Via Morini una volta
Via Morini è un ambiente modesto ed anche misero, che oggi si ricorda con nostalgia, se non altro per la semplicità dei rapporti umani che nel passato erano più sinceri e meno esacerbati dall’invidia e dall’egoismo. Un piccolo mondo di sessant’anni fa, che il progresso ha mutato materialmente in bene, moralmente in male. La contrada, con la semicircolare piazzola sull’antica mura del paese, si apriva, sulla fossa, al meraviglioso gruppo di Monte Mauro e della Croce di Rontana. Dorate distese di grano, intrecciati filari di viti e vigneti, morbide ed odorose distese di erba spagna e granoturco, costituivano lo sfondo e lo scenario pittoresco della via Morini. Il campanile di San Petronio, l’abside e il muro del cortile della canonica, con quel ciuffo verde di foglie di fico ondeggiante sul mantice pendolo della fontana a muro, racchiudevano il piccolo mondo. Come sipario: la rimessa del carro funebre di “Bagiòla”.
Vecchie Famiglie
A mano dritta, avviando i passi verso il centro, fuori del porticato, il primo portone serrava la stalla di “e’ Schizòn” (Casadio). Poi, entrati nel porticato ingombro di biroccini, sedie, panche, lo scenario si ravvivava degli abitanti e dei personaggi caratteristici della contrada. La prima famiglia era quella di “Lucio de’ Pitòr”, padre di tre femmine e quattro maschi: i Borghesi. Lucio era un fabbro, come Marco Barbieri, come “j Anzulòn” (Dall’Oppio Pio e Gigetto), come “Richì d’Rumbèja” (Muccinelli), nel Borgo. Il robusto Fausto (detto “Turòn”) e Paolino avevano proseguito il mestiere di babbo Lucio. A Tarcisio era destinato invece il mestiere di barbiere: lo chiamavano “e’ Nutèr” Ecco il perché. Negli anni gloriosi del teatro comunale una compagni lirica rappresentò “Il Barbiere di Siviglia”. Nell’atto secondo, scena IX, Don Basilio entra in scena con una lanterna in mano, introducendo un notaio con carte. Questo notaio, che non pronunciò una parola e non cantò una nota, era appunto rappresentato da Tarcisio che, dal quel solenne momento, fu battezzato per la seconda volta con il soprannome “e’ Nutèr”. Gioacchino Rossini non assegnò una sola nota al personaggio, ma Tarcisio era dotato di una ottima voce tenorile che spiegava con grazia e sentimento nelle messe cantate officiate nelle festività. Suonava anche la grancassa nella banda musicale. Una volta, in viaggio per Solarolo con la lunga giardiniera a quattro ruote di “Bagiòla” trainata da una pariglia di cavalli, Tarcisio fu incaricato di accertarsi che al passaggio a livello ferroviario non fosse in arrivo un treno. “E Nutèr” scese, guardò a destra e a manca, diede il via libera. La giardiniera aveva appena sorpassato i binari che il ferraglioso frastuono del treno sventagliò il retro del veicolo. Una valanga di imprecazioni e bestemmie investirono ed impietrirono “e’ Nutèr”. Tutte le sante messe che aveva cantato fino allora non erano certamente sufficienti ad assolvere quegli irati blasfemi.
Nella stessa porta dei Borghesi abitava “Biasén” con la moglie “Fina de’ Schizòn”. Biasén fu un personaggio del teatro castellano. Muratore di professione, fu custode e uomo tuttofare nella lunga attività del teatro, in tutte le sue molteplici gestioni: Scogli e Borghi, Savelli, Raccagna, Dopolavoro, con rappresentazioni cinematografiche, di opera lirica, operette, prosa, balli, ecc. Il figlio Pierino cadrà volontario nel 1944. Dopo il primo portone, che un tempo custodiva un forno, un andito e una scala a due rampe, sulla sinistra, portavano alla bottega ed abitazione di “Gaitanèn d’Carspèn” (Borzatta), marito di Emma, sorella di don Gracco Musconi. Qui si apre una parentesi per dire che il sacerdote ricevette un giorno la visita di Domenico Budini, detto “e’ Tarlé”, già condannato a morte nel maggio del 1880, per l’assassinio dell’avv. Pietro Sangiorgi, avvenuto la sera del 17 febbraio 1879. Il Budini, che fu graziato dopo quarantadue anni di ergastolo, raccontò a Don Gracco le pressioni alle quali era stato sottoposto durante l’interrogatorio, perché si voleva che lui ammettesse l’esistenza di una congiura e confessasse i nomi dei congiurati. Alla fine dell’incalzante interrogatorio “e’ Tarlé” ammise e confessò l’esistenza di una congiura.
– “Quanti eravate?”, gli fu chiesto.
– “Due”, rispose.
– “I nomi vogliamo”
– “Io e il pugnale”.
