L’importanza del culto di Sant’Antonio Abate nella vita contadina di ieri e di oggi
La festa di Sant’Antonio alla Pace
In un vecchio trattato di agricoltura sta scritto che l’annata agricola inizia il giorno di Sant’Antonio Abate e termina il giorno di San Martino, durando pertanto dal 17 gennaio all’11 novembre. Le due date sono significative, oltre che onorate dalla Chiesa con le figure di due grandi Santi. Questa giornata di gennaio viene alla fine di quel periodo dove la notte sembra non debba aver termine, ora il giorno sta riprendendo il sopravvento; così pure la terra, che sembrava morta ed oppressa dal grande buio comincia a rinascere. L’uomo, fin dai primordi della storia, ha segnato questo periodo che prelude alla primavera con una serie di riti propiziatori, sacrifici di animali, feste. Per tale motivo la Chiesa, dopo le feste di Natale che celebrano la venuta della Luce tra di noi, indice dopo l’Epifania il periodo di festa del Carnevale, e pone proprio a metà di gennaio in venerazione la figura di Antonio Abate, santo egiziano vissuto nel III – IV secolo dell’era cristiana che, ricco di famiglia, diventato orfano, lasciò tutti i suoi averi ai poveri. Sistemata la sorella in una comunità femminile, seguì la vita solitaria che già altri anacoreti facevano nei deserti attorno alla sua città, vivendo in preghiera, povertà e castità. Antonio è considerato il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli abati. A lui si deve la costituzione in forma permanente di famiglie di monaci che sotto la guida di un padre spirituale, abbà, si consacrarono al servizio di Dio. Ma che c’entra Sant’Antonio con la campagna e gli animali, seppure sia sempre raffigurato con un porcellino con la campanella al fianco, la fiamma in mano ed il bastone, dal momento che visse nel deserto ed in luoghi in cui i maiali non c’erano?
Già Sant’Antonio, ritiratosi nel deserto della Tebaide, prese a coltivare un piccolo orto per il suo sostentamento e di quanti, discepoli e visitatori, si recavano da lui per aiuto e ricerca di perfezione. Nel 1088 poi un nobile francese, Gaston de Valloire, dopo la guarigione del figlio dal fuoco di Sant’Antonio, decise di costruire un ospedale e di fondare una confraternita per l’assistenza dei pellegrini e dei malati, che col tempo si sarebbe trasformata nell’Ordine Ospedaliero degli Antoniani. Costoro avevano ottenuto il permesso di allevare maiali all’interno dei centri abitati, poiché col grasso di questi animali ungevano gli ammalati colpiti dal fuoco di Sant’Antonio, ma anche con la carne, nutriente e calorica nutrivano i degenti e i bisognosi. I maiali erano nutriti a spese della comunità e circolavano liberamente nei paesi con al collo una campanella. Da ciò deriva la tradizione, tra le più antiche del cristianesimo, che vuole Sant’Antonio Abate protettore delle campagne e dei contadini, degli animali domestici ma anche dei macellai e dei salumieri.
Acerrimo nemico del demonio, con il quale l’agiografia racconta lotte furibonde durante le quali il santo fu più volte aggredito e percosso, secondo una leggenda popolare Sant’Antonio si recò all’inferno per contendere l’anima di alcuni morti al diavolo. Mentre era in vita tanti ammalati si recarono dal Santo per chiedere e ottenere guarigione da terribili malattie; tra queste v’era l’herpes zoster, il cosiddetto fuoco di Sant’Antonio. Per tale motivo, oltre che essere invocato come potente taumaturgo, Sant’Antonio Abate è patrono di quanti lavorano con il fuoco, come i pompieri, e in particolare, nella nostra zona, i ceramisti. In alcune parti d’Italia, è tradizione accendere nella sera del 17 gennaio grandi falò in suo onore, in ricordo anche della leggenda che lo vuole donatore del fuoco all’umanità: sceso all’inferno per contendere al diavolo le anime di alcuni defunti, accadde che il suo maialino sgattaiolò dentro creando scompiglio fra i demoni; il Santo ne approfittò per accendere col fuoco infernale il suo bastone che poi portò fuori, insieme al maialino recuperato, accendendo con esso una catasta di legna.
Anche oggi, di fronte ad una agricoltura “tecnologica”, il culto di Sant’Antonio Abate non conosce crisi: non c’è stalla o casa colonica ove non si trovi appesa una sua immagine e così anche a Castel Bolognese tutte le sette Parrocchie del comune festeggiano a turno il Santo nelle domeniche di gennaio con liturgie solenni, feste e lotterie che vedono sempre un grande concorso di fedeli e di popolo.
Fino al secondo conflitto mondiale, tuttavia la festa più grande del territorio comunale era quella che si svolgeva nella parrocchia della Pace di cui Sant’Antonio è co-patrono. Essa si teneva nella giorno della festa del Santo, il 17 gennaio, in qualsiasi giorno della settimana cadesse: varie messe di cui una solenne accompagnata dal canto della Corale Parrocchiale e dalla musica di qualche strumento, il tutto diretto con sapiente tocco dal parroco e musicista don Vincenzo Cimatti, assieme alla solenne funzione pomeridiana onoravano degnamente il Santo; quale degno contorno una ricca lotteria con primo premio una maiale o una pecora, un po’ di musica, tanta allegria. In quella giornata lunghe teorie di persone con ogni mezzo, anche a piedi, raggiungevano la Pace percorrendo la Via Emilia da Castel Bolognese, da Pieve Ponte e anche da Faenza. Non si dimentichi che, allora la chiesa si trovava al di là della via Emilia, attaccata al cimitero. Certo non fu una bella festa di Sant’Antonio quella del 1945. Anzi la festa non si tenne neppure, poiché la chiesa della Pace era già distrutta come la maggioranza della case attorno che, trovandosi sotto la linea del fronte, furono i primi edifici ad essere colpiti dalle bombe. Ma qualcuno non vi rinunciò, come racconta Tristano Grandi nel suo volume sul Pronto Soccorso nell’Ospedale sotto i bombardamenti.
Il 17 gennaio, in tempo normale, la Parrocchia della Pace era in festa grande: la festa di Sant’Antonio. Tanti Castellani vi si recavano ed io ricordo quel giorno come una delle attrattive caratteristiche locali. La data infatti non sfuggì all’anziano Luigi Rambelli, soprannominato “Ciulè”, ricoverato nell’Ospizio Cronici, originario di quella Parrocchia. Quel pomeriggio la Superiora era disperata perché “Ciulè” era scomparso. La sera, finalmente, si rivide. Alle insistenti domande della Superiora che desiderava sapere dove avesse trascorso il pomeriggio, rispose candidamente nel suo inconfondibile dialetto romagnolo: “Dove sono stato? Sono andato alla festa della Pace, ma non c’era nessuno.” Inutili furono le domande per avere chiarimenti, specie da parte mia e di Biancini che, nello stesso pomeriggio, avevamo vissuta un’avventura tanto burrascosa (i due volontari erano accorsi al podere “Anconata” di Via Zanelli per soccorrere il colono Giacomo Ferniani, ma lungo la strada furono bersaglio di tiri alleati di artiglieria in quanto vicino al luogo ove erano diretti, che, tra l’altro, non era distante più di cento metri dalla chiesa della Pace, vi era un comando tedesco). “Ciulè” non disse altro. Come sempre ognuno vive lo stesso tempo e lo stesso momento in modo diverso. È l’altra faccia della medaglia.
Paolo Grandi
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