La chiamarono “Spagnola”: ma venne dal mare
Un promemoria che non andava dimenticato (neanche a Castel Bolognese)
di Angelo Nataloni
Poco più di cento anni fa la Grande Guerra stava per finire, ma un’altra era pronta ad incominciare: più subdola, più insidiosa, più difficile da combattere e in grado di fare più morti delle cannonate e degli assalti ai reticolati. Contagerà e ammazzerà popolazioni già provate, indebolite e affamate. Sarà chiamata “influenza spagnola” o la “grande influenza”. Più atroce della peste del 1348, più assassina dell’Acquired Immune Deficiency Syndrome: AIDS (si dice abbia ucciso più persone in 24 settimane che l’AIDS in 24 anni) o di qualsiasi altra pandemia di cui si abbia memoria. Pur tuttavia, come vedremo più avanti, fu però sminuita durante la sua devastante diffusione e poi fatta cadere nell’oblio.
Ma andiamo con ordine. L’11 marzo 1918 in un sovraffollato campo di addestramento in Kansas (Stati Uniti) vengono ricoverati 107 pazienti per un attacco di influenza violentissima di cui non si conoscono le cause (sarà il primo focolaio ufficialmente riconosciuto) (1). In un tempo brevissimo, l’infezione si propaga a 26.000 persone alloggiate nelle baracche. Gli scampati vengono mandati a combattere in Europa sui vari fronti e diventano portatori sani del virus che si diffonde velocemente in tutto il mondo. La prima a parlarne fu la stampa iberica sia perché 100.000 madrileni si ammalano a maggio, tra i quali il re Alfonso XIII, sia perché essendo la Spagna neutrale durante la Prima Guerra Mondiale, la sua stampa non è soggetta alla censura di guerra. Negli altri Paesi il violento diffondersi dell’influenza viene deliberatamente tenuto occultato dai mezzi d’informazione, che semmai ne parlano come di un’epidemia circoscritta alla penisola iberica. Ecco quindi spiegato il nome tutto sommato errato di “influenza spagnola”. Del resto, anche il termine “influenza” è originario della Spagna: davanti alle febbri alte e alle polmoniti che portavano alla morte, gli scienziati medioevali iberici non trovarono altra spiegazione che parlare di “influenza del Diablo”. Dal canto loro, gli stessi spagnoli pensano invece che la nuova malattia arrivi dalla Francia e la chiamano “influenza francese”.
In trincea le baracche sono il terreno favorevole per il propagamento dell’epidemia. Particolarmente colpite sono da subito le truppe neozelandesi ed australiane in Gran Bretagna. Nell’esercito austriaco (Figura 1) l’incidenza della mortalità sarà quasi tripla rispetto all’esercito italiano: gli austriaci, impegnati su diversi fronti, sono esposti a più focolai. La loro dieta a base di carne (quando c’è), sebbene appaia più energetica di quella del nostro esercito, è invece carente di vitamine che noi italiani assumiamo grazie a maggiori quantità di frutta e verdura e che oggi sappiamo siano indispensabili a formare le difese immunitarie.
Sarà comunque un episodio complesso che durerà più di un anno tra il marzo del 1918 e l’estate del 1919, con delle ricadute durante il 1920 e il 1921. Tre fasi hanno scadenzato la pandemia iniziale: una prima, caratterizzata da un’elevata morbilità, con carattere moderato, ma molto contagiosa anche se relativamente “benigna”, che perdurerà dal marzo al luglio del 1918. I principali sintomi dell’infezione sono simili a quelli di altre malattie influenzali:
-insorgenza improvvisa della malattia;
-pronunciata sensazione di malattia in tutto il corpo, come mal di testa e dolori muscolari, mal di Schiena;
-stanchezza ed esaurimento, incapacità di concentrazione, apatia, brividi;
-tosse secca o tosse convulsa, talvolta accompagnata da grave irritazione della gola;
-febbre, con la temperatura che supera i 40 °C per un giorno o due;
-durata della malattia in media di tre giorni (meno frequentemente cinque o più giorni).
Nei casi più gravi, la polmonite si è verificata sotto forma di polmonite primaria da virus dell’influenza o sotto forma di polmonite secondaria da super-infezioni batteriche, a volte accompagnata da febbre emorragica in rapido sviluppo e da una colorazione nero-bluastra (cianosi) della pelle, risultante dalla mancanza di ossigeno. In pratica i polmoni si riempiono di liquido, diventano rigidi portando alla insufficienza respiratoria e conseguentemente alla morte in pochi giorni. A differenza di oggi non esisteva la ventilazione meccanica polmonare.
La seconda fase si diffonderà dall’Europa in tutto il mondo a partire dal mese di agosto 1918 e sarà quella devastante. Si tratta certamente della stessa influenza perché chi ha superato la prima ne risulterà immune, ma il ceppo è mutato in forma più micidiale con un tasso di letalità decuplicato. I primi sintomi sono sempre quelli classici appena citati, ma le complicazioni polmonari si moltiplicano e colpiscono soprattutto i giovani adulti (15-45 anni).
