare l’asino dove piace al padrone, si capisce che lo fa a malincuore. A cose ormai fatte, da Cesena il tesoriere G. B. Galletti pisano, si mostra invece scandalizzato della situazione, e ricevendo in udienza, come intestatario del ” fiscalato ” d’Imola e della “Salara” di Bologna, il celebre Giovanni, l’amico di Michelangelo -che anzi ostenta di chiamare appena “un da Castello Bolognese intagliatore e gioielliero”- a pretendere l’immediato saldo di 60 scudi che sostiene di già percepire dal predecessore, fa pochi complimenti. Nel rapporto che inoltra al segretario stesso del Papa dice di non aver ordini e che niente risulta agli atti: e lo invita perciò a intendersi col Cardinale, con cui non mostra alcun piacere di trattare, anche se è vice cancelliere di Sacra Romana Chiesa. Il Galletti conosce il suo dovere, la gerarchia, le carte a posto, la Giustizia, e basta.
La sua maggiore lamentela però -anzi vera denuncia di corruzione- consiste nello scoprire, e subito spiattellare, che ad esercitare in subappalto il “fiscalato” Giovanni abbia per giunta messo in propria vece “uno come il padre, uomo di 65 (sic) anni senza esperlenza, che a pena credo sappia leggere, non che fare quell’officio, il quale vuole persona che abbia termini di legge e pratica “. Si scarica di coscienza, afferma, anzitutto “per benefizio delle cose di Nostro Signore”: e con altrettanta chiarezza aggiunge che però “obbedirà a quanto Sua Santità comanderà”.
Se la risposta tarda poco ad arrivare, con vera sorpresa essa è del Cardinale in persona, e tutt’altro che interruttiva, ai primi del 1539: cosicché al Galletti non resterà che uniformarsi. Bernardo -proprio lui!- va trionfante a riscuotere per intero stipendio ed arretrati. Quanto e come durasse questo per così dire costituzionale stato di malversazione non starò oltre a riportare. Si ripete, per evasione di tasse, nel 1543. Chiunque, trasecolando, può rileggere l’epistolario in materia riesumato dal Ronchini nell’archivio di Parma. Sono i tragicomici episodi di rivolta popolare che la tracotanza e l’arbitrio fatti legge subito provocarono ad Imola, dove “coi ronchi” i sacchi del “fromento” dal Bernardi “estratto” per Bologna, vennero a furor di popolo stracciati, anzi addirittura con la sottintesa istigazione dello stesso Gonfaloniere, indifferente anche lui ai Brevi dei Papi. “Armata manu appena si potetter salvar le persone”, strilla Giovanni! Si arriva alle instancabili e continue rivalse, anche le più ingiuste ed intriganti da parte del clan, verso il Cardinale; e insomma alle sistematiche prevaricazioni del porporato. Basti persino dire che un altro fiscale di S. Sede e compaesano -anche se non compare- di Giovanni, un Alessandro Pallantieri -in seguito per altri casi finito sotto la mannaia, di sentenza di S. Pio V- tenta invano di mettere un limite alle pretese: col risultato che l’artista facilmente impone al suo protettore di zittirlo con un rabbuffo.
Il Liverani, famoso prelato del secolo passato e altro compatriota, per quanto postumo, dei Bernardi; che sotto Pio IX fu protagonista di romanzesche impennate politiche contro il suo stesso sovrano, più propriamente contro il card. Antonelli e contro la corte dei Gesuiti; e che naturaliter perciò era assai interessato nella rievocazione come di questi di tanti altri fatti antichi e recenti riguardanti più che luci, ombre del potere temporale in genere, non ristà dal commentarli con tanta accoratezza quanto con la severità ed ironia che meritano. Egli stesso, nel 1870, ne aveva le carni ancora ben scottate! Perciò il commento che fa seguire all’ epistolario del Ronchini può definirsi edificante. Così sullo sfondo di ricorsi storici sollevati nei rapporti d’affari combinati tra Giovanni e suo padre, e coincidenze con altri fatti vecchi e nuovi che, facendo leva sulle loro avventure, il Liverani poteva resuscitare, per trasparentemente andare a parlare di sè, di calibro circa proporzionato ci apparirà il paragone tra la modesta figura d’orafo del vecchio, così legata a schemi goticizzanti e tradizionali, e l’assoluta innovazione glittica, esercitata quasi con violenza sopra la ribelle materia dal figlio: risultato su cui l’ingegno del Liverani -lo dico dì passag-gio perché l’argomento meriterebbe analisi più dettagliata- ci ha dato anche qualche bellissima e duratura pagina di critica artistica, passata sin qui inosservata.
