Augusto e Francesco Borghesi, i Giapitê
Quanta non ce ne sarebbe da dire sui pittori di ex-voto! anche perché, in tempi in cui la salutare ventata dei Murri dei Lanzoni dei Bonaiuti, rendendo un prezioso e magari malinteso servizio alla “realtà” del sentimento sacro, non aveva ancora snebbiato le tante allucinazioni, certe smarrite manifestazioni di anime in pena trovavano il loro equivalente nelle velleità di pittori, falliti forse, ma non perciò meno sinceri nel “trarre” dal loro semplice istinto e buon senso di artisti tanto inconsapevoli quanto credenti.
L’avvertimento serve di semplice cappello alla rimessa in carreggiata del nome praticamente caduto di coloro che sul finire del secolo passato furono “i pittori” per antonomasia di Castelbolognese, cioè due almeno dei Borghesi, soprannominati “i Giapitê”, e dei quali i pellegrinaggi sommati in tanti anni da chi scrive salvano le figure di almeno Augusto e, più consistente, di Francesco. Ma se il primo, al momento quasi evanescente, non lo leggiamo che, in data 1891, in una tabella dell’oratorio della Fognana presso Tebano di Faenza, l’altro pur nel cerchio delle velleità più o meno sfogate di cui si diceva, mantiene tuttora una certa consistenza. Le sue notizie a stampa si raccolgono intanto quasi solo nel noto libro del Padre Serafino Gaddoni sulle chiese della Diocesi imolese (pagg. 61, 144) (1), e sono notizie giustamente messe dal dotto in connessione con fatti deprimenti o negativi. Attestano invero la presunzione del nostro di erigersi a rifacitore di roba, cioè di quadri, altrui (vizio oggi tutt’altro che spento): sotto, beninteso, lo stimolo inopportuno di parrochi committenti quanto incompetenti. Si tratta ad esempio di una pala d’altare di uno dei Cignani, Paolo, del sec. XVIII, già a Campiano, pieve di Castelbolognese (dove è andata distrutta nel 1945), e di altre due con S. Martino e con S. Lucia esistenti a Mazzolano di Riolo. La manomissione attesta in modo inconfondibile la mania del nostro nel ricalcare, pesticciare, trasformare, e infine rovinare del tutto, quanto poteva esserci di buono in quadri antichi; il che con tanta presunzione ed insistenza, accompagnate da un colore incollato e indelebile, da impedire ogni speranza di recupero. Ma per fortuna il Borghesi quando non disturba gli altri si limita ad operare del suo: più o meno bene quando si picca d’autore sacro e d’altari: come nella telina priva di data in San Silvestro presso Faenza (F. Borghesi Pinx…!), o nel Profeta Elia, del 1882, al Carmine di Russi, o nel grande S. Antonio Abate, 1873, alla chiesa della Serra.
Meglio di certo fa quando, dimessi panni curiali e applicatosi con animo meno complicato al suo modesto cavalletto, rientra nel seminato e dipinge per commissioni, passategli o da area locale oppure da più ampia rete romagnola, per gli ex-voto dei Santuari. La sua fama anzi dovette crescere, pensiamo proprio all’ombra di quello a lui più vicino e consueto, l’Immacolata in S. Francesco di Castelbolognese, quindi in patria. Sussistono nella locale Collegiata, provenienti dal Santuario, e salvate in extremis dal disastro bellico, varie tabelle e cartoni, pennellati con puntigliosa diligenza e robustezza. Furono esposti localmente qualche anno fa. Curioso però notare che tali opere fatte in paese non sono mai firmate da lui, così meticoloso invece nel fissare la filiazione allorquando l’opericciola emigra. Noi le distinguiamo benissimo lo stesso dal loro fare caratteristico, dal colore sempre terso e chiaro, e nella distribuzione elementare dei dati. Al gruppo ora citato dell’Immacolata si lega una immagine della stessa, oggi in possesso di D. Sandrino Pompignoli, cappellano all’Ospedale; mentre una seconda serie spettante al culto (qui spento) del B. Giuseppe Labre (una figura famosamente ritratta a Roma nel settecento dal Cavallucci e, in età moderna, dal De Pisis in un quadro andato poi distrutto) l’abbiamo salvata dall’abbandono nella collegiata di S. Petronio.
Il punto di arrivo più lontano che sin qui conosco dei pellegrinaggi del “Giapitê”, non si può dire se coi suoi propri piedi, ovvero con l’intermezzo carreggiato dei quadri, lo si rintraccia a Predappio Alta, alla Maestà, in un cartone del 1883 per la famiglia Giannelli, notabili del luogo. Quante altre sue fatiche saranno andate perdute nello spoglio ormai generale, quanto inconsulto, dei tanti Santuari via via “ripuliti” da massari delle Confraternite e da parroci, con relativa dissipazione di tanta e tanta roba “vecchia”, cioè storica, ed inalienabile patrimonio nazionale, non è il caso di cercare. Sarà solo curioso osservare, che nella massa cospicua di ex-voto rimasti (ed ora catalogati dalla Soprintendenza) al Santuario della Salute nella vicina Solarolo, i “Giapitê” di Castelbolognese non fanno comparsa: l’uniforme produzione del luogo, dopo l’avvio dal 1744 almeno, si accentra dopo la metà del secolo XIX su due o tre anonime figure, fertilissime, nel cui territorio non era, evidentemente, permesso sconfinare; così come viceversa.
Antonio Corbara
Testo tratto da “La Piè”, n. 3, maggio-giugno 1965
(1) Scrive il Gaddoni sul restauro della pala del Cignani che il quadro fu “malamente ritoccato da Francesco Borghesi di Castelbolognese, detto Giapitè, che rovinò non poche opere d’arte nella vallata del Senio”. Sul S. Martino esistente nella chiesa di Mazzolano, che il Borghesi modificò, su richiesta del pievano, in Sant’Antonio aggiungendo una fiaccola e un campanello, il Gaddoni dice che il quadro “è stato deturpato dal Borghesi (Giapitè) di Castelbolognese”.
Immagini tratte da:
– Pier Paolo Sangiorgi (a cura di), La madonna di Castel Bolognese: storia, devozione, cronaca, Castel Bolognese, Itaca, 1993.
– Stefano Borghesi e Giuliano Castellari (a cura di), Il culto della B.V. della Fognana a Tebano, Castel Bolognese, Grafica artigiana, 1994.
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