La Storia di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/ Wed, 20 Nov 2024 14:30:36 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.6.2 Novembre 1944: l’inizio dell’apocalisse https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/novembre-1944-linizio-dellapocalisse/ https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/novembre-1944-linizio-dellapocalisse/#respond Wed, 20 Nov 2024 14:30:36 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12048 di Paolo Grandi Ai primi di novembre 1944 il fronte finalmente raggiunse a Forlì ma per liberare la città ci vollero addirittura alcuni giorni e così mentre l’aeroporto fu conquistato nella notte tra il 7 e l’8 novembre, i carri armati della North Irish Horse entrarono in Piazza Saffi solo …

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di Paolo Grandi

Ai primi di novembre 1944 il fronte finalmente raggiunse a Forlì ma per liberare la città ci vollero addirittura alcuni giorni e così mentre l’aeroporto fu conquistato nella notte tra il 7 e l’8 novembre, i carri armati della North Irish Horse entrarono in Piazza Saffi solo sabato 11. Il meteo non aiutò sicuramente l’avanzata: dopo l’esondazione del Senio a fine ottobre, sono segnalate piogge abbondanti per tutta la prima decade e poi tutto il mese continuò con brevi sprazzi di sereno e tanto maltempo.
Nelle campagne di Castel Bolognese i tedeschi erano in piena attività per rafforzare le difese, piazzando ovunque pezzi di artiglieria e sparando pesantemente a lunghi intervalli verso levante; ad ogni tiro rispondeva l’artiglieria inglese. Le case di campagna lungo il Senio furono in gran parte state fatte sfollare ed i contadini si rifugiarono dove possibile, ma essendo autunno inoltrato e in previsione dell’inverno cercarono riparo nelle cantine cittadine. I guastatori tedeschi seminarono le mine e scavarono ovunque buche e trincee per posizionarvi cannoni e mitragliatrici. Angelo Donati tuttavia segnala che il morale della truppa era basso, spesso questi soldati erano laceri ed affamati ed assieme agli Ufficiali dediti al vino e alle ubriacature. La popolazione di campagna era atterrita: gli animali da cortile furono facile preda per gli oppressori e le povere “Arzdore” costrette, anche sotto il tiro delle armi a cucinarli per la truppa. In città invece i maschi presenti, specie i più giovani non ancora atti al servizio militare o gli anziani ancora attivi erano oggetto di rastrellamento da parte degli occupanti ed erano costretti al lavoro forzato per esigenze militari.
Mezzi corazzati furono posizionati anche nel centro urbano. Angelo Donati riferisce che un carro armato si muoveva in città sparando da punti diversi per non farsi individuare. Secondo don Garavini ve n’era più d’uno, rifugiati sia sotto i loggiati di Palazzo Mengoni che sotto quelli della via Emilia ed uno, manovrando, urtò la Torre civica, quasi ai piedi dell’arco verso la piazza producendovi una grave lesione. Qualche testimone riferisce che un carro armato sprofondò nella cantina dell’osteria di Badò sulla via Emilia.
“Pippo” intanto continuava a volare quasi quotidianamente, segnando la linea del fronte e gli obiettivi da colpire; di giorno fioccavano le granate inglesi che caddero in gran parte nelle campagne. La notte, i riflettori germanici puntavano sulle colline vicine al Senio facendo tutto il giro della cerchia fino alla Vena del gesso e verso Bologna; e perciò spesso non c’era pace per i castellani, svegliati dalla sirena perché giungevano sempre numerose le granate inglesi; quindi molti preferirono iniziare a trascorrere la notte nelle cantine. I tiri incrociati di artiglieria si intensificarono nella seconda metà del mese ed il giorno 28 novembre, come annota il giovane Franco Ravaglia nel suo diario, caddero le prime due granate nel centro di Castel Bolognese. L’attività si ripeté anche nei giorni seguenti ove vi furono pure bombardamenti che provocarono gravi danni specialmente nel Borgo, e qualche ferito. I primi feriti del centro, trasportati dalla Squadra di Pronto Soccorso, furono Igino Sgalaberni ed Aldo Castellari. Curioso il loro ferimento: lo Sgalaberni gestiva assieme alla moglie Romana Zannoni una tabaccheria sotto il portico della Via Emilia, adiacente all’attuale Farmacia Ghiselli. Lo spaccio era chiuso ed i gestori assieme al Castellari si trovavano in cucina, posta nel retrobottega. Cadde una granata sulla via Emilia ed una scheggia trapassò la saracinesca e la vetrina della tabaccheria, si diresse in cucina sfondandone la porta, si piantò nella coscia dello Sgalaberni, trapassandola e poi fermandosi nella gamba del Castellari. Ma le schegge provocarono anche una vittima, seppur non umana: il maiale che le Monache Domenicane avevano ingrassato nel loro cortile e che contavano di macellare per Sant’Antonio.
Dato che il centro urbano era diventato un bersaglio per i bombardieri e quindi era necessario liberare i luoghi colpiti dalle macerie, salvare i feriti, recuperare i morti e mettere in sicurezza le rovine, il 30 novembre il Commissario Prefettizio del Comune mobilitò Arnaldo Cavallazzi perché costituisse e dirigesse la squadra di soccorso dell’UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea), che senza alcun compenso si occupò di dare questi soccorsi e inoltre svolse servizio antincendio e anticrollo, tra molti pericoli (lo stesso Cavallazzi restò ferito a un piede da una scheggia di granata, e due componenti della squadra, tra cui suo genero Ariovisto Liverani, morirono). Salvò inoltre dalla completa distruzione l’Archivio comunale e l’affresco di Girolamo da Treviso della Chiesa di S. Sebastiano, colpita dai bombardamenti. La Squadra UNPA operò fino al 15 maggio 1945.
Anche l’Ospedale, pur tra enormi difficoltà, continuava a rendere il suo servizio sotto la direzione del dott. Carlo Bassi, il quale, così riferiva mio padre, non disdegnò di salvare qualche sospetto collaborazionista e/o antifascista ricoverandolo in Ospedale e facendolo poi trasferire a Imola per maggior sicurezza, naturalmente rischiando anche la vita. E sempre mio padre riferiva che capitò una di queste persone che occorreva trasferire in fretta a Imola, compito in quel momento ancora riservato alle ambulanze dell’Esercito Tedesco. Il Capo Posto Militare tuttavia, vedendo il (finto) ammalato, non ne ritenne così urgente il trasferimento ed ebbe un alterco col dott. Bassi, il quale, di tutto punto, vergò un certificato medico ove lo si diceva affetto da una malattia contagiosa (ed i Tedeschi erano terrorizzati di essere contagiati da qualsiasi malattia) e grave che clinicamente si nominava cutis anserina (pelle d’oca!). Il soldato non capì l’inganno e tosto un’ambulanza partì di gran carriera per l’Ospedale di Imola con il finto ammalato.
In novembre continuarono anche i saccheggi promossi dai tedeschi ma seguiti dalla popolazione: il primo novembre toccò alla villa Centonara, sul viale Cairoli e alla segheria dei fratelli Villa al Serraglio; il giorno seguente fu preso di mira il laboratorio di maglieria della ditta “Sgarbanti” di Bologna, posto nel Palazzo Ginnasi sulla via Emilia. Prima cominciarono a svaligiare i tedeschi, in seguito sempre in base al principio che “se non la prendo io la portano via o la distruggono i tedeschi” una vera folla imbestialita diede l’assalto al residuo.
Nonostante l’incombente pericolo si tennero ugualmente le Funzioni per il giorno dei Santi e dei Morti e nella chiesa del Suffragio, riparata e tamponata nelle varie parti lesionate la notte del 28 settembre, si celebrò anche l’Ottavario dei Defunti. La terza domenica di novembre si fece l’ultima festa in San Petronio: quella di Sant’Omobono e la sera del 28 novembre in un San Francesco già lesionato iniziò la Novena dell’Immacolata, che tuttavia si interruppe dopo tre giorni a causa dei bombardamenti.
Verso fine mese Brisighella fu liberata ed il comando alleato stava pensando ad una sosta del fronte per far passare l’inverno. I Castellani ricevettero la notizia tramite “Radio Londra” che si ascoltava nelle cantine e sperarono che ciò avvenisse dopo la liberazione della nostra città. Ma non fu così e l’apocalisse maturò nei mesi successivi.

