Ricordo di Attilio Farolfi “Tiglì”, l’ultimo partigiano di Castel Bolognese
Il 31 agosto 2019 è morto a 94 anni Attilio Farolfi detto “Tiglì”. Viveva a Castel San Pietro Terme da moltissimi anni, ma era nato a Castel Bolognese il 25 gennaio 1925. E nel proprio paese natale aveva svolto attività partigiana, aderendo alla Resistenza quando aveva appena 19 anni. Durante l’occupazione tedesca fu fatto prigioniero, ma riuscì a sfuggire ai tedeschi prima di essere consegnato alle Brigate Nere di Imola o inviato in un campo di concentramento in Germania. Su questa rocambolesca fuga rilasciò, nel 1981, una lunga testimonianza, che vi proponiamo in calce a questa pagina di ricordo.
“Tiglì” ebbe riconosciuta la sua attività partigiana sin dall’1 maggio 1944, fino al 12 aprile 1945, giorno della Liberazione di Castel Bolognese. Dal 1956 al 1960 fu anche consigliere comunale di Castel Bolognese.
Ha sempre mantenuto rapporti con il paese di origine, soprattutto grazie ad alcune solide amicizie, e negli anni recenti ha partecipato a due importanti iniziative: l’11 aprile 2014, al Teatrino del vecchio mercato, incontrò alcune classi dell’Istituto Comprensivo Bassi mentre l’11 aprile 2015 presenziò alla cerimonia di intitolazione della sede ANPI di Castel Bolognese a Dante e Livio Poletti.
Il 16 marzo 2017, a Castel San Pietro (sua città di adozione, della quale la figlia Francesca è stata vicesindaco fino alla primavera del 2019), gli fu consegnata la Medaglia della Liberazione conferita dal Ministero della Difesa.
Possiamo affermare che con Attilio Farolfi scompare l’ultimo partigiano di Castel Bolognese. (A.S.)
Testimonianza di Attilio Farolfi
(dal volume “Testimonianze e documenti della Resistenza a Castelbolognese”)
Eravamo circa a metà febbraio 1945 quando fui arrestato dopo che l’amico Vincenzo Budini era stato sorpreso ed arrestato mentre ascoltava le notizie radio dell’Ottava Armata servendosi di una rudimentale radio ricevente, costruita da lui stesso. Fui dunque arrestato per il solo fatto che questo avvenne nella stanza dove in quei giorni avevo dimora e che credevo un luogo sicuro. La casa era la ex caserma dei carabinieri, abbandonata all’avvicinarsi del fronte e successivamente occupata dai civili prima, e dai tedeschi dopo che il fronte si era stabilito sul fiume Senio, per i suoi sotterranei che si ritenevano capaci di resistere alle granate che gli alleati ci inviavano giornalmente. Infatti il paese per la sua vicinanza alla prima linea era soggetto al tiro dei mortai e delle mitragliatrici che si trovavano sulla collina di Tebano.
Dirò subito che, a causa della mia giovane età, non riuscii a convincere i tedeschi di essere un pacifico cittadino, anche perché era stata trovata una radio nella mia stanza. Non gli si poteva togliere dalla testa che eravamo due spie al servizio degli inglesi e, sotto questa accusa, fummo ambedue legati mani e piedi, sorvegliati a vista in modo da non poterci parlare, e, quasi subito dopo, fummo denudati e i nostri vestiti vennero sottoposti ad un minuzioso accertamento per trovare dei cifrari o codici per la traduzione dei comunicati radio che gli inglesi effettivamente lanciavano da radio Londra.
Non eravamo in possesso di cifrari; avevamo il desiderio e la speranza di sapere quando gli Alleati, distanti da noi pochi chilometri, avrebbero iniziato l’offensiva che avrebbe portato la tanto desiderata liberazione. Potevamo avere queste notizie solo attraverso la radio perché già da due mesi il paese non aveva possibilità di riceverne in altro modo.