Il ritrovamento di un calice di rame dorato, arricchito appena di qualche semplice niello argenteo, si deve alla fervida organizzazione museografica attuata a Pennabilli nel Montefeltro, per illuminato merito di S.E. Antonio Bergamaschi, vescovo diocesano, con la collaborazione vivace del sacerdote D. Giuseppe Agostini, entrambi presi dalla consapevolezza di dare stabile assetto ai patrimoni d’arte della Chiesa oggi così insidiati da molteplici pericoli, specie poi nelle zone montane e ormai spopolate. La forma dell’ oggetto non ha nulla di eccezionale: il tipo si può dire gotico-rinascimentale, col piedistallo impiantato sul compasso a sei lobi curvi alternati da vertici a punta, su un breve rialzo tra due margini laminari. Il curvo declivio risale verso lo stelo facendosi rapidamente piano a sfaccettature, assumendo ctoe la forma tronco-piramidale. Lo stelo esagono è diviso in due tratti dal pomolo costolato a bacca di papavero, e costellato da sei borchie. La coppa argentea non ha niente di speciale, impiantata com’è su una liscia sede, a margine frastagliato. I settori del piedistallo portano ciascuno un diverso motivo a grottesche intagliato a bulino e sbalzato su fondo scabro; in uno solo si trova incastrata una placchetta circolare d’argento, niellata con mezza figura di santo frate con croce e libro. La placca è protetta dalle ali di un cherubino che fa parte del motivo di cui sopra. Nei castoni del pomolo si trova cinque volte un niello col monogramma IHS (il sesto è perduto e banalmente sostituito con un santino di nessun valore). Il pezzo misura in altezza circa cm. 20.5, in diametro di base cm. 13.2. Proviene dalla chiesa di S. Cristoforo a Pennabilli, già degli Agostiniani. Lungo la fascia periferica che, divisa in tronchi, sottostà alla base, leggiamo incisa la firma dell’ autore:
+ BERNARD, DECASTRO
(distacco) BONONIENSIS FECIT
Prima impressione sarebbe perciò che “Bernardus” sia il nome di battesimo, “Decastro” o “De Castro” il cognome, e “bononiensis” l’attributo topografico. Ma è illusione. Si conosce in effetti un orafo De Castro, ma questi è il portoghese che esegue, dopo il 1565, la caraffa e il vassoio oggi dei conti Pignatti Morano di Modena, esposti nel 1936 alla Triennale di Milano da A. Morassi, che ne curò la scheda sul relativo catalogo. Di De Castro bolognesi non sappiamo. Cosicché rimane che “Castrum” esiga una specifica, rappresentata appunto da “Bononiensis” anche in discordia declinativa: Bernardo, lo si sa, era un semilletterato, né più colto di lui sarà stato un possibile garzone incisore. I “castellani” d’altronde (come si chiamano quelli di Castelbolognese) erano praticamente dei cittadini bolognesi; e infine non è detto che il vecchio artigiano non fosse più o meno di recente trasmigrato dalla città madre, per quanto altri dati accennino ad una sua possibile origine da Lugo. Si aggiunga che la distribuzione delle successive articolazioni di firma corrisponde in pieno, pur mutato nome di battesimo, alle altre firme note di Giovanni Bernardi (vedi Bulgari).
La forma abbastanza tipica del calice che, per quel suo andamento piramidale del piedistallo, si stacca alquanto dal gotico mettendo in evidenza l’ornato di moda delle grottesche, rimanda da questo di Pennabilli ad un altro calice. Si trova tra gli arredi sacri della chiesa faentina della Commenda, tenuta a quel tempo dal cavaliere di Malta Frà Sabba da Castiglione, celebre autore di “Ricordi”, e amico di Giovanni Bernardi. Passa tuttora infatti come “il calice di Frà Sabba”, sebbene rechi una scritta relativa ad un committente Baldassare De’ Pioni, che forse lo donò. Per quanto generalmente ornato in maniera più ricca, sia le sue proporzioni ed il taglio, sia la già nota evidenza dell’ornato rinascimentale, che torna quasi eguale, corrispondono.
Avviata così la ricostruzione dell’attività artistica di Bernardo, certo non sarà dato sostenere se non in linea di ipotesi o di accenno, se il bellissimo ostensorio ambrosiano (poi reliquiario di S. Savino) del Duomo di Faenza, suppergiù corrispondente a questo stile gotico-rinascimento e datato 1490 (Bernardo aveva 27 anni) possa appoggiare la serie con un elemento assai più sontuoso ed impegnativo.
Il calice firmato da Bernardo da Castelbolognese (immagine a sinistra) messo a confronto con il calice del sec. XVI conservato nella Chiesa della Commenda a Faenza (immagine al centro). Nell’immagine a destra si può vedere la firma di Bernard Decastro-Bononiensis.
Antonio Corbara
Tratto da: La Piè, n. 5 settembre-ottobre 1964
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