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Addio sindaco contadino: Reginaldo Dal Pane ci ha lasciato https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/personaggi/addio-sindaco-contadino-reginaldo-dalpane-ci-ha-lasciato/ https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/personaggi/addio-sindaco-contadino-reginaldo-dalpane-ci-ha-lasciato/#respond Thu, 07 Nov 2024 17:43:41 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12043 di Paolo Grandi Lo aveva addirittura scritto nel titolo del suo ultimo libro, uscito nel settembre 2024 in occasione del suo novantanovesimo compleanno: non sono stanco di vivere. Ma dall’Alto, quell’aldilà cristiano nel quale lui ha sempre creduto, è arrivata la chiamata dopo un breve malattia che tuttavia non gli …

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di Paolo Grandi

Lo aveva addirittura scritto nel titolo del suo ultimo libro, uscito nel settembre 2024 in occasione del suo novantanovesimo compleanno: non sono stanco di vivere. Ma dall’Alto, quell’aldilà cristiano nel quale lui ha sempre creduto, è arrivata la chiamata dopo un breve malattia che tuttavia non gli aveva fatto perdere l’abituale lucidità, nel tardo pomeriggio del 5 novembre 2024.
Nato nella parrocchia di Formellino di Faenza in una famiglia contadina patriarcale che si spostava da un podere all’altro per trovare sempre migliori condizioni di vita e di lavoro, il piccolo Reginaldo, arrivò a due anni nella casa di via Farosi dove rimarrà fino alla morte, in una parte di quel podere, di proprietà dei conti Ginnasi che abitavano poco lontano, nel cosiddetto “Palazz d’Orsoni” che la famiglia aveva abbandonato oltre un decennio prima perché, così indiviso, era troppo grande per le forze lavoro di quel tempo. Il piccolo Reginaldo crebbe frequentando per i giochi una delle figlie dei Ginnasi e per la dottrina cristiana la parrocchia di Casalecchio. Il suo percorso di studi s’interruppe dopo la quinta elementare: la famiglia non aveva le possibilità economiche né lui stesso si era opposto, benché fosse stato uno scolaro esemplare e molto diligente, perché gli premeva lavorare per non pesare sulla famiglia. Da autodidatta formò la propria cultura leggendo i classici ed avendo libero accesso alla biblioteca dei Ginnasi. Una cosa, tuttavia, Reginaldo non accettava: sentire i suoi chiamare i conti “signor padrone”; certo, ragionava, erano padroni della terra, ma non i padroni delle persone; gli seccava quando sentiva il nonno, capofamiglia, uomo anziano, dare del lei alla figlia del conte Carlo, che era una ragazzina poco più grande di lui, la quale a sua volta gli dava del tu. E così egli rifletteva sul fatto che in India vi erano le caste, abolite per legge, ma di fatto ancora in vigore. Ma non c’erano caste anche qui?
Fu proprio la ricerca di questo senso di giustizia a spingere nel dopoguerra Reginaldo in politica, che fu dapprima attratto dalla sinistra per un profondo senso di giustizia che sentiva in sé e per il desiderio di aiutare la povera gente; “ero forse uno dei pochi che leggeva l’Unità nella casa del popolo, ma non mi piaceva l’esaltazione dell’Unione Sovietica e di Stalin e sapevo che non poteva esistere la dittatura del proletariato.” Così Reginaldo ricorda.
Una sera fu invitato a un incontro che si tenne presso il cortile della chiesa arcipretale di Castel Bolognese. C’era a parlare un giovane bolognese, che poi sarebbe di­ventato deputato e della cui amicizia fu onorato per tutta la vita: era Giovanni Bersani. Quell’incontro fu per lui illuminante e così cominciò a leggere e a studiare alcuni libri sulla dottrina sociale della Chiesa, soprattutto l’enciclica di Leone XIII, Rerum novarum. Era il 1947, vigilia delle elezioni politiche che si tennero nella primavera successiva. L’impegno della Chiesa fu immane: in ogni parrocchia vi era una persona che si impegnava a convogliare i voti verso la Democrazia Cristiana e Reginaldo fu il “collettore” di Casalecchio. Nel 1948 l’iscrizione alla Democrazia Cristiana e poco dopo la sua elezione nel Consiglio Provinciale del partito e contemporaneamente nacque il suo impegno nel sindacato CISL e nelle ACLI. Per Reginaldo il politico era l’uomo che intende spendersi per il bene comune, per il bene-benessere della gente e non per un tornaconto, ma per l’intima convinzione di dover mettere a frutto il proprio talento per migliorare le condizioni di vita della gente, liberamente e gratuitamente, tanto che per tutta la vita Reginaldo ha vissuto del lavoro dei campi, alla ricerca della giustizia sociale da coniugare con la libertà ed avendo come stella polare la parabola dei talenti.
Nel 1956 fu eletto in Consiglio Comunale ed a sua volta votato quale Sindaco dalla maggioranza, carica che mantenne fino al 1964. Questa esperienza è stata descritta nel suo libro “Il sindaco contadino”, ma in breve può così riassumersi: lotta alla disoccupazione attraverso l’esecuzione di una serie di lavori pubblici: Acquedotto, con la costruzione della torre piezometrica, lavatoio pubblico, fognature, case popolari, restauro e riapertura dell’ospedale ma, soprattutto, la dichiarazione di Castel Bolognese come “comune depresso”, cosa che gli attirò le ire delle sinistra all’opposizione ma che costituì la base per attirare investimenti e creare la zona industriale che, sviluppatasi poi nei decenni successivi, oggi è un fiore all’occhiello della nostra città che molti ci invidiano. Si provvide, tramite la costruzione delle case popolari, ad abbattere gradualmente le baracche che ospitavano i senzatetto della guerra; arrivò il metano e si impostò l’acquisto del terreno ove poi sarebbero sorte la nuova scuola media e l’asilo nido, prevedendo l’abbattimento della casa di Pagnòca. Ricordo che, assieme a mio padre che lui stimava molto, partiva per Roma per appuntamenti nei Ministeri: un viaggio defatigante che iniziava poco prima delle 23 salendo sull’ultimo treno per Ancona e da là con un “accelerato” che partiva verso le 4 ed arrivava a Roma alle 7 e mezzo della mattina, col solo biglietto di seconda classe ed a proprie spese. Dopo le visite ed un frugale pasto, il viaggio di ritorno che iniziava nel pomeriggio e terminava alle 10.30 della sera. Si passava da Ancona perché allora la tariffa ferroviaria era chilometrica e l’itinerario più breve ed economico era via Orte e Ancona, naturalmente in seconda classe!
Dopo un breve incarico di Consigliere nel Consiglio Provinciale, Reginaldo optò per il Sindacato. Come frequentatore della sede della Democrazia Cristiana e collaboratore di quel partito fino al suo scioglimento lo ricordo quale “vecchio saggio” (vecchio perché ero giovane io!): alle riunioni, anche le più animate, ove comunque lui non alzava mai la voce, era un piacere ascoltarlo nel suggerire le soluzioni ai problemi o le proposte da vagliare e discutere magari dopo un confronto in Consiglio Comunale.
Certamente, Reginaldo era conscio che la sua era una generazione tutta particolare, che ha conosciuto una accelerazione a livello tecnologico quale mai era accaduto. Dall’aratura coi buoi ancora praticata nel dopoguerra allo sbarco sulla luna, per tacer dei computer, internet ecc.. La sua è stata una generazione che ha conosciuto la povertà, condizioni di vita oggi difficilmente immaginabili nei nostri territori, che è cresciuta sotto il fascismo e ha sperimentato gli orrori e le devastazioni della guerra.
Voglio concludere con le ultime parole del suo libro “Non dipende da me arrivare a cento anni, ma anche se non ci vedo e non ci sento bene, non mi sono stancato di vivere.” E se si pensa che tra gli ultimi atti del suo peregrinare terreno v’è stata la Confessione e la Comunione, prima di morire dopo pochi minuti, il suo esempio di vita e di Cristiano ci illumini, pensando che il 5 novembre 2024, nel tardo tramonto, un Giusto è salito nel Regno dei Cieli a dar gloria a Dio.

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La Madòna ‘d l’acva e la Madòna de sol: oltre alle preghiere e alle processioni delle “Rogazioni” https://www.castelbolognese.org/miscellanea/la-madona-d-lacva-e-la-madona-de-sol-oltre-alle-preghiere-e-alle-processioni-delle-rogazioni/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/la-madona-d-lacva-e-la-madona-de-sol-oltre-alle-preghiere-e-alle-processioni-delle-rogazioni/#respond Sun, 03 Nov 2024 17:29:31 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12017 di Paolo Grandi Oggi di fronte a questo clima impazzito qualcuno, forse a ragione, dice che la causa possa anche essere quella che non si prega più come una volta. Guardiamo allora in questo breve excursus come si pregava un tempo per ottenere l’intervento celeste sul clima. Le Rogazioni Le …

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di Paolo Grandi

Oggi di fronte a questo clima impazzito qualcuno, forse a ragione, dice che la causa possa anche essere quella che non si prega più come una volta. Guardiamo allora in questo breve excursus come si pregava un tempo per ottenere l’intervento celeste sul clima.