Io, pur avendo collaborato in diverse azioni di sabotaggio e di guerriglia, ero sempre riuscito a rimanere nella legalità in quanto mi avvalevo di un lasciapassare tedesco rilasciatomi sin dall’8 settembre ‘43, per il mio lavoro presso le ferrovie dello Stato. Nella mia casa erano stati ospitati partigiani feriti ed era stata installata la tipografia – macchina per scrivere e ciclostile – per la diffusione dei volantini, in collaborazione col Budini e con Lino Dari.
Ma ora per convincere i tedeschi non avevo più il lasciapassare che era rimasto in mano ai tedeschi della T.O.D. quando mi avevano preso, in ottobre, assieme a tanti altri, per essere mandato a lavorare nei pressi del fiume Senio, dove venivano apprestate opere di fortificazione. Da quel luogo non fu difficile fuggire, anche se eravamo guardati a vista da sentinelle, in quanto gli spostamenti avvenivano a tarda sera quando era già buio o di prima mattina, sempre al buio. Questa mancanza di documenti li insospettì al punto da considerarmi un partigiano a tutti gli effetti.
Fu così che per tre giorni e tre notti fui sottoposto ad interrogatori che si svolsero prima sul posto poi al comando che si trovava in un altro stabile di fronte alla caserma dove eravamo. Qui ci interrogava un ufficiale che parlava perfettamente l’italiano tanto che pensai fosse italiano.
Pur essendo la mia prima esperienza di interrogatorio, sul principio negai di partecipare alla lotta clandestina. Loro sapevano molti nomi di partigiani e me li indicavano per scoprire se li conoscevo ed eventualmente se sapevo dove si trovavano. Con insistenza facevano il nome di Pietro Costa che ritenevano uno dei capi partigiani e si vantavano di avere già arrestato Dante Poletti e Pietro Collina (Pirôn di Béfi). Dicevano di averli fucilati perché partigiani. lo invece sapevo che erano riusciti a fuggire. Questi interrogatori, fatti con la continua minaccia della tortura, non andavano oltre colpi di pistola sui fianchi e sulla schiena. Sin dal primo momento dicevano che Budini aveva confessato il nostro appartenere ai partigiani, ma capivo che anche questo non rispondeva a verità in quanto una simile confessione avrebbe significato firmare la propria condanna a morte. Sapevamo che una volta caduti in mano loro, era difficile avere salva la vita. Il meno che potesse accaderci era essere inviati in campo di concentramento, dove ci aspettava una sicura morte. Le altre possibilità erano la tortura e la morte per impiccagione.
Fu proprio al pensiero delle minacce delle torture che, quando seppi da Maria Rombi (era una delle nostre che era costretta ad aiutare nella cucina dei tedeschi che mi tenevano prigioniero) che il giorno dopo ci avrebbero portato a Imola e consegnato alla brigata nera, decisi di tentare la fuga.
Dai sotterranei venivo portato fuori, oltre che per gli interrogatori, una volta o due al giorno, per i miei bisogni corporali ed ero sempre accompagnato da due tedeschi armati di mitra e pistola. Il gabinetto era dalla parte opposta, nell’interno dello stabile sotto una scala ed a fianco di un corridoio che dava ad una porta secondaria di ingresso, la quale non esisteva più, come la maggioranza delle porte, perché servivano a fare trincee oppure da bruciare per scaldarsi dai rigori dell’inverno. A parte le poche parole scambiate di sfuggita con la Maria, ero stato tenuto nell’isolamento più completo e, pur avendo pensato a come iniziare la fuga, non ero riuscito ad avere contatti con i compagni fuori per il dopo fuga, ammesso che fosse riuscita. In queste difficili condizioni la fuga era attuabile solo di giorno e col paese pieno di tedeschi. Rimaneva in me fissa l’idea di tentare in quanto, anche in caso di fallimento, era meglio morire per una fucilata che essere consegnato alle brigate nere, le quali praticavano spietati metodi di tortura. Era ancora viva in noi la terribile rappresaglia di Ponte Felisio e quella compiuta dalla brigata nera imolese che, prima di fuggire, aveva fatto scempio di 24 patrioti gettandoli nel pozzo del magazzino ortofrutticolo di Becca nei pressi di Imola.
