I contrabbandieri di Castel Bolognese fra storia e leggenda
Prima di dare inizio a questa “reminiscenza storica” del nostro Ubaldo, una piccola, necessaria, premessa. Ancora oggi, fra le persone anziane di Castel Bolognese, quando si vuole indicare la “Via Borghesi”, quella che parte da Via Antolini e finisce con l’inizio di Via Biancini, nello spigolo posteriore orientale delle “Scuole Elementari”, si usa chiamarla la “Contrada dei Contrabbandieri”, e questo ci dimostra come questo ricordo sia ben radicato nella memoria degli abitanti del nostro paese. In questa strada, che, come ci dice Pietro Costa, nel suo libro “Un paese di Romagna” 1797-1945, nell’antica toponomastica era indicata “Via Mura a Levante”, viveva una comunità tutta particolare, con un proprio dialetto, che differiva sensibilmente da quello del paese, con sue abitudini, modi di vivere, norme consuetudinali, che non sempre si conciliavano con quelle dei vicini, sempre pronti ad esprimersi con scurrilità ed anche con bestemmie, ma, nello stesso tempo, anche se a modo loro, pronti ad atti di devozione verso la religione. E fu una comunità, così singolare e così dotata di una sua fortissima personalità da passare indenne attraverso le vicissitudini della storia (Papato, Cesare Borgia, Rivoluzione francese) fino ad arrivare molto vicina ai giorni nostri per poi estinguersi, si potrebbe dire, “naturalmente”, in quanto il tempo non era più adatto a questi tipi di personaggi.
I contrabbandieri di Castello
Un Castellano di una volta, che sarebbe il sottoscritto, nel passare degli anni ha sempre covata l’idea di scrivere due righe sui “Contrabbandieri di Castello”. Adesso, arrivato ormai a sentire l’odore dei “novanta”, con il tempo a mia disposizione, almeno lo spero, mi provo a levarmi quel capriccio che mi ha sempre stuzzicato.
Non avrei mai pensato in che razza di melga (imbroglio, situazione difficile) mi sarei cacciato, perché se è pur vero che da ragazzetto avevo bazzicato coi parenti dei contrabbandieri e sentite, da loro, una quantità di storie sui loro vecchi, è altrettanto vero che si trattava di storie che assomigliavano a favole d’un tempo lontano, sepolte nella memoria per cui andarle a scoprire era come pescare la luna nel pozzo: sono passati più di ottanta anni da quei giorni.
In tutti i modi credevo di trovare un po’ di materiale spulciando vecchie carte o dal lavoro di un qualche studioso che si era interessato all’argomento; quel tanto, insomma, da poter imbastire un lavoretto che meritasse l’intenzione del darsi da fare. Ma si, è stato lo stesso che cercare la lepre nella cuocia del cane. Di studi ne ho trovati abbastanza, ma povero me, barbosi fin dalla prima pagina e in compenso scarsi di notizie sui contrabbandieri che furono, ai loro tempi, uomini vivi e gagliardi, capaci di far imbestialire i governanti degli Stati del Papa e degli altri Stati viciniori. Non parliamo poi di vecchie carte: neanche l’ombra. L’unica notizia sicura è che i contrabbandieri erano si capaci di adoperare le mani, però con strumenti che non avevano niente a che fare con le penne da scrivere.
Di fronte a tante difficoltà pensai bene di lasciar perdere, ma l’argomento si dimostrava, anche a prima vista, tutto quanto da scoprire e pieno di interesse come un bel film d’avventure e così, io, durai a metterci il naso dentro. Vada come vada, eccomi qui a raccontarvi, alla maniera degli antichi favoleggiatori, il risultato di questo incontro coi “Contrabbandieri di Castello”: un fenomeno durato più di quattro secoli, che oggi nessuno ricorda se non ne parla qualcuno.
Ultima avvertenza: se il racconto pigliasse, come temo, la misura di “quella che a Giovanni il Gramatico gli sfregava in terra” siamo d’accordo di insaccare il violino e andare a scolarci una coppia di bottiglie di sangiovese che di certo non dispiacque anche ai nostri amici, si fa per dire, del contrabbando.