Le Rogazioni

Le Rogazioni sono processioni propiziatorie sulla buona riuscita delle seminagioni, arricchite di preghiere e atti di penitenza. Hanno la finalità di attirare la benedizione divina sull’acqua, il lavoro dell’uomo e i frutti della terra e si tenevano nei tre giorni che precedono la festa dell’Ascensione, cioè lunedì, martedì e mercoledì quando l’Ascensione era sempre il giovedì, quarantesimo giorno dopo la Domenica di Pasqua. L’origine di questo rito risaliva al sec. V in Gallia, nel Delfinato, dove dopo varie calamità naturali e un terremoto, il vescovo Mamerto di Vienne indisse un triduo di preghiera e digiuno insieme a solenni processioni verso le chiese della sua diocesi. La pratica poi si diffuse e venne estesa a tutta la cristianità nei secoli successivi. Da Roma, dove il rito fu introdotto da papa Leone III nell’816, la pratica religiosa si propagò in tutte le parrocchie per chiedere la protezione divina sul lavoro dei campi e sui frutti della terra. La processione partiva dalla chiesa parrocchiale di buon mattino e, al canto delle litanie dei Santi, si percorrevano anche lunghi itinerari. Nei tre giorni veniva raggiunta tutta la superficie della parrocchia, anche se vasta. Significative le soste in punti particolari del percorso per speciali invocazioni accompagnate dalla benedizione con la croce o con l’immagine della Vergine verso i quattro punti cardinali. La preghiera che si recitava, prima del Concilio in latino, poi in italiano così diceva: «Ab omni malo, libera nos Domine», cioè: «Da ogni male, liberaci, o Signore»; «A fulgure, et tempestate, libera nos Domine», cioè: «Dal fulmine e dalla tempesta, liberaci, o Signore»; «A peste, fame, et bello, libera nos Domine», ovvero: «Dalla peste, dalla fame e dalla guerra, liberaci o Signore»; «A flagello terraemotus, libera nos Domine», ossia: «Dal flagello del terremoto, liberaci o Signore»; «A subitanea et improvvisa morte, libera nos Domine», cioè «Dalla morte improvvisa, liberaci, o Signore» . Seguivano poi le seguenti invocazioni. «Ut misericordia et pietas tua nos custodiat, te rogamus audi nos» cioè «Affinché noi siamo custoditi per la tua pietà e misericordia, ti preghiamo, ascoltaci»; «Ut Ecclesiam tuam sanctam redigiri, et conservare digneris, te rogamus audi nos» cioè «Affinché tu ti degni di indirizzare e conservare la tua santa Chiesa, ti preghiamo, ascoltaci»; «Ut Episcopos et Praelatos nostros, et cunctas congregationes illis commissas in tuo sancto servitio conservare digneris, te rogamus audi nos» cioè «Affinché tu ti degni di conservare i Vescovi, i Prelati e tutte le Congregazioni a loro assegnate per il tuo santo servizio, ti preghiamo, ascoltaci»; «Ut cunctum populum christianum pretioso tuo sanguine redemptum conservare digneris, te rogamus audi nos» cioè «Affinché ti degni di conservare l’intero popolo cristiano redento dal tuo prezioso Sangue, ti preghiamo, ascoltaci»; «Ut fructus terrae dare, et conservare digneris, te rogamus audi nos» cioè «Affinché ti degni di darci e conservarci i frutti della terra, ti preghiamo ascoltaci»; «Ut pacem nobis dones, te rogamus audi nos» cioè «Affinché tu ci dia la pace, ti preghiamo, ascoltaci»; «Ut loca nostra et omnes abitantes in eis visitare et consolari digneris, te rogamus audi nos» cioè «Affinché tu ti degni di visitare e consolare tutti gli abitanti dei nostri luoghi, ti preghiamo, ascoltaci»; «Ut civitatem istam, et omnem populum ejus protegere, et conservare digneris, te rogamus audi nos» cioè «Affinché ti degni di conservare e proteggere tutto il popolo di questa città, ti preghiamo, ascoltaci»; «Ut omnibus fidélibus defunctis requiem aeternam dones, te rogamus audi nos» cioè «Affinchè tu doni il ripo eterno a tutti i tuoi fedeli defunti, ti preghiamo, ascoltaci»; « Ut nos exaudi dignéris, te rogamus audi nos» cioè «Affinché tu ti degni di esaudirci, ti preghiamo, ascoltaci». E il rito si chiudeva con la benedizione ai presenti, alla città e alla campagna. Teresa Giacometti Rosato ricorda il passaggio della processione delle Rogazioni lungo il Viale Cairoli e la sosta davanti alla chiesina della Villa Centonara ove veniva impartita la Benedizione nella pubblicazione “Il voto della Pentecoste e la tradizione religiosa castellana “ edita in occasione del 350mo anniversario dalla preservazione della peste nel 1981.
Nella parrocchia di San Petronio le processioni delle Rogazioni furono sospese nella seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso. Infatti, con la soppressione delle feste infrasettimanali la solennità dell’Ascensione, che veniva dieci giorni prima della solennità della Pentecoste, fu portata alla domenica precedente la Pentecoste, cosicché le tre processioni delle Rogazioni si vennero a trovare a poco più di una settimana da quelle votive di Pentecoste, anch’esse nel numero di tre. Durante le processioni delle Rogazioni veniva trasportata per le strade cittadine l’immagine della Madonna della Cintura che si trova nell’altare centrale della navata destra di San Petronio. Con la soppressione delle processioni delle Rogazioni durante le processioni di Pentecoste, negli angoli estremi raggiunti dalla sacra Immagine, si dicono tuttora le preghiere e le invocazioni che un tempo erano recitate per le Rogazioni.
In molte parrocchie di campagna di Castel Bolognese si tengono tuttora le processioni delle Rogazioni, così come in altre Parrocchie della nostra Diocesi e, con la massima solennità nella città di Imola ove viene portata solennemente in Cattedrale l’immagine della B. V. del Piratello.

La Madòna ‘d l’acva

In caso di prolungata siccità veniva scoperta l’immagine della Madonna della Cintura in San Petronio. Parlo di scopertura poiché le Immagini per le quali vi era maggiore devozione venivano tenute normalmente coperte e la loro apparizione era solo per le rispettive festività o per avvenimenti speciali. Per esempio ricordo da bambino che durante la Novena dell’Immacolata, mentre si recitava il Rosario l’immagine era nascosta dietro l’altare ed iniziava a salire solo durante il canto delle Litanie. Ebbene, con l’Immagine scoperta poteva venire indetto un Triduo o una Novena e, in casi gravi di siccità prolungata, la si portava in processione.

La Madòna de Sol

Se invece era in corso un periodo di maltempo con piogge abbondanti e prolungate si provvedeva a scoprire in San Francesco l’immagine della Madonna della Concezione, Patrona cittadina e invocata per il ritorno del meteo favorevole. Anche in questo caso, se la sola scopertura, col concorso delle preghiere dei fedeli non bastava, si ricorreva a Tridui, Novene ed anche a processioni in casi particolarmente gravi.

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Echi dei cantastorie di 80 anni fa https://www.castelbolognese.org/miscellanea/echi-dei-cantastorie-di-80-anni-fa/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/echi-dei-cantastorie-di-80-anni-fa/#respond Fri, 25 Oct 2024 17:18:24 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12008 di Andrea Soglia Un tempo il cantastorie (come scrive il sito del Museo storico della giostra) era tra i protagonisti della vita quotidiana di un paese. Vi era tanta gente che accorreva per ascoltare dalla sua viva voce le notizie del giorno, fatti delittuosi, avvenimenti realmente accaduti, storie fantastiche illustrate …

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di Andrea Soglia

Un tempo il cantastorie (come scrive il sito del Museo storico della giostra) era tra i protagonisti della vita quotidiana di un paese. Vi era tanta gente che accorreva per ascoltare dalla sua viva voce le notizie del giorno, fatti delittuosi, avvenimenti realmente accaduti, storie fantastiche illustrate su grandi tabelloni che rendevano visibili la scienza per un pubblico per lo più analfabeta.
Di certo i cantastorie si aggiravano dalle nostre parti anche nel periodo della Seconda guerra mondiale e, soprattutto, nel periodo immediatamente seguente alla sua fine, quando finalmente era tornata la libertà di parola.
Vi proponiamo quattro brani, a cui abbiamo attribuito un titolo estrapolato dal testo, parodie di brani molto famosi, che sono rimasti nella memoria di due nostri concittadini, Franca Ricchi e Terigio Pandolfi.
Al periodo più buio, del 1944, risale il testo che ci ha cantato Franca Ricchi, sulle note dell’inno fascista All’armi (siam fascisti). A Franca l’ha trasmesso il padre, che l’aveva appreso da un giovane (con fisarmonica) che era ricoverato con lui all’ospedale di Imola. Franca ce l’ha gentilmente cantato e l’abbiamo filmata (amatorialmente) durante la mattina di un mercato del venerdì. Si canta l’inferno della guerra, con la speranza del ritorno del “buonumor”. Chissà, magari il giovane ricoverato ad Imola era un cantastorie rimasto ferito… oppure un musicista di una qualche importanza. Di certo le parole sono di una attualità disarmante.
Ecco il testo:

“Di all’armi siamo stanchi”

All’armi
Di all’armi siamo stanchi
le mine son nei campi
La guerra è diventata cosa seria
non ci ha lasciato altro che miseria
Feriti e morti siamo tanti e tanti
i vivi non san come andare avanti
O Padreterno, questo è l’inferno
distrugge il mondo senza aver pietà
Ma una speranza in fondo al cuor
che il buonumor
ritornerà

Nel 2013 l’indimenticato Terigio Pandolfi ci aveva dettato i testi di tre canzoni che aveva sentito (e memorizzato) da un cantastorie transitato a Castel Bolognese qualche tempo dopo la fine della guerra.
Sulle note di “Lili Marleen” si cantava la fine dei dittatori Hitler e Mussolini.

“Son morti gli assassin”

O Mussolini infame traditor
fosti tu in Italia a spargere il terror
Ma non sei solo, un altro c’è
che è una carogna più di te
Sono due gli assassin
Hitler e Mussolin

O Mussolini tu t’alleasti un dì
con l’infame Hitler che fece noi soffrir
tutta l’Italia la spogliò
persino i treni li diportò
Ma il giorno è giunto già
che la Germania pagherà

Son stati fatti i loro funeral
sopra c’era scritto son morti gli animal
Nessun pianto o ben si sa
e tutto il mondo canta già
son morti gli assassin
Hitler e Mussolin

Sulle note di “In cerca di te (perduto amor)” di Natalino Otto, nota anche come “Solo me ne vo per la città”, si cantava invece la fame che si pativa e il terribile flagello della borsa nera.

“Con la sporta vo per la città”

Con la sporta vo per la città
oggi da mangiare che si fa
perché col mercato nero
io sono a zero
che li possino ammazzar

Io cerco invano di economizzar
però la fame non si può scordar
d’un pollo arrosto non ricordo più il sapor
quattro patate un po’ di pane e un pomodor
sempre così tutti i dì

Con la sporta vo per la città (rit.)