Ritorniamo in tema con “Jusafén”, il professore di tromba, figlio di “Gaitanèn d’Carspèn”. Un Borzatta non poteva non essere un musicista. “Gaitanèn” stesso suonava il trombone di fila nella banda e si dilettava a suonare anche la chitarra classica. La figlia maggiore si chiamava Elsa. Per inquilini avevano “Picàja” (Zannoni), facchino, con la moglie Maria e i figli Palì e Pietro detto “Slim”, ed anche “Buslèna” e “Chichina d’Baroni”. Buslèna era un ottimo calzolaio, che si trasferì a Milano; la moglie apparteneva a quella famiglia di falegnami che avevano bottega nella via dei contrabbandieri. Per lui era stato coniato un motto canzonatorio: “Sta pu alè drèt Buslèna”. Due tre figli completavano la famiglia.
Vicino a loro abitava un birocciaio: “Piréta”. Le male lingue ritenevano sua moglie matta perché, quando alzava troppo il gomito nel bere, lanciava tutto fuori dalla finestra. Nella stessa casa abitava Aldo “dla Pigramata” (Patuelli), al quale subentrò “Sagnìna”, un calzolaio permaloso che non accettava volentieri il nomignolo appioppatogli. Ubriaco, restava così rimbambito e stordito per una settimana. Si riprometteva, sempre vanamente, di essere più parco nel futuro. Le osterie di “Ugo dla Marchina”, “de Zgalòn”, “d’Badòn” e “e’ cichèt da Pagnoca” erano diventate quotidiane stazioni della sua via crucis. Poi veniva l’abitazione “d’Bas-ciàn d’Mariuccia”, un lavoratore che s’industriava nella raccolta della gruma o tartaro lasciato dal vino sulle pareti delle botti. Quando stendeva il tartaro al sole, sulla strada, per disseccarlo, l’acre profumo neutralizzava l’odore sempre poco gradito della latrina di “Lucio de Pitòr” e delle stalle di “Piréta” e “de’ Schizòn”. Come secondo lavoro”Bas-ciàn” si recava nelle aie a sgranare con il frollo il granoturco, dopo che le pannocchie erano state liberate dal cartoccio e dalle chiome brune in un’allegra”sfujaréja” al chiar di luna. Nella stessa porta abitava “Pilarèn” (Modelli) con la moglie Marcellina e tre bocche da sfamare.
Più avanti si apriva un portone d’una bottega da falegname: era “e’ Paisàn”, fratello di quel Bertaccini suonatore di violino ed autore di valzer con motivi incredibilmente delicati ed appassionati. Nella successiva porta abitava “Delìna dla Bisàca” (Montanari) con Tarlizzi e tre figliuoli. Anche Tarlizzi era un bevitore della forza di”Sagnìna”. “Mingòn de’ dò” (Caroli) con la moglie e il figlio Peppino (poi segretario comunale), erano i vicini di casa.
Preti e sacrestani
Percorsi pochi passi si arrivava ad un portone posto nel retro della casa “di Pòrr”, i fratelli don Stefano, don Francesco e Giacomino Bosi. Quest’ultimo non osservava certo la teoria malthusiana, perché ha assicurato al casato una nutrita schiera di figli che, a loro volta, hanno dato alla stirpe dei Bosi novelli virgulti per la generazione futura. La “cà di Pòrr” aveva il fronte in Via Borghesi, la vecchia strada dei contrabbandieri. Dentro a quel portone custodiva cavallo, giardiniera e finimenti “la Ciarìta”, vetturino alla stazione ferroviaria. Si arrivava poi alla abitazione di Celotti e della moglie Zama. Lui un uomo piuttosto piccolo, con una spalla un po’ pendente; lei una donna giunonica. Celotti era il sacrestano, campanaro ed addobbatore delle chiese di S. Francesco e S. Petronio. Si alzava prestissimo a suonare l’Ave Maria; dava il segno del tempo coi noti tocchi finali di campana, svegliando il castellano ad affrontare, con la letizia del sole o la tristezza del maltempo, il giorno nuovo. Prima si è parlato di “La Ciarìta” ed ora siamo proprio dinanzi alla sua. porta. La moglie Tina, con i due figli, “Cichinèl” e Dino, l’attendeva sempre sulla soglia. Nella stessa casa abitava anche Bentivoglio, sacrestano della chiesa del Suffragio, sorta a fianco della torre dell’orologio, dove era il vecchio macello, consacrata il 10 settembre 1708 e distrutta dagli eventi bellici nel 1944/45. Bentivoglio era un omarino basso. Camminava pari pari come se dovesse stare in perfetta bilancia con le spalle. La sorella “Frazchinéna”, sui sessant’anni, piccola di statura, sottane ampie scure lunghissime, quasi rasenti terra, portava sempre un fazzoletto in testa che lasciava intravedere capelli bigi lisci, spartiti sulla fronte ampia e liscia che l’età non aveva per nulla increspata. Caratteristica la pelle olivastra del viso e delle mani, che uscivano da un colletto alto e dalle maniche chiuse da un elastico ai polsi. Placidi gli occhi scuri affossati nelle occhiaie. L’ultima porta era quella dei “Fiori”. Cosi soprannominata era la famiglia Budini: un sacerdote, una sorella e un medico fisicamente piuttosto basso e fuori squadro. Uscivano sempre insieme e la loro passeggiata era il giro delle fossa, in fila indiana: la sorella più bassa di statura, il medico, e in coda l’alto e robusto prete.