Dunque: Primo interrogativo: perché proprio in quel tratto che sta fra il Rio Sanguinario e il Ponte di Castello crebbe e prese vigore quella corporazione che portò tanti disturbi e affanni ai capi di allora, a cominciare dalle loro Santità che in tutto quel tempo si trovarono sulla Cattedra di San Pietro? A questa domanda, prima di risponderci, bisogna pensarci bene e per questo sono necessari più dei trenta secondi richiesti nei quiz di Michele Bongiorno. Ora, per rispondere a tono, chiamo in aiuto un certo frate Bartolomeo della Pugliola con la sua “Cronichetta” custodita nell’Archiginnasio di Bologna. Lì il cronista racconta senza veli che un gran personaggio del Senato di Bologna si trovasse a passare in quel tratto della strada Emilia ricordata prima in mezzo a una boscaglia fonda, ritrovo di banditi, assaltatori ed altra gente degna della forca.
A farla corta: la guardia fu assaltata e spogliata delle armi: al personaggio fu tolto tutto quello che aveva indosso a cominciare dei vestiti e, nudo e crudo come un verme, fu legato sulla sua mula bianca e rimandato indietro con la faccia voltata contro la coda in segno di disprezzo. Fu allora che la reggenza della Città di Bologna decise di mettere un fermo, una volta per tutte, a queste cose vergognose. Il nostro frate Bartolomeo scrive in proposito: “1380 – Onde avvenne che il suddetto Comune di Bologna mandò a porre una Bastia nel contado di lmola, che prese il nome di Castelbolognese”. Se fosse vero quel che dice il buon fratino, Castello alla data di oggi conterebbe, tondi, seicentoquindici anni, una discreta “gulpadina”. Se vogliamo fare un paragone: New York, a parte la differenza, quando eressero la Bastia era ancora “in mente Dei”.
Purtroppo in molte cose, il più delle volte, ci si mette un “fagiolo nella piva” e stavolta il “fagiolo” ce l’ha messo un castellano. Francesco Serantini, l’avvocato. Il nostro grande scrittore, frugando fra le carte dell’Archiginnasio di Bologna, ti va a pescare, come in un romanzo giallo, il documento originale della data di fondazione di Castello: 13 aprile 1389.
“Sentenza di Filippo Guidotti podestà del contado di lmola alla presenza delle Comunità di Serra, Casalecchio, Barignano e Anconata che formano il distretto di questa terra ricevono il presente ampliato Castello, io Giacomo notaio sottoscritto nell’anno di N. S. Gesù Cristo 1389 il giorno di 13 aprile del pontificato di S. S. Papa Urbano Sesto alla presenza di tanti illustri testimoni vi faccio grazia: autentificata questa sentenza al tempo del massaro ser Aghinolfi di Solarolo, massaro del Comune di Imola dal quale sono stato soddisfatto colla somma di nove ducati d’oro fino e sonante”.
Se facciamo un po di conti: nove ducati d’oro, a quei tempi, erano “baiocchi”: valutati e svalutati nella moneta di oggi giorno, (che non è neanche adoperabile a spazzarsi …), con tutte le svalutazioni passate e presenti vedremo che per la fondazione di Castel Bolognese la semplice scrittura dell’atto non è stata una spesa da poco.
Secondo interrogativo: stabilito il posto, dato inizio a tutto quello che abbisogna per il funzionamento di un paese, dove trovare quelli che siano disposti a venire ad abitarlo? Emanarono un bando con invito a far parte della popolazione. Risultato: lo riferisce, semiscandalizzato, frate Bartolomeo: “ordinis minorum”: “I primi a presentarsi al bando furono proprio i banditi dei boschi.
I bolognesi, che il Signore tenga la sua santa mano su di loro, non potevano trovare un posto migliore dove i futuri contrabbandieri si trovarono a sguazzarci come ranocchi nel pantano. Se, per caso, aveste davanti una mappa della Romagna immaginate d’avere anche un compasso con l’apertura ideale di 42 Km. Puntate dove c’era, una volta, la Torre di Castello e tracciate un circolo, troverete ai quattro punti cardinali: a Sarner, Bologna; alla Curena, Palazzuolo, alla Bura, Ravenna; a Sulan, Cesena; come dire i confini di quel territorio che, per quattrocento e più anni, divenne teatro delle imprese dei nostri contrabbandieri, degni figli dei loro progenitori: assaltatori da strada maestra.
Terzo interrogativo: fra Faenza e lmola, il paese pur mo nato, correva il rischio di rimanere inguaiato per mancanza, sul posto, delle risorse necessarie per crescere. E allora, che facciamo? Nel dubbio il senato bolognese, memore dell’antica sentenza: “in dubiis pro reo” decide: “Aiutiamo questa gente anche se fossero briganti, e nel caso dei recenti abitanti di Castello dispone: diamo ai nostri Castellani alcuni vantaggi. Sentiamo in proposito un altro storico: Giovanni Emiliani, castellano di razza doc: il vantaggio principale dato ai nostri proavi era l’esenzione dal pagare dazi, gabelle e altre tasse di qualsiasi colore e in particolare la possibilità, per gli uomini e i commercianti di Castello, di portare a Bologna il loro grano e le biade, e vendere la loro merce con favori che non erano dati a commercianti di altri luoghi. Ohi! ragazzi fu come invitare un tedesco a bere!