Sulle note di “E’ arrivato l’ambasciatore” del Trio Lescano si cantava invece la fine della dittatura e la speranza di un nuovo inizio, tutti in fratellanza.

“E’ arrivato l’ambasciatore”

E’ arrivato l’ambasciatore con la falce e col martello
è arrivato l’ambasciatore è sparito il manganello
Se uniti saremo tutti contro gli approfittator
su compagni al lavor siamo tutti fratel
ora basta col manganel

Per vent’anni abbiamo patito col regime di schiavitù
se non eri iscritto al partito di parlare non avevi diritto
soffocavano tutte le idee con la forza strozzavan i pensier
ma gli eventi del mese d’aprile hanno fatto gioire tutto il mondo inter

E’ arrivato l’ambasciatore (rit.)

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Ottobre 1944: la guerra inesorabilmente si avvicina https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/ottobre-1944-la-guerra-inesorabilmente-si-avvicina/ https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/ottobre-1944-la-guerra-inesorabilmente-si-avvicina/#comments Thu, 17 Oct 2024 16:07:24 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12003 di Paolo Grandi Nell’ottobre 1944 il fronte stava lentamente avanzando sulla via Emilia, mentre nel nostro Appennino i Tedeschi erano stati cacciati dalle alte valli del Lamone, del Senio e del Santerno e procedevano, anche qui molto lentamente, verso la pianura. Così Firenzuola fu liberata il 19 settembre ma a …

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di Paolo Grandi

Nell’ottobre 1944 il fronte stava lentamente avanzando sulla via Emilia, mentre nel nostro Appennino i Tedeschi erano stati cacciati dalle alte valli del Lamone, del Senio e del Santerno e procedevano, anche qui molto lentamente, verso la pianura. Così Firenzuola fu liberata il 19 settembre ma a causa del bombardamento anglo americano del precedente giorno 12 il centro venne quasi raso al suolo; Palazzuolo su Senio fu liberato il 24 settembre ed il giorno successivo toccò a Marradi. L’obiettivo principale delle forze anglo-americane era in questo momento conquistare Forlì. La città romagnola aveva un duplice significato: era la città del Duce e la sua liberazione era un segnale forte nei confronti dell’oppressore ma anche verso gli italiani: liberando la città di Mussolini, si sarebbe liberata l’Italia tutta. L’altro, forse più importante obiettivo era quello di impadronirsi del suo aeroporto che con la pista in cemento poteva essere usato in qualsiasi stagione; inoltre era il primo aeroporto disponibile nella pianura padana. Tuttavia, gli alleati incontrarono una strenua resistenza dell’esercito germanico che fu cacciato da Forlì solo nei primi giorni di novembre.
Castel Bolognese quindi si trovava nelle retrovie, a poco meno di 30 kilometri dal fronte e doveva ora fare i conti con un nemico germanico sempre più agguerrito e maldisposto nei confronti della popolazione inerme e alle Brigate Nere che andavano rastrellando le campagne in cerca di renitenti alla leva, collaboratori e partigiani.
Durante i primi giorni d’ottobre a Tebano vi furono scene di terrore: persone fucilate sommariamente, case saccheggiate e incendiate, abitanti prelevati e trasportati come delinquenti alla villa di San Prospero, che si trova all’inizio della strada di Castel Raniero, dov’era il comando delle Brigate Nere agli ordini del famigerato faentino Raffaele Raffaeli; qui restarono in attesa di giudizio e di condanna. Tra i prigionieri c’era pure don Antonio Lanzoni parroco di Montecchio sopra la Pideura, in Diocesi di Faenza, ottantenne, accusato di aver dato rifugio in Canonica a partigiani; nelle settimane successive fu portato a Bologna e là venne fucilato. Anche a Biancanigo il 6 ottobre parecchi uomini e donne furono prelevati dalle loro case e internati nel cortile della chiesa con la scusa del controllo dei documenti. Solo verso l’imbrunire, dopo una giornata passata sotto la pioggia e a digiuno, il Raffaeli arrivò per il controllo, tuttavia alcuni, con la complicità di don Tambini, il parroco, riuscirono a fuggire, mentre altri vennero trasportati alla villa San Prospero.
Il 28 settembre, verso le 23 tutta la città fu svegliata da ripetuti e furiosi rimbombi. Da un apparecchio alleato proveniente da ovest e diretto verso est furono sganciate tre bombe: una in Piazzale Poggi, una davanti alla Torre dell’orologio che colpì il Caffè della Torre, una terza presso la casa detta dei “Camerini” di là dagli orti. Il terrore fu indescrivibile. Gli abitanti e gli sfollati fuggirono all’aperto e molti cercarono rifugio nelle trombe dei due campanili di San Petronio e di San Francesco. Si interruppe anche la corrente elettrica. Per fortuna non vi fu alcuna vittima, ma danni gravissimi specialmente ai fabbricati della “Fonda” (ove sorge oggi la Biblioteca Comunale, allora Convento delle Agostiniane), in Piazza Bernardi e in Via Garavini. La chiesa del Pio Suffragio ebbe la porta e tutte le imposte spalancate per la violenza dello scoppio e tutto il porticato della facciata fu tempestato dalle schegge che forarono persino i muri interni e i quadri della chiesa. Una di queste andò a conficcarsi tra lo stipite e la porta maggiore dell’Arcipretale. Tutte le vetrate delle altre chiese e di tanti edifici pubblici e privati si frantumarono.
Il 15 ottobre nel pomeriggio fecero irruzione in centro i militi delle Brigate Nere, bastonando e rastrellando a più non posso, mentre in serata venne saccheggiata barbaramente e quasi con ferocia inaudita dai civili, su istigazione dei tedeschi, la stazione ferroviaria; qui infatti era stato rifugiato del materiale dalla stazione di Bologna: soda, lampadine elettriche, filo metallico e altro. Di tutto si fece tabula rasa. Nei giorni seguenti passarono i guastatori tedeschi e distrussero tutti i pubblici servizi: telegrafi, telefoni ecc. Anche l’edificio della stazione ferroviaria fu fatto saltare con un’esplosione terribile.
Infine, il 21 ottobre le Brigate Nere arrestarono un barbiere del centro assieme al figlio; i due furono portati a Faenza e con loro furono arrestate anche le sorelle Cavallazzi, proprietarie di una tipografia, accusate di propaganda sovversiva forse solo perché figlie dell’anarchico Raffaele. Ma anche sul barbiere i fascisti fecero un errore: invece di prelevare Luigi Baldrati, Lissorum, noto comunista, che aveva la bottega sulla via Emilia sotto i portici a monte, portarono via dalla sua bottega nei portici a valle il barbiere Ernesto Rani assieme al figlio adolescente. Mentre le due donne ed il giovane furono rilasciati quasi subito, Ernesto Rani fu a lungo interrogato, bastonato e torturato, ma essendo la persona sbagliata non rilasciò alcuna dichiarazione. Fu liberato una settimana dopo.
Maria Landi ricorda che a settembre non riaprirono le scuole. I contadini provvidero comunque a vendemmiare e a seminare con grave rischio e pericolo. Durante il mese di ottobre piovve oltre ogni norma ed il Senio tracimò nei pressi del Ponte del Castello allagando campi ed alcune case di quella frazione. Purtroppo molti abitanti del luogo, che avevano scavato buche per seppellire le loro cose più care, magari anche di parenti lontani e di amici, le persero perché quelle buche si riempirono di mota che rovinò ogni cosa, subendo così la beffa di non aver perso i propri beni per la guerra ma per un’alluvione.

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Quatar ciacar s’e’ Pont ‘d Zola https://www.castelbolognese.org/miscellanea/quatar-ciacar-se-pont-d-zola/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/quatar-ciacar-se-pont-d-zola/#comments Sat, 21 Sep 2024 22:23:37 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11984 di Andrea Soglia Era un salotto molto particolare, esauritosi alla fine degli anni ’80, quello de e Pont d’Zola. Io l’ho visto con i miei occhi e non l’ho mai dimenticato, e quando uno dei figli di Pippo ed Pilastar (morto recentemente) me l’ha rammentato, mi è venuta una botta …

