Le vere cause dell’incidente dai giornali dell’epoca
Come ha potuto accadere la tragedia di Castelbolognese
Quindici giorni fa era stato tolto il semaforo che indicava pericolo
La sciagura ferroviaria stando all’attuale equivoca segnaletica era inevitabile. Questo il parere di un gruppo di ferrovieri che conoscono la linea si può dire metro per metro, giacchè la percorrono di frequente. “Avrebbe potuto — ci hanno assicurato — capitare anche a noi. I treni da Rimini a Bologna sono affidati ad un foglio di carta e sempre meno ad una precisa segnaletica. Ma cominciamo dal principio. Dopo la precedente sciagura, quella di Sant’Arcangelo, si “scopri” la vetustà e la inadeguatezza della linea Rimini-Bologna, ricostruita dopo la guerra e mai più revisionata se si fa eccezione della normale manutenzione. Si decise così, da parte delle competenti autorità ferroviarie, di mettere in atto una vasta opera di risanamento. Si scoprirono allora rotaie incrinate dall’usura del tempo e tutta un’altra serie di “acciacchi” che determinano incredibili riduzioni della ve1ocità massima sulla linea. L’opera di revisione era per l’appunto giunta a Castel Bolognese. I lavori in corso sul primo binario imponevano la cosiddetta “deviata” sul binario dispari. Da Castelbolognese a Imola uno dei due binari era fuori servizio per eseguire più celermente i lavori di risanamento.
Quanto alla segnaletica, fino a 15 giorni fa le cose stavano in questo modo: 1500 metri prima dello scambio un semaforo giallo richiamava il macchinista all’attenzione; segnalava cioè la presenza di un secondo semaforo che avrebbe indicato al conduttore del convoglio il da farsi. Se il segnale di preannuncio con la sua posizione a luci gialle avesse indicato a 1200 la “deviata” avrebbe anche voluto dire in modo inequivocabile che occorreva iniziare l’azione di frenatura, poichè anche il secondo semaforo avrebbe detto sicuramente “via chiusa”.
L’azione di frenaggio comportava un minuto di tempo, tanto da consentire al convoglio, lanciato oltre i 100 chilometri orari, di giungere allo scambio alla velocità prescritta di 30 chilometri. Questo sistema segnaletico, assai rigoroso, è stato sostituito 15 giorni fa dal modulo M 40: un foglio bianco che viene consegnato al macchinista alla stazione prima della “deviata” e sul quale ci si limita a dire “che in applicazione di un ordine di servizio è stata attuata la circolazione su binario semplice”. In questi termini si esprimeva anche il modulo consegnato alle 1,46 a Faenza al macchinista Covacci (1). Davanti al primo semaforo, a 1500 metri dallo scambio fatale, è rimasta una tabella bianca che porta contrassegnato il numero 30 (il limite di velocità) che di notte non si vede perchè non è illuminato. Il tragico AT 152 è giunto a tutta velocità a semaforo che segnava il via libera, sicchè il macchinista, probabilmente dimentico dello “M 40”, o forse credendo di non essere ancora in prossimità di Castelbolognese, ha proseguito la drammatica corsa giungendo sullo scambio a fortissima velocità.
“Siamo di fronte a un gioco d’azzardo” ci ripetono esperti macchinisti. Basta un momento di amnesia e un po’ di confusione con tutti quel fogli bianchi che ti rifilano e sei rovinato per tutta la vita. Il semaforo segna via libera e tu sei indotto a continuare la tua corsa. Ecco ciò che è capitato al disgraziato collega di Ancona”.
Da questa ricostruzione balza evidente una paurosa carenza di segnaletica. Di chi la colpa? Non certo dei ferrovieri. Che cosa ha suggerito la messa in disuso del doppio semaforo per portare alla ribalta il modulo “M 40”? Una cosa soltanto: il mito dell’orario e “il sacrosanto rispetto” delle tabelle di Velocità. Per eliminare alcune frenate che ritardavano la corsa dei convogli si espongono gli utenti all’alea di continue sciagure.
Il direttore compartimentale di Bologna dott. ing. Robert ha dichiarato ad un radio cronista: “Il treno doveva percorrere un certo tracciato e l’ha percorso, si tratta di vedere in che modo”. Ecco il punto. Molti giornali della sera hanno gridato ai quattro venti che il macchinista ha “confessato” la propria colpevolezza. Non sappiamo se ciò corrisponde a verità, ma, sicuramente, il macchinista Covacci si sarà riferito al modulo 40; avrà detto, in altre parole, di esserselo dimenticato, di non averlo rispettato.
Ma è possibile — è lecito chiedersi — affidare la sorte di centinaia, di migliaia di viaggiatori ad un misero foglietto, anzichè garantire efficacemente gli utenti dell’Amministrazione ferroviaria con i mezzi che la tecnica moderna ci mette a disposizione?”
Da L’Unità 9 marzo 1962
(1) N.B. Altri giornali affermarono invece che il modulo M40 era stato consegnato alla stazione di Rimini. La procedura standard, fra l’altro, prevedeva proprio questo e solo in casi particolari veniva consegnato in una stazione successiva.
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