Dall’altra parte della strada, cioè a sinistra, le famiglie erano poche. Nel retro del palazzo Martelli (“dla Baglìna”) entrava “Piròn d’Spadèna” con la “Minghinéna” e quattro figli. Raccagna, questo il suo cognome, esercitava il mestiere di canapino coadiuvato dal suo cognato “la Vergna”. Fissava la ruota grande da filare all’altezza della piazzola a semicerchio della vecchia mura della strada dei contrabbandieri, sotto una fila di ombrosi alberi, di fronte all’ospedale. “La Vergna” girava la ruota ePiròn, che indossava un grembiule con il pettorale, arretrando piano piano, vedeva attorcigliarsi fra le mani la canapa e trasformarsi in corda. E così per la lunghezza che correva dalla ruota all’incrocio della strada per l’ospedale.
La “Giacomina”
Procedendo ancora sulla sinistra della strada Morini, si notava un portone che era nel retro della casa Savelli, confinante con la parrocchia. Lì custodiva il cavallo e il biroccino dalle lunghe stanghe, Mario dei Galeati, beccaio, con la passione di tenere cavalli da corsa. “Gigiulòn” (Petroncini) abitava nella casa vicina. Gagnolava il violino con lo stesso fanatismo di un Paganini. Il suo nome fotografava la sua persona fisica. Asso di briscola “dal sfujaréj” e “di quanarùl” (modesti locali da ballo), ai quali partecipava anche la “Zvanéna” con tutta la famiglia, compreso Danubio (violista da opera) e Bruno, soprannominato “Gumitê”, violoncellista d’accompagnamento. A quella famiglia apparteneva anche Arginelli Lino, basso in Fa, unico elemento ancora attivo di quei quaranta e più musicisti che formavano la gloriosa banda castellana. Dopo l’abitazione di “Gigiulòn”, iniziava la mura dell’orto della canonica, che arrivava fino alla fonte dove si andava a pompare l’acqua per tutti i bisogni della casa.
In fondo, proprio all’incrocio con la contrada di S. Petronio, vi era una rimessa particolare: l’alloggio del carro funebre di “Bagiòla” (Scardovi). La carriola della”Giacomina” nell’ultimo viaggio, trasportava tutti, poveracci o di buona famiglia, senza distinzione. La carriola della “Giacomina”, oggi non è più all’angolo del vicolo di S. Petronio ad attendere il freddo e muto cliente. Ha cambiato sede e struttura: sì è adeguata ai tempi. Non più la pariglia dei bruni cavalli parati con gualdrappe nere con bordi e angoli ornati in oro; non più Bagiòla troneggiante in serpe con la bombetta e vestito in scuro; non più lo scricchiolio delle quattro ruote cerchiate sul ghiaino del viale dei mesti ed ondeggianti cipressi. La “Giacomina” ha una autovettura moderna con ruote di gomma ed un motore, le cui esalazioni avvelenano e distruggono il profumo ed il candore dei fiori delle appese corone.
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Nell’altra metà della contrada, cioè in quella abitata dagli ebrei fino dal XIV secolo, in una casa a destra, ad angolo con la piazzetta Fanti, era nato li 6 aprile 1882 l’anarchico Armando Borghi. La sua salma, senza preordinato appuntamento, nell’aprile del 1968 fu temporaneamente posta nella camera mortuaria del cimitero di Castello, a fianco del feretro “de prit di Fiori”, di don Pasquale Budini. Un anarchico libertario ateo, seguace di Bakunin e un sacerdote di Cristo e della Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Il Creatore quel giorno si riprese le due anime, senza fare distinzioni, perché erano, fin dal principio, nel suo divino ed eterno creato. Cosi per loro, così per tutti. L’armonia dell’Universo non fu turbata. L’anarchico fu tumulato in un tombino in cemento con un copritomba semplice ed una lapide coi soli estremi anagrafici. Il sacerdote fu deposto nella tomba di famiglia. L’Universo non si accorse di nulla.
Quel giorno, sostando in meditazione sulla tomba di mia madre, fui tentato di raccogliere un fiore nato sulla sua tomba, ma mi trattenni. Ebbi la sensazione ed il timore di strappare qualcosa di suo. Mi stropicciai le palme delle mani e le posi unite sul viso. Avevano il profumo della terra, le mie mani mi sembrarono le sue e un soave venticello mi sussurrò qualcosa che non compresi: forse una carezza di chi non si può mai dimenticare.
Ma questa è una digressione che non ha nulla a che vedere con quelli di via Morini. Se l’epilogo è funereo, prendetevela con “Jusafén d’Carspèn”, che nella rievocazione d'”la mi strê” si è fermato alla rimessa della carrozza della Giacomina.
Oddo Diversi
Da “Vita Castellana” n. 2 – settembre-ottobre 1982
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