Questa la spinta al sorgere del contrabbando castellano. Prima vicino a casa e poi, pian piano, verso città e paesi più lontani. Da qui le condizioni necessarie e sufficienti che permisero l’affermarsi dei Contrabbandieri di Castelbolognese che avevano nel sangue, per atavica disposizione, il gusto di andare contro a tutto quello che sapeva di leggi e dì regolamenti. Superate le prime difficoltà, organizzati con la pratica uomini, animali, mezzi di trasporto, scampati, non si sa come, al saccheggio e alla distruzione del paese ad opera di Cesare Borgia, detto il Valentino, già ve il 1650 si era affermata un’accolta conosciuta nelle Legazioni di Bologna e di Ravenna e nel forlivese con l’appellativo “Contrabbandieri di Castelbolognese” seguito dal detto: “quelli di Castello hanno il diavolo nella budella”.
Nel paese i nostri formavano una comunità a parte. Parlavano un dialetto con molte voci differenti dal castellano popolaresco. Chi non faceva parte a l’organizzazione non entrava nè per interessi, nè per rapporti di genere diverso. Nel vestire si notavano particolarmente, uomini e donne: oh un contrabbandiere! Anche il tenore di vita era superiore a quello della maggior parte dei castellani. Spesso e volentieri, nel discorso, ricorrevano a boiate o a bestemmie, ma ciononostante, alla loro maniera, mantenevano una certa devozione. Avevano regalato alla Madonna della Concezione il Manto trapunto in oro indossato ancora oggi dalla nostra Madonna nella domenica della Pentecoste, ricordato come il Manto dei Contrabbandieri. Confinavano con la strada Guazzabuglio (ora via Morini), abitata dagli ebrei. Come combinassero persone così diverse è un mistero. Forse c’entravano i cambi delle monete che i contrabbandieri adoperavano nei loro viaggi.
Un altro aspetto importante sarebbe indagare a fondo il ruolo della donna contrabbandiera. Senza neanche credere di essere come quelle che oggi dì si dicono femministe, avevano certamente una funzione di primo piano nell’organizzazione, se osserviamo che erano loro, oltre che mandare avanti la casa e governare i figli, a badare pure agli affari quando gli uomini erano lontani. Non è un parto delI’immaginazione pensare che siano stati loro a trasformare l’allevamento delle oche e il commercio del piumino in una forma para-industriale per quanto lo permettevano i tempi. Dato che abitavano a contatto colle mura era possibile, a loro, portare i branchi delle oche nel fossato intorno pieno di acqua in tutte le stagioni e avere l’acqua per i bisogni degli animali. L’allevamento e il commercio delle oche, dietro l’esempio delle donne dei contrabbandieri, divenne in breve tempo il lavoro della maggior parte dei castellani. Si incontravano oche dovunque tanto che i forestieri presero l’abitudine di chiamare Castello “il paese delle oche” che, adoperato dalle malelingue, non era di certo un complimento ben accetto dagli abitanti. Una nomina che prese piede; persino Giosuè Carducci lo ricorda nel suo libro Levia Gravia… “le piume come di un’oca cui l’industre paesano di Castelbolognese abbia alleggerito del suo bianco mantello…”.
A questo punto, e domando venia, non posso fare a meno di ricordare Gesualda, l’ultima donna di razza contrabbandiera, vissuta e morta nella “contrada”. Fino all’ultimo della sua vita allevò e commerciò oche. Mi aveva preso a simpatia da quando le avevo accennato dello scritto di Carducci: “Mi coglioni! Allora sono nella storia!”. Andava al mercato a Lugo, a piedi, con la carriola. L’oca uccisa nel fondo, lo scanno per il bucato di traverso per tagliarla al momento della vendita. Mi raccontò di quel mercoledì quando, alle due del mattino, fu fermata dai banditi sul ponte di Felisio. Allora i soldi erano spiccioli di rame: un soldo, cinque centesimi; due soldi, la baiocca, dieci centesimi (ai quali ritorneremo se vogliamo che la lira riprenda il suo valore), quando la nostra moneta era alla pari colle altre. Le baiocche da due soldi, sia quelle di Re Vittorio come quelle del collo lungo, per poterle portare in tasca, ne facevano dei rotoli pressati con carta gialla, lunghi un 15cm. circa. Gesualda, disperata per il suo peculio in pericolo, un rotolo di baiocche, arrivò a nasconderlo approfittando del fatto di essere l’ultima della fila dei fermati. Passò la visita senza che le trovassero alcunché, sebbene la perquisissero da tutte le parti. “Oh, Baldo, la paura fu grande, ma del piacere neanche un briciolino!”. Lascio a voi indovinare dove la valente Gesualda aveva nascosto il suo rotolo.