Con tutto questo per la mente dovevo scegliere il momento opportuno per farmi portare fuori, in quanto dovevo tenere in considerazione anche la scorta che, a periodi di qualche ora, dava il cambio alla nostra guardia. Fu così che oltre le dieci, dopo il rientro di una pattuglia, chiesi di essere accompagnato al gabinetto. Venni condotto fuori da due tedeschi armati solo di pistola (la P38) che tenevano in mano. Questo particolare favorevole non mi sfuggì e, mentre mi accingevo ad attraversare il cortile, visto che nulla mi impediva di raggiungere il vicolo (via Gottarelli), con un balzo eccezionale ed alcuni salti riuscii ad uscire dal corridoio e raggiungere la strada che, a circa cento metri, dava sulla piazza.
Fu qui che uno dei tedeschi mi sparò (l’altro era rientrato a dare l’allarme) mentre io avevo cura di non fare un percorso rettilineo. Il tedesco aveva perso terreno perché era andato contro il muro opposto alla direzione che avevo seguito fuggendo, e di lì aveva cominciato a sparare i primi colpi. Raggiunta la piazza, mi diressi verso la torre che era stata fatta saltare precedentemente dai tedeschi e rasa al suolo. Anche qui fui fortunato perché vi era una squadra di operai che raccoglievano pietre per fortificare le trincee e, come al solito, erano sorvegliati da un tedesco munito di fucile. Ora, se è possibile sfuggire al tiro di una pistola correndo non è certamente facile sfuggire al tiro di un moschetto, ma proprio quando sopraggiungevo io il tedesco si era allontanato momentaneamente. Così potei attraversare la piazza sotto gli occhi sgomenti dei presenti che, visto e capito dal tedesco che imprecava inseguendomi, si fecero in disparte. Raggiunsi il portico di destra oltre la torre (via Garavini), svoltando sempre a destra all’angolo dell’ex GIL (via Rossi) e mi portai verso un portone, che trovai chiuso sul lato sinistro di via Gambarelli. Nell’entrare sotto il portico inciampai cadendo malamente. Rialzatomi di scatto scorsi il tedesco che, vedendomi quasi fermo, (la distanza di 60/80 metri era stata ridotta dalla caduta) mi sparò ancora un colpo o due senza colpirmi. Svoltai quindi per la strada che portava al forno di Stuvanèn (via Ginnasi) e fu lì che, attraverso un buco in un muro, fatto da una granata, entrai in un caseggiato. Senza tanti preamboli raggiunsi il tetto della casa per poi calarmi attraverso un cornicione senza tegole, in una finestra aperta di un’altra casa. Mi fu perciò facile far perdere le mie tracce al tedesco. Pur essendo entrato dal tetto in questa casa, fui visto da una donna, che, nel momento riuscii a convincere dicendole che mi nascondevo perché fuggito da un gruppo di lavoro. (Questo fatto non era considerato grave, in quanto, se si era ripresi il giorno dopo, i tedeschi non facevano niente). Ma dopo una decina di minuti il caseggiato era circondato dai tedeschi, il ché faceva prevedere che avrebbero cercato casa per casa. Sparsero pure la voce che nella casa in cui mi avessero trovato, avrebbero fucilato anche gli abitanti.
Fu così che iniziarono le due ore più lunghe della mia vita. I tedeschi si sentivano parlare da tutte le parti; un paio di loro erano saliti sui tetti, una parte in strada, mentre i rimanenti perquisivano le case. A questo punto ritornò la donna ad avvisarmi che sarebbero venuti anche lì ed imprecava che andassi via per timore della rappresaglia.
Capii subito che le cose si mettevano male anche perché la donna dimostrava una paura tremenda e sarebbe stata capita dal più ingenuo dei tedeschi. Mi sforzai di calmarla dicendole che sarei andato via appena possibile, ma non sentiva ragioni. Decisi allora di scendere al piano terra. A terra, attraverso un cortile interno, raggiunsi un’altra casa dove, da due persone anziane mi fu indicata una stanza adibita a legnaia, attrezzi di lavoro e cantina. Pregai insistentemente le due persone di allontanarsi per non correre rischi, e così mi fu promesso.