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di Andrea Soglia

Era un salotto molto particolare, esauritosi alla fine degli anni ’80, quello de e Pont d’Zola. Io l’ho visto con i miei occhi e non l’ho mai dimenticato, e quando uno dei figli di Pippo ed Pilastar (morto recentemente) me l’ha rammentato, mi è venuta una botta di nostalgia, soprattutto perché tanti dei “salottieri” non ci sono più.
All’incrocio della via Casanola con la via Rezza c’è tuttora un ponticello che consente di attraversare il grande fossato che costeggia la via Casanola per alcuni chilometri. Un fossato soggetto a piene violente in caso di forti piogge, ma che generalmente vedeva o, meglio, sentiva un fiume di chiacchiere, rigorosamente in dialetto, che si alzavano soprattutto nelle sere d’estate: le chiacchiere che si facevano sul Ponte di Zola, che prendeva il nome dalla grande casa colonica che sorge al suo fianco, affacciata sul grande fosso. Per tanti anni il Ponte aveva goduto dell’ombra di un’enorme e bellissima betulla, e quindi anche di giorno poteva capitare di sostare lì a chiacchierare.
Le due spallette in cemento del Ponte erano utilizzate come panchine su cui sedevano le persone che vivevano nei dintorni. E non erano poche.
Naturalmente i primi ad animare il Ponte erano i componenti della famiglia Cani, i Zola, e soprattutto i loro “vecchi”. Ho ancora nelle orecchie la risata particolare di Fina d’Zola (Giuseppe), personaggio molto simpatico e infaticabile agricoltore. Altrettanto simpatico era Tolmito (in italiano Tolmeito), fratello di Fina, del quale però non ho troppi ricordi perché morto all’inizio degli anni ’80: mio padre diceva sempre, però, che aveva la capacità di muovere le orecchie, alla stregua di quello che faceva Stanlio in una delle tante comiche girate assieme ad Ollio, e le risate a crepapelle le strappava anche Tolmito. Per anni mi sono chiesto da dove derivasse quel nome particolare, finché non ho scoperto che in Libia esiste la città di Tolmeita e sono arrivato alla conclusione che c’entrasse la guerra di Libia, che era in corso quando nacque Tolmeito e forse suo padre o un altro familiare l’avevano combattuta. Ricordo con tanto affetto sua moglie Delinda, sempre gentile con i bimbi del vicinato, morta molto anziana e che ho rivisto tante volte in giro per Castello. Un terzo fratello, Pavlì, era già praticamente cieco all’epoca in cui frequentavo il ponte, e spesso rimaneva in casa. I figli di Pavlì e Tolmito partecipavano al salotto, soprattutto Pierino.
E poi c’erano gli abitanti della borgata di 6 case che costeggia la via Casanola, sulla sinistra, subito dopo l’incrocio con la via Rezza. La borgata veniva detta “la Piccola Russia”, come mi ha raccontato Andrea Sagrini che tuttora abita lì. E quindi sul Ponte si riversavano anche loro, a cominciare dai Gadò, che lasciando accesa la luce esterna della loro casa davano anche un po’ di illuminazione al salotto. Gigì, sua madre Maria, suo zio Carlo (che chiamavano Badoglio, ma il motivo non l’ho mai saputo e lui non gradiva nemmeno molto il soprannome) e i giovanissimi della famiglia venivano sul Ponte. Poi uno dei più assidui era Lucio Sagrini, nonno di Andrea, altra persona che ricordo con affetto per la sua enorme simpatia. Quando veniva a trovarci nella casa dei miei nonni, gli leggevo le barzellette di Gino Bramieri da un vecchio libro e lui, che era quasi cieco, rideva con un gusto che non ho mai più sentito. Leggendaria la sua gag che raccontava spesso, ossia quella di voler fare i “cosp” (gli zoccoli) con mezzi gusci di noce per le zampine della sua gatta Pirisghì (l’altra si chiamava Fufa), in modo tale che si potesse difendere dai rigori dell’inverno. Suo figlio Rino, che per fortuna c’è ancora, ha ereditato da lui il gusto per la battuta e naturalmente partecipava anche lui al ponte, assieme agli altri “piccoli russi”, fra cui “Gigiaza” e Liliana, a cui mia mamma ha continuato a fare visita per tantissimi anni.
E poi c’eravamo anche noi, quando d’estate si faceva tardi in campagna nella casa dei nonni, che tuttora, seppur malmessa, si trova in fondo alla stradina che si prende a sinistra dell’incrocio del ponte.
Non mancavano al salotto i Carampà, che abitavano più in là in via Rezza nella casa detta “del Patater” ma si erano portati dietro il soprannome del podere dove vivevano in precedenza e che ora hanno costruito la nuova casa a due passi dal ponte. E naturalmente si spingevano fino al Ponte gli abitanti dal “Quatar cà”, quelle dell’incrocio più verso Castel Bolognese fra le vie Casanola, Gradasso e Farosi: i Pilastar, i Gambarò, i Gatera.
E poi si aggregavano saltuariamente coloro che transitavano da via Casanola a cui, immancabilmente, si dava “la baia”, visto che ci si conosceva tutti. E fra i tanti che si fermarono almeno una volta al Ponte, pare che ci sia stato anche il grande politico Benigno Zaccagnini.
I Zola si trasferirono poi a Castel Bolognese e il ponte, man mano, si spopolò e perse anche la sua ombra, quando la betulla fu abbattuta non senza rammarico di diverse persone…
Altri tempi, quelli in cui bastavano due spallette di cemento per aggregare allegramente tante persone… Impossibile, per chi li ha vissuti, non averne nostalgia…
“Bôna!”, come diceva Fina quando a sera tarda si alzava dal Ponte e andava a dormire.

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Cinquant’anni di trenini https://www.castelbolognese.org/miscellanea/cinquantanni-di-trenini/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/cinquantanni-di-trenini/#comments Wed, 11 Sep 2024 17:11:33 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11950 di Paolo Grandi Il prologo Estate 1974; siamo in tre amici sedicenni comodi sul dondolo a programmare che cosa si possa fare in queste vacanze scolastiche appena iniziate. Uno di noi, Fabio Camerini, possiede una cantina attrezzatissima e fresca per mitigare la canicola e lì ha inchiodato sopra un asse …

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di Paolo Grandi

Il prologo

Estate 1974; siamo in tre amici sedicenni comodi sul dondolo a programmare che cosa si possa fare in queste vacanze scolastiche appena iniziate. Uno di noi, Fabio Camerini, possiede una cantina attrezzatissima e fresca per mitigare la canicola e lì ha inchiodato sopra un asse i binari della sua ferrovia in scala H0; io ho una modesta collezione di treni H0 Rivarossi provenienti da un regalo della Befana di nove anni prima che si sono aggiunti alle scatole di mio fratello mettendo assieme le quali si può fare un grande ovale con stazione; Filippo Bosi ha una discreta mano nel dipingere. Poi ci passano per le mani un catalogo Faller, costruttore di edifici e stazioni in scala per i plastici, e un residuo di polistirolo comprendente un pezzo cilindrico; quel polistirolo così in un pomeriggio si trasforma nelle rovine del castello presentate dal catalogo Faller. Ma la domanda ora è: cosa ce ne facciamo? Io da tempo avevo pensato di costruirmi un plastico ferroviario e ne avevo già scelto uno, modesto nelle dimensioni, dal “Manuale dei circuiti e dei tracciati” di Rivarossi. Ed ecco cosa fare quest’estate: costruiremo quel plastico nella mia stanza da studio avvalendoci delle competenze che ognuno di noi tre ha e con la minor spesa possibile.

Il primo plastico

Acquistato il piano di legno truciolato della misura richiesta dai “fratelli Villa” che ancora tenevano l’attività al Serraglio di Castel Bolognese, e appoggiatolo al mio tavolo da studio, con gli avanzi in polistirolo delle confezioni realizzammo case e paesaggio (alberi e monti compresi…), con i refill vuoti delle penne biro, una lampadina dell’albero di Natale (i famosi “pisellini”) ed un cono di cartoncino vennero autocostruiti i lampioni e presso un negozio della vicina Faenza, il rimpianto Re Artù che noi tre raggiungemmo in bicicletta, comprai la stazione in rigoroso stile germanico: Zeven. Dal babbo di Fabio Camerini, Giovanni, che allora lavorava in Comune, ottenemmo dei manifesti scaduti che riutilizzammo, incollandoli assieme, per dipingervi con i colori a tempera lo sfondo montuoso che poi fu riutilizzato anche nei plastici successivi, adattandolo alle pareti. Mancava qualche spezzone di binario? La cara Cleofe nel suo negozio/emporio aveva anche quelli Rivarossi e lì mi recavo a comprarne. Il nuovo plastico era l’attrazione di tutto il vicinato e noi tre passavamo interi pomeriggi ad affinarlo, abbellirlo e a far girare i modelli disponibili. Ma alla fine dell’estate però la stanza mi serviva per studiare e… quindi? Ecco venirmi in aiuto la zia Virginia, prima finanziatrice del nuovo arrivo sui binari: la gr 740-233 acquistata a Bologna presso il negozio “Fratelli Pesaro”, che allora si trovava in via Manzoni nell’ex Seminario e dove compravi i trenini sotto le volte affrescate da Guido Reni; la zia si offrì di ospitare il plastico in una stanzetta che, salvo un armadio, era vuota. Il plastico venne portato là e appoggiato a terra, ma subito mi resi conto che occorreva sollevarlo per giocarci meglio ed intervenire nell’impianto elettrico in caso di guasti. Chiesi perciò al falegname Celso Poletti di fabbricarmi tre cavalletti, tuttora in uso, per appoggiarvi il plastico e nel frattempo lo ingrandii con uno scalo merci ed una linea secondaria che portava in un’altra località. La zia, insegnante di italiano, latino, storia e geografia mi impartiva almeno una volta la settimana una lezione di latino e questa terminava, ovviamente, davanti al plastico; anche la domenica mattina, dalle 9 fino alle 11 era tempo dedicato a far muovere i treni, poi seguiva la Messa alle 11.15 in San Petronio, chiesa che era a fianco della casa della zia. La prima “flotta” di materiale rotabile comprendeva una locomotiva gr 835-296 Rivarossi, il locomotore elettrico E424-241 Lima e un locomotore diesel SNCF BB67000 sempre Lima. Le carrozze passeggeri: 2 centoporte a due assi Rivarossi, con relativo bagagliaio a due assi, 2 “Corbellini” Lima. Carri merce: 2 pianali Rivarossi di cui uno con carico di legna, un carro a sponde alte, altri due carri chiusi, il tutto Rivarossi.