Ma tiriamo avanti! Alla fine del ‘600 i Contrabbandieri di Castelbolognese erano famosi e temuti: le autorità di Bologna e quelle paesane chiudevano un occhio e spesso tutt’e due perché il contrabbando dava loro la possibilità di rifornirsi di grano e di altre cose di prima necessità, specialmente nei periodi di crisi. D’altro lato tanta roba andava anche al di là dei confini senza pagare un soldo di dazio tanto che il Pontefice e i Cardinali Legati erano in allarme. Minacce e leggi sempre più dure si moltiplicavano, scontri fra contrabbandieri e guardie erano all’ordine del giorno. Era opinione diffusa che, una volta per tutte, si dovesse venire a un definitivo regolamento di conti: e questo avvenne il 25 agosto 1702. Gli studiosi di storia danno un resoconto dell’avvenimento più o meno uguale ai rapporti della polizia papalina, compreso anche il nostro Giovanni Emiliani, io invece ne ho sentito notizia, tanti anni fa da uno che discendeva in linea diretta da una famiglia di contrabbandieri e ricordava il fatto come l’aveva ascoltato dai suoi vecchi e nominava pure qualcuno che era stato fra i protagonisti.
Diceva dunque Frazcon d’Sgrapagnèla, girando la ruota da canapino che permetteva a Piròn d’Spadèna d’intrecciare la corda di canapa: “Quel giorno, il 25 di agosto, furono viste squadre di sbirri e di finanzieri papalini appostarsi nei pressi del Ponte delle Due Torri sul Lamone tra Faenza e Borgo Durbecco. Si seppe subito che l’appostamento era fatto per aspettare una banda di contrabbandieri che proveniva dalla Toscana. Le spie avevano suggerito che il passaggio doveva avvenire alla calata del sole e intanto li aspettavano per tempo. Anche i contrabbandieri -continuava Frazcòn – non dormivano di certo. Le loro dritte li avevano avvisati. Alla Cosina tennero consiglio e accettarono lo scontro. Era una colonna di 5 carri e 50 contrabbandieri quasi tutti di Castello”.
Il vecchio Frazcòn si entusiasmava come se anche lui fosse della partita: “C’era l’Umàzz, il capo, e i suoi due sottopancia più giovani: è Faichètt e la Faina; tutti quelli della banda avevano il trombone a palla grossa, due pistole alla fusciacca e il pugnale nella “sacona” per il corpo a corpo. La Forza li aspettava sulla riva sinistra del Lamone con il sole dietro le spalle, ma l’Umàzz ne sapeva una più di Berlicche. Aveva misurata bene l’ora, alle otto di sera il sole era già calato a ponente e aveva lasciato un lucore che non dava fastidio a chi arrivava da levante e quasi nessun vantaggio agli appostati. Rispondevano ai colpi coperti dalle sponde dei carri cercando di proteggere gli animali e cosi erano arrivati a l’imbocco del Ponte tirandosi addosso la massa degli avversari. Intanto l’Umàzz, memore di altre situazioni del genere, si apprestava a giocare le sue briscole. Due squadre di dodici uomini ciascuna si erano distaccate anzitempo dalla colonna e, una a destra e una a sinistra della strada Emilia, coperte dal folto dei boschi andavano all’assalto della sponda opposta. Guadato il fiume, quasi in secca per la stagione estiva, prendevano di sorpresa gli sbirri ai due fianchi. Il combattere durò fino a buio e finì quando i papalini, accorgendosi di andare incontro a una batosta di grosse proporzioni, si ritirarono lasciando sul campo morti e feriti.
I nostri – è sempre Frazcòn a raccontare – ebbero un morto e un ferito e tirarono diritto fra gli schiocchi dei parpignani. Risultato dello scontro: i contrabbandieri rinsaldarono ancor più le loro posizioni e per altri 150 anni estesero i loro traffici dentro e fuori degli Stati del Papa”. Allora, per mettere riparo a una situazione divenuta pericolosa, il papa Pio VI con un “Motu proprio” dispose il distacco di Castelbolognese dalla Legazione di Bologna portandolo sotto il controllo di Ravenna per ovviare una buona volta alle funeste conseguenze “del proscritto pregiudizievole commercio e reprimere l’illecito mercimonio – sono parole del Papa – in cui, specialmente da parte degli abitanti di Castelbolognese, si stava da lungo tempo esercitando”. A sentire il Papa tutti i castellani sono divenuti contrabbandieri.