Ero ancora intento a trovare un buco per potermi nascondere, quando sulla porta che dava alla strada, cominciarono a menar colpi per abbatterla. La stanza era buia ma essendo già lì da un quarto d’ora riuscivo a scorgere che il portone era sprangato internamente e per questo resisteva magnificamente. Infatti dopo diversi tentativi, che non finivano mai, si allontanarono imprecando. Tutto questo non mi rallegrava molto, ma il solo fatto di essere riuscito a fuggire e di trovarmi libero, mi dava un coraggio da leone. Vi era poi il fatto che loro mi cercavano in quel caseggiato ma non erano sicuri che io vi fossi; infatti il tedesco che mi aveva inseguito non mi aveva visto entrare attraverso il muro rotto. Nella mia mente passavano infiniti pensieri: la famiglia, gli amici, i compagni e il desiderio di arrivare alla fine della lotta.
I miei venti anni mi facevano poi sognare tutto quanto di bello e di buono vi possa essere nella vita di un giovane, ma perché questo si potesse avverare bisognava uscire vivo da questa brutta situazione. Ero lì senza possibilità di fuga, senza un’arma per potermi eventualmente difendere, solo con il pensiero di salvare la vita. A tratti si sentivano le voci secche dei tedeschi che rimanevano nella zona, finché ne udii una molto vicina che mi fece gelare il sangue. Doveva essere nella stanza da cui ero passato io per entrare dov’ero in quel momento. Ora i miei pensieri andavano ancora più in fretta, sempre più in fretta, pensando che forse potevano essere gli ultimi. Ma anche per questi venne il momento di cessare. Sulla porta si presentò l’ombra grande di un “togni” (così chiamavano in senso dispregiativo i soldati tedeschi) che dopo alcuni attimi, forse per ambientarsi alla pochissima luce, avanzò fino al centro della stanza stessa. Io mi trovavo nell’angolo della parte sinistra da dov’era entrato lui: era l’angolo più lontano dal portone che dava qualche spiraglio di luce.
Ero nascosto fra una carriola disposta da me stesso in piedi e da alcuni fasci di legna. Si fermò al centro, era da me distante non più di due metri e questo mi consenti di scorgere la pistola che teneva in pugno. Lo vidi bene in faccia e lo riconobbi per uno della compagnia che era presso la caserma. Vedevo la morte molto vicina, vedevo in lui la forza capace di distruggere una vita che aveva tanta voglia di vivere, senza nulla poter fare. Ora il tempo si era fermato davvero. Lui stava sempre lì a guardare, i secondi erano minuti ed i minuti sembravano ore, finché si girò di scatto imprecando e si allontanò per cercare altrove. Dire quello che può provare un essere umano posto di fronte ad un fatto simile penso sia molto difficile. Ritornai a respirare con sollievo e ad avere ancora fiducia di potermela cavare. Passò circa un’ora finché se ne andarono tutti, forse convinti che non fossi più lì o che non mi ci fossi mai fermato.