Il secondo plastico

Autunno 1977: cominciai l’Università scoprendo gli allora tanti negozi di Bologna che vendevano modellismo ferroviario e per tutto il quadriennio di Giurisprudenza iniziai un acquisto compulsivo che mi portò prima ad ampliare il plastico, a sostituire gli edifici con scatole di montaggio Faller o Vollmer, dando così all’abitato quello stile d’oltralpe che, volendolo ambientare in Italia, mi convinse poi ad intitolare la stazione “Fortezza”. Poi rifeci il plastico completamente, con un nuovo tracciato, sempre preso dal manuale Rivarossi, mentre non si fermava l’acquisizione di modelli per arricchire il “deposito” di casa che era anche materialmente cresciuto con la piattaforma girevole e quattro rimesse Rivarossi. Tra gli edifici, era posta davanti alla stazione una fontana con monumento che funzionava con l’acqua vera; ma, tuttavia, fu foriera molto spesso di allagamenti!
Nel secondo plastico spiccava una stazione con tre binari e possibilità di precedenze ed incroci; comprai una nuova stazione: Altenstein, ed il primo edificio, Zeven, divenne il capolinea della linea secondaria. Per realizzare i rilevati, dopo l’esperimento del polistirolo e poi del gesso, questa volta utilizzai colla e carta da giornale con buon esito. In un primo tempo montai anche una funivia, funzionante, i cui meccanismi furono ricavati dalla mia scatola del “meccano” e le cabine vennero realizzate in polistirolo. Essendo il tracciato tutto formato con materiale Rivarossi, posai i binari sulla massicciata in gommapiuma della stessa Rivarossi ma, tuttavia, dopo alcuni anni, ebbi la sgradita sorpresa di vederla sgretolarsi e così deformare il tracciato.
Ma ciò non bastava; la passione si allargò alla storia ferroviaria ed alle riviste di modellismo; acquistai libri e mi abbonai all’indimenticabile “Italmodel Ferrovie” e quando quella rivista cessò la pubblicazione, di buon grado acquistai il numero 1 di “I Treni – oggi”, e da allora ne sono abbonato. Nei primi anni ’80 feci una modifica importante: scoperti gli scambi in curva riuscii ad allungare il primo binario della stazione; trovai banchine e pensiline compatibili col ridotto spazio lasciato nell’interbinario e, finalmente, acquistai la riproduzione Faller della stazione di Bonn, che ben si adattava ad un plastico in stile italiano e la ribattezzai “Fortezza”; questa è da allora la protagonista dei miei impianti.
Terminata anche l’Università cominciai la pratica forense in uno Studio Legale di Faenza che, ahimè (…o per fortuna!), era distante pochi metri dal negozio di Re Artù che visitavo così quasi quotidianamente; e nella stanza della zia i treni stavano sempre più stretti… Quindi venni assunto al Ministero della Giustizia, cominciai a lavorare nelle piccole Preture della campagna bolognese, poi nel Capoluogo; non mi sembrava vero di ricevere mensilmente uno stipendio parte del quale avrebbe potuto finanziare la ferrovia di casa: fino ad allora, infatti, gli acquisti avvenivano dopo aver opportunamente risparmiato sulla magra paghetta, dagli introiti di un lavoretto che mi occupava non più di un’oretta al giorno e dalla bontà infinita di mia zia Virginia.

Il plastico “matrimoniale”

Nel 1991, nella nuova casa di Viale Cairoli 11/A che sarebbe diventata la casa coniugale dopo il matrimonio del giugno 1992, presi possesso di una stanza di sufficiente ampiezza, era stato lo studio medico di mio fratello, ed iniziai un nuovo plastico, liberando definitivamente la zia Virginia. Questo fu studiato da me per sfruttare l’intera stanza oblunga ed abbandonando il sistema Rivarossi orientandomi verso l’armamento Peco che dopo questa esperienza ho sempre adottato. Al centro del plastico una grande stazione di diramazione con cinque binari per i passeggeri e tre per il fascio merci, attraversata da una linea a doppio binario che poi si dipanava in un grande ovale lungo la stanza e dalla stazione partivano due linee a semplice binario che si concludevano, la prima in una stazione secondaria, la seconda all’interno di una galleria; alla stazione era collegato il deposito delle locomotive con piattaforma girevole e quattro depositi. Ed il plastico fu terminato in occasione di un secondo trasloco.

Nella casa di via Bargero 80

Anche nella nuova casa acquistata nel 1996 c’era una stanza, seppure più piccola e quadrata, da dedicare al modellismo ferroviario e lì nacque un nuovo plastico adattando nelle misure quello precedente. Recuperai la stazione, il deposito delle locomotive e lo impostai come il precedente. La diversa dimensione della stanza, tuttavia, mi obbligò a modellare un percorso a spirale per conservare modeste le pendenze. Questo plastico è immortalato nel “corto” realizzato dall’amico Francesco Minarini dal titolo: “Grandi…piccoli”.

E oggi in Viale della Repubblica

Ma i traslochi non erano finiti: infatti dal 2006 la nuova casa ha una ampia mansarda con due enormi stanze, la prima delle quali è dedicata a studio e la seconda al nuovo, quinto plastico, talmente enorme che dopo tanti anni non è ancora completato anche perché da un lato ci sono tanti impegni da assolvere, dall’altro la voglia di fare tutto con precisione quasi maniacale. Anche quest’ultimo plastico conserva la stazione così come impostata nel 1991 con cinque binari per i passeggeri e tre per il fascio merci, anche qui attraversata da una linea a doppio binario che poi si dipana in un grande ovale lungo la stanza e dalla stazione partono due linee a semplice binario che si concludono, la prima in una stazione secondaria, la seconda all’interno di una galleria; alla stazione è collegato il deposito delle locomotive con piattaforma girevole e quattro depositi. Dall’altro lato della stazione v’è il deposito diesel con le macchine in sosta. Novità di questo plastico sono due stazioni nascoste con cinque binari che permettono così di far circolare più treni impostando un orario, oppure, manovrando opportunamente gli scambi non visibili, di trasformarlo in un ovale. Una sola cosa non muta in tutti plastici finora realizzati: la prima torre di polistirolo che svetta tuttora sopra uno dei rilievi di cartapesta.
Di pari passo la collezione dei modelli è cresciuta fino ad oggi raggiungendo, per ora, i 1.328 modelli. Il materiale motore: locomotori elettrici, locomotive a vapore, locomotori diesel, automotrici ed elettromotrici sono, salvo qualche unità, tutti appartenenti alle ferrovie italiane, con predilezione per gli anni del secolo scorso. Vetture passeggeri e carri merci invece appartengono alle più disparate compagnie ferroviarie europee, con maggior attenzione ai veicoli italiani.
In particolare, il deposito conta 91 locomotive a vapore, 100 locomotori elettrici, 33 locomotori termici, 27 locomotive da manovra, 181 automotrici termiche, elettriche e rimorchi, 592 vetture passeggeri e 304 carri merce.
Quando qualcuno, sentendo ciò, mi dice che sono malato di treni rispondo che effettivamente sono un malato cronico ed ormai incurabile, destinato a conviverci, spero ancora per lungo tempo, con il vantaggio che poi questa malattia non provoca dolore, anzi ti rende felice e ti riserva tante soddisfazioni.

Galleria fotografica

1974 (fotografie di Giovanni e/o Fabio Camerini)

1975 (fotografie di Giovanni e/o Fabio Camerini)

1978 (fotografie di Giovanni e/o Fabio Camerini)

1985 (fotografie di Giovanni e/o Fabio Camerini)

1993 (fotografie di Paolo Grandi)

1994 (fotografie di Paolo Grandi)

2005 (fotografie di Paolo Grandi)

2021 (fotografie di Paolo Grandi)

2022 (fotografie di Paolo Grandi)

2024 (fotografie di Paolo Grandi)

 

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I sessant’anni della Chiesa dell’Autostrada, tappa dell’itinerario Bianciniano https://www.castelbolognese.org/miscellanea/arte-e-musica/i-sessantanni-della-chiesa-dellautostrada-tappa-dellitinerario-bianciniano/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/arte-e-musica/i-sessantanni-della-chiesa-dellautostrada-tappa-dellitinerario-bianciniano/#respond Sat, 10 Aug 2024 15:38:17 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11868 di Paolo Grandi Durante le fasi costruttive dell’Autostrada del Sole, che si compirono il 4 ottobre 1964 con l’inaugurazione dell’ultimo tratto e dopo solo sei anni dall’inizio dei lavori, la Società Autostrade pensò di edificare una chiesa per ricordare i numerosi caduti sul lavoro durante la costruzione dell’imponente opera. Il …