Con il passaggio della tempesta napoleonica si videro cambiamenti: Castello tornò sotto Bologna cambiando nome: Castel del Senio, poi ancora tornò con Ravenna riprendendo la primitiva denominazione. In questo trambusto i contrabbandieri misero la coccarda rivoluzionaria, eressero alberi della libertà al canto della Marsigliese, ma soprattutto continuarono a fare i propri interessi. Successero fatti dolorosi come il “Sacco di Lugo” da parte dei francesi. Sarebbe da vedere, speriamo di no, se entrarono anche i contrabbandieri fra i soldati del generale Lannes, accantonati proprio a Castelbolognese.
Ogni cosa ha fine quando non è più il suo tempo. Anche per i contrabbandieri di Castello si stava avvicinando il principio della fine. Basta dire che il 23 settembre 1840 avvenne uno scontro fra i presentini e i loro avversari di sempre. Qui non abbiamo neppure Frazcòn a darci una mano e pertanto sentiremo come lo presenta il nostro Giovanni Emiliani: “Dunque il 23 settembre 1840 alcuni contrabbandieri castellani si aggiravano, armati di schioppo, sui monti posti fra Casola Valsenio e Tossignano in località Passeggio, in aspettativa dei loro “spalloni” (nome dato ai facchini che sulle spalle portavano colli di contrabbando per i meno praticabili sentieri dell’Appennino), che dovevano giungere dalla Toscana. Quei contrabbandieri, sorpresi da una squadra di finanzieri papalini, vennero a combattimento con questi, ma poi accortisi che la loro resistenza era vana perché la squadra assalitrice era assai grossa e rimasti feriti due dei loro, non gravemente ma tuttavia impediti a maneggiare l’arma, cercarono nella fuga la loro salvezza”. In poche parole se la diedero a gambe. Come sono lontani i giorni del mitico Umàzz, dei suoi due aiutanti è Faichètt e la Faina, e di tutta la squadraccia del Ponte delle Due Torri!
Altri tempi, altre condizioni sociali erano venute maturando dal 1702. Gente nuova, coraggiosa e combattiva, si muoveva sul palcoscenico della storia. L’idea di libertà aveva preso un nuovo volo e correva per tutta l’Italia, sicché la gioventù, anche quella contrabbandiera, non poteva non sentirne la forza e accusarne i contraccolpi. Ancora: sulle strade di Romagna era sorto il banditismo armato, un pericolo ben più grave del contrabbando. Queste bande assaltavano persone e cose, e in più la Forza dello Stato Pontificio. Si potrebbe, per esempio, far riferimento a un personaggio famoso: Stefano Pelloni detto il Passsatore. Non mi è stato possibile sapere se sono accaduti incontri o scontri fra banditi e contrabbandieri. Anche i più vecchi che ho conosciuto e coi quali ho parlato non hanno saputo dirmi niente di niente. Un silenzio, come dire, curioso se si pensa che le strade battute dal banditismo e dal contrabbando erano comuni, a cominciare dalla via Emilia.
Alla proclamazione del Regno d’italia siamo da l’Olmatello per andare a Faenza, come si diceva con un’espressione colorita per dire siamo quasi alla fine. Qualche anno ancora e il contrabbandiere si trasforma in birrocciaio (e’ bruzài) per uscire di scena con l’avvento del motore, croce e delizia dei romagnoli.
P.S. in questo tempo, anche lui poco raccomandabile, contrabbando e contrabbandieri hanno cambiato faccia e pratica, ma questo è un discorso che non ha a che fare col nostro impegno.
Insacchiamo quindi il violino e di corsa andiamo a raccomandarci a San Giovese che ha l’unto per tutti i mali specie per colui che lo scrivere non è di certo il suo mestiere. E chiudiamo questa “voglia” ringraziando chi ha avuto la pazienza di arrivare sin qui, perchè come si diceva una volta, scuotendo la testa: “La vàca dla Riga quèl ch’l’an fè da zovna, l’al fè da vècia”.
Baldo d’Viola – Ubaldo Galli
tratto dal Nuovo Diario Messaggero, nn. 6, 13 e 20 maggio 1995
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