Intanto si sparse la voce della mia fuga e fu cosi che ebbi la gradita visita del compagno Nino Ravaioli col quale studiai il piano per uscire dal caseggiato. Per prima cosa cambiai rifugio, sempre girando internamente alle case attraverso i muri rotti dalle granate. Fui un po’, da lui, rivestito e rifocillato; quindi, dietro suo consiglio, mi rinchiusi in una stanza a cui si accedeva mediante un armadio a muro, dove restai in attesa, come si era deciso, (ammesso che i tedeschi non fossero ritornati alla ricerca sul posto) di uscire verso le 17, in quanto per quel1’ora vi erano persone civili per strada che i tedeschi mandavano a casa dal lavoro. La notte fu scartata in quanto pericolosa perché i tedeschi giravano continuamente anche per dare il cambio a quelli che erano nelle prime linee. Così Ravaioli, dopo che si era accertato che nei pressi non vi erano più tedeschi, venne a darmi via libera. Fuori dal paese il pericolo era che mi imbattessi in qualche tedesco che mi conoscesse. Fu così che percorsi il Borgo e, incamminatomi per Via Pascoli (ora provinciale Lughese), ebbi il primo incontro con una squadra di tedeschi proveniente dalla ferrovia. Per un attimo rimasi indeciso sul da fare, se proseguire o cercare rifugio presso una delle case che ancora si trovavano sul posto. Decisi per la seconda soluzione, senza dar loro alcun sospetto. Superata questa piccola difficoltà mi incamminai con fare svelto per allontanarmi il più possibile dal paese finché vi era luce. Raggiunsi così la casa colonica dove era sfollato il padre di Sergio Cicognani (e’ Furles) che si trovava nei pressi dello spaccio di Castelnuovo lungo la via del Canal Vecchio. Mi avvicinai con circospezione in quanto era già buio ed, accertatomi che almeno in quel momento in casa non si udissero voci di tedeschi, chiamai qualcuno che mi venisse ad aprire. Riconosciutomi, mi accolsero con molto piacere non sapendo nulla su ciò che mi era capitato e pensando invece che io portassi buone notizie del figlio che era in montagna coi partigiani. Li rassicurai che, pur fra tante difficoltà, il grosso della compagnia di cui lui faceva parte era riuscito a passare le linee e si trovava dall’altra parte del fronte.
Fui poi invitato a mangiare. Parlando mi informai se vi erano dei tedeschi accampati vicino. Mi dissero di si e che le visite non mancavano mai, in particolare per cercare animali e generi alimentari. Questo, certo, non rappresentava una difficoltà e decisi così di rimanere lì la notte ed il giorno successivo per ripartire all’imbrunire alla volta di Bagnara, dove pensavo di trovare ospitalità presso uno zio. La caduta della mattina durante la fuga mi aveva procurato l’escoriazione delle ginocchia, dandomi un dolore continuo, anche quando, con molto sollievo, riuscii a sdraiarmi nella stalla considerato un luogo protetto dalle granate. Trascorsi così la notte in un dormiveglia, pensando di averla, ancora una volta, fatta franca, ma non mi spariva dalla mente il tedesco venuto nella stanza dove io mi ero nascosto, con la pistola in pugno pronto ad uccidermi, se il più piccolo rumore gli avesse permesso di individuarmi.
Ciò nonostante era la mia prima notte di libertà e volevo essere contento, perché tante erano le cose che volevo fare. Erano giorni terribili per tutti: si aspettava con ansia la fine del conflitto; il mangiare cominciava a scarseggiare in tutte le case e i tedeschi diventavano sempre più cattivi giungendo a razziare, sotto la minaccia delle armi, le case dei contadini. E questo era il meno che potesse capitare.
Il giorno seguente stavo in attesa dell’imbrunire per riprendere il viaggio quando si presentarono, presso il cortile, alcuni tedeschi che, dopo aver dato un’occhiata in giro per la casa, imposero a me e ad un’altra persona non anziana della famiglia del contadino, di seguirli per andare a scavare trincee. Feci buon viso a cattiva sorte e li seguii senza dare sospetto. Dopo altre soste in case diverse, dove riuscirono a rastrellare una decina di persone, fummo poi portati nei pressi di Solarolo lungo la strada che scorre a fianco del canale. Dirò che non fu difficile fuggire in quanto, pur essendo sorvegliati, era buio e la sorveglianza era scarsa. Infatti erano convinti di poter riacciuffare i fuggitivi il giorno successivo. Così quando si presentò l’occasione favorevole presi il largo senza molta difficoltà. Sparavano in non so quale direzione quando era già lontano.
Ero di nuovo in cammino per strade secondarie e carreggiate di campi per poter raggiungere Bagnara prima dell’alba. Raggiunta la casa di mio zio alla periferia del paese, attesi nascosto il giorno per vedere se vi fossero dei tedeschi perché, essendo visto a quell’ora e così poco presentabile (ero bagnato ed infangato), avrei potuto destare sospetti.