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di Paolo Grandi

Durante le fasi costruttive dell’Autostrada del Sole, che si compirono il 4 ottobre 1964 con l’inaugurazione dell’ultimo tratto e dopo solo sei anni dall’inizio dei lavori, la Società Autostrade pensò di edificare una chiesa per ricordare i numerosi caduti sul lavoro durante la costruzione dell’imponente opera. Il posto venne scelto simbolicamente perchè è situato alla metà esatta del percorso tra Milano e Roma ed all’incrocio con la già presente autostrada Firenze – mare. Nel settembre 1960 l’incarico per la realizzazione dell’edificio fu affidato a Giovanni Michelucci, architetto che già si era espresso a Firenze realizzando la bellissima e modernissima stazione di Santa Maria Novella.
Il progettista la ideò come una tenda, una sosta, un luogo di silenzio e di preghiera. Allorquando infatti il famoso architetto accettò l’incarico, scrisse e propose: «il concetto strutturale al quale mi sono ispirato è semplice, mi sembra e l’ho chiarito nel primo schizzo che ho fatto: una tenda portata da quattro bastoni». E tale infatti è, fatte le dovute proporzioni, la Chiesa, grandiosa e capace di contenere anche 800 persone. È la tenda dei nomadi del popolo eletto, dei popoli antichi, e dei popoli anche dell’epoca moderna che non hanno una terra stabile; è in fondo la tenda di ogni uomo che è pellegrino verso il Cielo.
La chiesa, dedicata a San Giovanni Battista fu consacrata dall’allora Arcivescovo di Firenze cardinale Ermenegildo Florit il 5 aprile 1964; da allora in poi migliaia di pellegrini, gruppi parrocchiali, viaggiatori, turisti, ingegneri, architetti sono entrati nella “tenda”: chi per pregare e cercare il silenzio e chi per ammirare l’opera architettonica di Michelucci. Spicca tra tutti, il nome di Karol Wojtyla, futuro Giovanni Paolo II, il quale il 14 novembre 1965, allora vescovo ausiliare di Cracovia, si recava a Roma per il Concilio Vaticano II, e qui si fermò, scrivendo nel registro questa dedica-augurio: «Deus adiuvet in ministerio» (Dio aiuti nel vostro servizio).
L’interno è preceduto da un ampio nartece, avente da una parte la funzione di introibo alla chiesa e dall’altra quella di una galleria atta ad ospitare i grandi bassorilievi raffiguranti tutte le città collegate dalla nuova autostrada. La planimetria è molto articolata e richiama l’architettura paleocristiana; la forma della pianta è stata di volta in volta collegata al tema della nave, cioè l’Arca della Salvezza, della montagna, riferendosi al sacrificio del Calvario e dell’albero: l’albero della vita.
Nello spazio centrale si affaccia un soppalco che richiama al matroneo delle chiese romaniche, in pratica una seconda chiesa con altare che il Michelucci immagina come l’altare degli sposi. Qui è pure posto l’organo con 1.600 canne. Infine, un percorso a spirale conduce al battistero, con al centro il fonte battesimale (monolite in granito con coperchio in bronzo di Enrico Manfrini raffigurante l’Arca di Noè, la Crocifissione e la Resurrezione) e su di un lato una statua in bronzo di San Giovanni Battista, e quindi a un’uscita sul fronte Est.
Numerose opere d’arte ornano l’edificio sacro: vi sono le sculture di Emilio Greco, il Crocifisso di Iorio Vivarelli , il portone di bronzo di Pericle Fazzini che nell’insieme costituiscono uno degli esempi di architettura sacra moderna più solidi e affascinanti. Ma anche ad Angelo Biancini fu chiesta un’opera: si tratta di un altorilievo in pietra arenaria raffigurante le Nozze di Cana che adorna, appunto, il cosiddetto Altare degli Sposi.
Esaminando la scultura, pare che Biancini abbia fissato la scena raccontata nel Vangelo di Giovanni nel momento in cui Maria dice al figlio: «Non hanno più vino» e Gesù le risponde: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora»; madre e figlio infatti stanno in primo piano, quasi dandosi la mano, con la Madonna leggermente china davanti al Figlio. Dietro di loro si avvicina un servitore al quale tosto Maria dirà: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».ed alcune giare piene d’acqua gli sono vicine. In secondo piano, ignari di tutto ciò che sta accadendo, stanno a tavola gli invitati di nozze.

Bibliografia di massima:
-https://www.artesvelata.it/chiesa-autostrada-michelucci/
-https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/l-anniversario-della-chiesa-sulla-a1-luogo-di-passaggio/
-https://www.comune.campi-bisenzio.fi.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/3347/

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Ricordo di Don Sante Orsani, parroco della Costa e Priore di Valsenio https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/sacerdoti-religiosi/ricordo-di-don-sante-orsani-parroco-della-costa-e-priore-di-valsenio/ https://www.castelbolognese.org/biografie-personaggi/sacerdoti-religiosi/ricordo-di-don-sante-orsani-parroco-della-costa-e-priore-di-valsenio/#respond Sat, 03 Aug 2024 10:39:57 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11820 di Paolo Grandi Da oltre cinquant’anni don Sante e la parrocchia della Costa erano una cosa sola: lui ne era guida spirituale, tuttofare e motore di tante iniziative ove sapeva coinvolgere anche molti parrocchiani. Era arrivato lassù nel 1962 come cappellano, poi subentrò come Arciprete e da quella chiesa, che …

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di Paolo Grandi

Da oltre cinquant’anni don Sante e la parrocchia della Costa erano una cosa sola: lui ne era guida spirituale, tuttofare e motore di tante iniziative ove sapeva coinvolgere anche molti parrocchiani. Era arrivato lassù nel 1962 come cappellano, poi subentrò come Arciprete e da quella chiesa, che domina la strada Casolana non s’è più mosso. Nato da una famiglia contadina a Riolo Terme nel 1933, avrebbe compiuto 91 anni il prossimo 24 settembre; frequentò il Seminario di Imola dove suo Prefetto fu don Serafino Donattini, zio di mia moglie purtroppo tragicamente scomparso nel 1956, e venne ordinato Sacerdote dal vescovo Carrara nel 1959.
Alla morte dell’ultimo parroco residente di Valsenio aveva di buon grado accettato l’incarico di amministratore parrocchiale ed in questa veste promosse, curò ed inaugurò i restauri di quella bella Abbazia durati alcuni anni e che ci hanno restituito quell’edificio in tutto il suo splendore arricchendone la storia grazie ai preziosi ritrovamenti scoperti durante i lavori.
Ma anche la piccola e bella chiesa della Costa di Borgo Rivola era stata a suo tempo oggetto di profondi restauri che don Sante aveva promosso: entrando in chiesa si notavano subito l’ordine, la cura degli altari, la pulizia e magari si veniva accolti dal bel suono dell’organo, pure questo da lui restaurato, molte volte suonato da don Sante stesso! Che poi il titolo di “don” non sarebbe stato neppure da usare nei suoi confronti al quale sarebbe occorso dare il titolo di “Reverendo Monsignore”: infatti per disposizione papale risalente ai secoli passati l’Arciprete della Costa gode del titolo e delle onoreficenze di “Protonotario Apostolico” soprannumerario, una carica di cui si sente poco parlare al di fuori di Roma in quanto sono solo 14 i soprannumerari extra Urbem. E proprio con la veste canonica di Protonotario lo abbiamo visto il 24 settembre scorso in occasione della grande festa data dai Parrocchiani per i suoi “primi” novant’anni!
Dotato di sottile ironia, protagonista di scherzi già all’epoca del Seminario, don Sante scherzava spesso sulla sua età e in chiesa ti portava verso una piccola edicola, dove si trova una targa con l’elenco di tutti i parroci di Borgo Rivola. L’ultima riga riporta il nome don Sante Orsani e la data del 1968; e qui diceva sorridendo: «voglio farci incidere un simbolo dell’infinito». E se sempre lui sarà in infinito il Parroco della Costa nel ricordo dei tanti Parrocchiani e fedeli da Lui incontrati, qualcuno accanto a quella data scriverà 29 luglio 2024.
Un legame particolare vincolava don Sante a Castel Bolognese: qui infatti vivono un fratello, agricoltore a Casalecchio ed una sorella, vedova di Gian Andrea Dal Pane, oltre a tanti nipoti e pronipoti. Spesso quindi lo incontravi in piazza o sotto i portici oppure davanti all’Altare ove era venuto per celebrare una qualche Messa. Ma di tanti era anche guida spirituale, fra costoro si ricorda Novella Scardovi, testimone di accoglienza e carità.
Il suo carattere, ove scaturiva una nota di leggerezza che è sempre servita per incoraggiare le persone al suo fianco e che spesso si confondeva con l’amenità, si scuriva con severità se il protagonista del dialogo era il Demonio. Don Sante infatti aveva praticato esorcismi e, si dice da parte di testimoni, avesse addirittura in un cassetto la fotografia del Diavolo.
Amante delle arti ed in particolare della musica, era un discreto suonatore di organo ed a volte ha accompagnato la corale di San Petronio in alcune solennità, specie per Pentecoste. Proprio per questo motivo aveva trasformato l’abbazia di Valsenio in un caposaldo degli appuntamenti musicali in vallata. Un’altra occasione che mi piace ricordare sono le serate del concorso canoro “Ri…cantare a Riolo” organizzato per tanti anni dall’infaticabile Giuliana Montalti e del quale noi due componevamo parte della Giuria, lui quale Presidente. Ma accanto a questi non mancavano altre iniziative culturali, di preghiera e di aggregazione che hanno contribuito a tenere viva e unita le sue comunità e i suoi parrocchiani.
Ma don Sante amava pure la natura e le montagne e fu tra I primi a portare lo Scoutismo di ispirazione Cristiana nella nostra Vallata.
Al suo funerale, celebrato il 1 agosto dal vescovo di Imola con l’assistenza di tanti Sacerdoti e al Rosario recitato la sera precedente hanno partecipato tantissime persone che non si è riuscito a contenere in Chiesa. Anche il canto, il “bel canto” che lui gradiva, ha accompagnato le funzioni dando loro la dovuta solennità.
Nel ricordino consegnato si legge: “Il Signore lo accolga fra le sue braccia! Il suo esempio e il suo ricordo rimangano impressi nel nostro cuore! Grazie don Sante!