Non c’erano tedeschi in casa di mio zio, cosi potei diventare uno della famiglia. Con mia grande sorpresa constatai che da quelle parti la vita non era così difficile come a Castello. Infatti gli uomini giravano ancora senza difficoltà ed il pericolo di granate o bombardamenti non esisteva. Questo stato di case si rivelò poi una tattica militare. Gli inglesi martellarono per i quattro mesi di sosta sul Senio la zona di Castelbolognese sulla via Emilia e di Lugo sulla via San Vitale per costringere i tedeschi a fortificare quelle zone, poi, quando decisero di attaccare, concentrarono i loro sforzi sulla direzione Solarolo-Bagnara.
Mi trovai così ancora una volta in mezzo alla bufera di fuoco che l’Ottava Armata scatenò per rompere le difese ed iniziare l’avanzata che portò in una decina di giorni alla liberazione di tutta l’Italia. I giorni trascorsi dal mio arrivo li passai a costruire rifugi che a Castello avevo avuto modo di vedere e sperimentare. Si rivelarono di grandissima utilità. Non poche furono le vittime civili che non si erano preparate a tale difesa.
Con molto impegno feci qui la ricerca di Pietro Collina, già ricordato, che, come sapevo, era fuggito dai tedeschi e si trovava da quelle parti. Fui fortunato e riuscii a combinare un incontro tramite persone amiche. Eravamo due compagni che avevano lottato insieme, sperato nella liberazione in dicembre quando gli inglesi erano arrivati sul Senio, ma avevamo avuto la brutta avventura di essere caduti nelle mani dei tedeschi. Lui era stato arrestato circa un mese prima di me e voleva sapere tante case di me, di Castello, ecc. Rimasi presso di lui un giorno ed una notte tante erano le cose che avevamo da dirci. Si decise pure di far ritorno a Castelbolognese insieme, non appena si fosse creata la possibilità.
Fu cosi che, al secondo giorno dall’inizio dell’offensiva alleata, dopo aver notato durante la notte il ritiro dei tedeschi che si trovavano nella zona, ci incamminammo insieme andando verso le pattuglie alleate che incontrammo circa un chilometro dopo. Erano polacchi e parlavano bene l’italiano. Li rassicurammo che i tedeschi si erano già ritirati. Ci lasciarono andare senza difficoltà. Un’altra pattuglia, forse da loro avvisata, ci costrinse a seguirli fino ad una casa in cui era installato il comando. Le domande che ci rivolsero si riferivano ad eventuali fortificazioni del tedeschi delle quali noi negammo l’esistenza. Ma gli alleati non erano troppo convinti, anche perché noi eravamo senza documenti e credevano poco alla nostra storia. Ci lasciarono indicandoci di percorrere una determinata strada per raggiungere Faenza, ma lungo il tragitto fummo raggiunti da una jeep e condotti al comando di Faenza. Anche qui vollero sapere tante cose. Castello non era ancora stato liberato o si stava liberando quel giorno. Fummo i primi a raggiungere Faenza dove si sparse subito la voce della nostra presenza fra i non pochi castellani che si trovavano lì da mesi senza notizie delle loro famiglie. Il compagno Giovanni Collina si fece garante di noi presso il comando alleato e così fummo lasciati liberi. Dopo qualche giorno di attesa vi fu la possibilità a nostro rischio, causa le mine, di raggiungere Castello per via Tebano-Biancanigo.
La soddisfazione di ritrovarsi insieme e liberi da una lotta cosi dura e terribile superò lo sgomento che i nostri occhi ebbero nel vedere un paese completamente distrutto e raso al suolo con le sue centinaia di morti.
Sulla sorte del mio compagno di sventura, Vincenzo Budini, posso dire che venne condotto a Imola con una corda legata ad una gamba e da lì trasferito a Bologna nel carcere di San Giovanni in Monte, dove fu liberato.
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