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Il grande caldo del luglio 1905 e la strage dei mietitori. Anche a Castel Bolognese si registrarono alcune vittime per insolazione https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/il-grande-caldo-del-luglio-1905-e-la-strage-dei-mietitori-anche-a-castel-bolognese-si-registrarono-alcune-vittime-per-insolazione/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/il-grande-caldo-del-luglio-1905-e-la-strage-dei-mietitori-anche-a-castel-bolognese-si-registrarono-alcune-vittime-per-insolazione/#respond Tue, 23 Jul 2024 20:29:52 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11802 di Andrea Soglia Il 4 luglio 1905 si registrò un record di temperatura a Roma, a tutt’oggi, a quanto pare, imbattuto: quel giorno furono registrati 40,1° C. La Romagna non fu da meno. A Cesena il picco si registrò il giorno 3 luglio, con 36,5 gradi, vari gradi in più …

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di Andrea Soglia

Il 4 luglio 1905 si registrò un record di temperatura a Roma, a tutt’oggi, a quanto pare, imbattuto: quel giorno furono registrati 40,1° C. La Romagna non fu da meno. A Cesena il picco si registrò il giorno 3 luglio, con 36,5 gradi, vari gradi in più rispetto alla media dei 5 anni precedenti. Il Savio, periodico cesenate, così descriveva il fenomeno nel numero dell’8 luglio: “Il caldo eccezionale provato da noi nei primi giorni di luglio è dovuto, oltre alle massime temperature, alla gran quantità di umidità dell’aria, resa anche palese dalle fitte nebbie mattutine, e alle alte temperature notturne”.
L’ondata di caldo riguardò quasi tutta l’Italia ed ebbe un tragico effetto: una strage di mietitori, morti per insolazione. In tutta Italia si calcola che ci furono, nella classe degli agricoltori maschi di oltre 15 anni, 665 morti per insolazione sul luogo dove lavoravano o anche lungo il tragitto che avevano percorso per recarvisi.
Anche il comprensorio faentino registrò la morte di moltissimi mietitori. Il “Socialista” del 13 luglio elenca ben 13 lavoratori morti per insolazione a Faenza, fra cui una ragazza di 21 anni, Nilda Gallegati, e diversi mietitori che erano scesi dalle colline romagnole e bolognesi (dove il grano maturava più tardi) per mietere il grano della pianura. Anche a Castel Bolognese si registrarono diversi decessi. Sfogliando il registro dei defunti del 1905, nella prima quindicina di luglio si possono notare 6 casi sospetti, che fanno pensare ad un collegamento con i casi di insolazione:

3 luglio 1905 Selvatici Paola di Domenico anni 22, colona, morta in via Borello
3 luglio 1905 Cortecchia Giovanni fu Luigi anni 53, bracciante, morto in via Canale (proveniente da Casola Valsenio)
4 luglio 1905 Santandrea Antonio fu Andrea anni 52, operaio, morto in via Bertuzzo
9 luglio 1905 Cani Paolo di Pietro, anni 47, colono, morto in via Fantina
10 luglio 1905 Andalò Pietro fu Francesco anni 31, colono, morto in via Rinfosco
15 luglio 1905 Morini Antonio di Giovanni anni 27, colono, morto in via Serra

Di certo a tutto il 7 luglio i casi di morte per insolazione erano almeno due, come è possibile leggere su Avanti! del 10 luglio, che pubblicava una corrispondenza da Castel Bolognese:

IL FLAGELLO DELLA CANICOLA
Castel Bolognese, 7 (B) — Anche qui la canicola ha fatto le sue vittime. Dei molti mietitori colpiti d’insolazione due sono morti. Il Sindaco dietro parere della locale autorità sanitaria ha pubblicato un manifesto raccomandando agli interessati la sospensione del lavoro nelle ore più calde, dalle 11 alla 17. La Sezione socialista ha diramato tra i mietitori un vivo appello perchè essi vogliano una buona volta imporre più umane condizioni di lavoro a chi esosamente sfrutta la loro incoscienza e i loro bisogni.

I bisogni e le condizioni di vita dei mietitori, lavoratori stagionali, sono ben descritti in un articolo de Il Socialista del 29 giugno 1905 che vi proponiamo anche se non siamo riusciti a trascrivere alcune parole. C’è da immaginare che anche a Castel Bolognese, nella nostra piazza, si vedessero scene simili, di mietitori che si vendevano ai contadini reggitori e dormivano sotto al loggiato dell’allora municipio o di palazzo Mengoni.

I mietitori

Il grano nei campi va maturandosi. E molti lavoratori in maggior numero braccianti, scendono dai nostri monti, da quelli del bolognese alla nostra città per la mietitura.
Se ne scendono a squadre, a gruppi, sono giovani imberbi, adulti, vecchi male in gamba, ma scendono, vestiti di fustagno coi cappelli di paglia e grosse scarpe che risuonano […] sul marciapiedi.
Vanno e vengono per la piazza col [loro] andare lasso ed incerto, timorosi alzano gli occhi, ingenui ancora, sui passanti che li osservano; la falce lunata, coperta di un […] treccia di paglia o di una striscia di [panno] perchè non si addenti, sotto all’ascella sinistra in modo che non si vede che il manico di legno, e la lama aderisce trasversalmente all’addome, che fa pena.
Visi neri dal sole e dalla pioggia […] spinti dalla bufera della disoccupazione scendono alle città, dormano un po’ dappertutto sui cascinali, nelle vie della città; […] nella scalinata del duomo ricoprendola tanto che pare un favo d’api, sotto il loggiato allineati, che danno l’imagine di corpi [pescati] o gettati alla deriva dalla marea dopo la tempesta, si che i nottambuli devono scansarli per non pestarli.
Il lungo giorno l’impiegano curvi a segare il grano: la notte è breve per essi più delle corti notti della stagione, e non serve al riposo e ristoro delle stanche membre riarse dal sol leone: alcune ore prima dell’albeggiare si trovano di nuovo in piedi sul mercato a cercare lavoro, o come essi dicono a vendersi. È una triste parola che attraversa un […] triste pensiero. Forse un ricordo che [rimanda] nei tempi dell’antica schiavitù della gleba. Alcuni capannelli di mietatori si formano in principio sulla piazza e poi altri, così poco a poco al primo tenue rosseggiare dell’alba, spenta la luce elettrica, disegnano una [marea] indistinta nera, confusa dove si vede al chiarore rossastro di qualche caffè aperto sfocarsi qualcuno, entrare, altri uscirne dal […] altri piccoli chiarori, un moccolo che da […] al battitore delle falci, e un gridio [come un] clamore lontano, un ronzio d’api, rotto di quando in quando dalla voce fessa o [rauca] dei venditori ambulanti.
E’ uno spettacolo, un altro mondo che si presenta ai nostri occhi.
Il reggitore contadino con una grande [sca]tola sotto il braccio è tra loro che contratta meglio compera e ad ognuno di questi, fanno ressa i mietitori, uno solo fa il contratto per molti, è la guida, quello che li à condotti giù dai loro monti, che da spiegazioni e indicazioni, e quasi mai, o si stenta a conoscere il prezzo della giornata, perchè viene profferito all’orecchio; non si deve conoscere per [non?]avere alti salari e così la concorrenza fa il resto per tenerli bassi.
Però questi salari generalmente non sono bassi, ma per una giornata di lavoro faticoso senza orario non è molto.
Ancora prima dell’alba i gruppi di mietitori seguono il reggitore, e s’incamminano assieme pei campi, solo a tarda sera ritornano in città per rivendersi il giorno dopo, e così di seguito, di luogo in luogo, finché ritornano ai loro monti a mietere ancora il grano che matura in ritardo.
Lo sgombero della piazza ai primi chiarori dell’alba o poco dopo è così compiuto, qualcuno dei mietitori, attarda a partire che il lavoro cittadino riprende.
Per un momento la piazza sembra più spaziosa.
Questo lavoro estenuante à però ricordi di [fastosità] delle antiche feste pagane per il raccolto delle messi. Ma quest’anno il contadino è rattristato, il vento e la grandine in alcuni posti gli à dimezzato il raccolto, e le spese di mano d’opera crescono, e il padrone purtroppo non concorre in questa spesa.
I mietitori quest’anno si sono riuniti, ànno cambiato idee in proposito, e quelli del Bolognese ànno portato tra loro la santa [parola] dell’organizzazione, e gettata l’intesa, per combattere la concorrenza, e per non vendersi prima delle quattro del mattino, per potere riposare almeno la notte.
Ascolta fratello di lavoro, tu che soffri gli stessi dolori gli stessi triboli, la buona novella consolatrice del compagno bolognese, essa parla di fratellanza e solidarietà, non trova nel contadino che un compagno di fatiche e gli ricorda che se non scorge loglio nel grano, i suoi campi ne sono invasi lo stesso: perché simile al loglio è il padrone.

Dopo i tanti casi di insolazione e morte dei mietitori, tardivamente, come ci racconta Il Socialista del 6 luglio 1905 “il Prefetto della Provincia emanava una circolare telegrafica ai Sindaci invitandoli a fare uffici presso i proprietari terrieri, allo scopo di far sospendere i lavori agricoli nelle ore calde, dalle 10 alle 15. Dopo tante disgrazie una raccomandazione non è gran cosa?”
Nel frattempo molti dei mietitori forestieri se ne erano già andati. Ben presto a Faenza (e immaginiamo anche a Castel Bolognese) fu lanciata una sottoscrizione popolare per aiutare le famiglie dei colpiti da insolazione. Successivamente arrivarono anche sussidi dal Ministero dell’Interno.
Tutti questi caduti sul lavoro sono completamente dimenticati. Nonostante il progresso, che ha portato alla meccanizzazione della mietitura del grano e alla scomparsa della figura dei mietitori e delle loro miserie, nelle campagne di certe zone d’Italia ancora oggi, 120 anni dopo questi tristi fatti, si ripetono scene di sfruttamento e morte che vedono vittime inermi lavoratori agricoli, soprattutto stranieri. La storia, purtroppo, sembra non aver insegnato nulla.

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