Una terza ondata interesserà di nuovo molti Paesi tra il febbraio e l’estate del 1919. Ma risulterà meno letale: probabilmente aveva subito una mutazione rapida verso una forma meno grave, un evento comune nei virus patogeni, poiché gli ospiti dei ceppi più pericolosi tendono a estinguersi.
I sopravvissuti sono contrassegnati da grave affaticamento ed esaurimento cronico, spossatezza prolungata, facilmente unita a depressione. Coloro che superano anche la polmonite dovranno affrontare una lunga e ardua convalescenza. A causa dell’infezione influenzale, molte persone soffriranno di disfunzioni neurologiche per il resto della loro vita.
Contagerà circa 500 milioni di persone (il 30% della popolazione mondiale che allora era 1 miliardo e 600 milioni). Il bilancio di vittime sarà terribile. Diversi studi lo collocano tra i 50 e i 100 milioni di morti (cica il 6% della popolazione) con enormi diversità da Paese a Paese (Figura 2). L’Asia pagherà il prezzo più alto con 30 milioni di morti, di cui 18 milioni in India: un impatto ancora incerto resta tuttora quello relativo alla Cina e al mondo ottomano, allora in completo degrado. In Europa, Russia compresa, si conteranno ufficialmente più di 3 milioni di morti di cui 250.000 in Francia e 700.000 in Italia, ma è più probabile 1.000.000 (2) (molti più della guerra stessa). Dilagherà in quasi ogni parte del mondo, dall’Artico alle remote isole del Pacifico (solo poche isole sperdute come Sant’Elena o le Samoa americane sfuggiranno al flagello).
In Italia il primo allarme viene lanciato a Sossano, provincia di Vicenza, in pieno agosto 1918, quando un capitano medico, dirigente del Servizio Sanitario dei reparti d’assalto, invita il sindaco a chiudere le scuole per una sospetta epidemia di tifo. Scatta l’emergenza anche se si capisce in ritardo che non si tratta di tifo, ma della ben più terribile “Spagnola”. Milano è una tra le città più colpite: già nel settembre 1918 si registrano 850 decessi, 3.000 in ottobre, 800 in novembre, 900 a dicembre per un totale di 5.500 vittime in venti settimane. Le cifre del contagio in Italia sono impressionanti, una vera strage. Nel solo mese di ottobre, quello di maggiore diffusione e virulenza, muoiono oltre 240.000 persone. In settembre i decessi erano stati 78.000. A novembre passeranno a 120.000. Gli effetti appaiono devastanti nel Lazio, in Puglia e in Sicilia. La “Spagnola” colpisce più gli uomini delle donne anche se statisticamente le più vulnerabili di tutti sono le donne incinte con un tasso di mortalità compreso tra il 23% e il 71%. Non ci sono medici, il regime alimentare è poverissimo soprattutto di vitamine, essendo quasi tutta la frutta e la verdura destinata al fronte. Talvolta si muore ancora prima che venga formulata la diagnosi. Il sovraffollamento dei locali abitativi, dove si vive anche in venti di tre generazione, contribuisce alla diffusione della malattia. Per esempio, l’indice della mortalità tra i profughi sarà superiore quello della popolazione residente.
Al fronte si tace, se non altro perché siamo nel pieno dell’organizzazione della controffensiva del Piave. Ma fin da subito si presenta in maniera molto virulenta e il pericolo di contagio fa sì che i soldati ammalati siano trattati alla stregua di appestati, così come appare da questa testimonianza (un po’ sgrammaticata) tratta dal diario del soldato Silvio Piani di Imola, 7° Reggimento degli Alpini:
“Dopo un paio di settimane mi è venuta la febbre, eravamo in 2, ci anno portato alospedale da campo n. 305. Si anno messo nella camera mortuaria. Perché cera fuori delle febbre che si moriva in 2 giorni. Una rete senza materazzo con uno sporco cusino senza federa, e poi ci anno chiusi dentro a chiave. A me la febbre mi stava passando, ma al mio povero amico ci omemtava. Alla notte mi chiamava che voleva un po’ daqua, eravamo senza luce, o provato di acendere fiammiferi per vedere se ce nera, non ne ò trovato, o provato a batere nella porta ma nessuno mi a risposto. Ci sono andato li vicino e poi ciò detto – aqua non ce né – . Lui mi a risposto – adesso chiamo mamma – Dopo circa unora non a più detto nulla. Mi a fatto tanto piangere, era un mio amico, della mia classe di 19 anni. Quando alla mattina sono venuti à aprire la porta anno preso su il morto e poi sono andati a sepelirlo. Io senza dire nulla sono scapato e poi guardavo dietro che avevo paura che mi venissero a prendere. Il mio reparto era distante 2 chilometri, o fatto tutta una corsa. Alla mattina dopo sono tornato in trincea”.
Non riuscendo a trovare una cura efficace, l’unica precauzione (potendo) è rappresentata dall’immediata quarantena e dall’uso delle mascherine come documentato dalle tante foto dell’epoca (Figure 3-6). Vecchi e nuovi rimedi finiscono per incrociarsi. Superstizione e scienza si accavallano, ovviamente senza risultati. C’è chi consiglia come cura il tabacco da fiuto, chi impacchi di aceto bollente, chi zucchero nel latte bollente. Chi ancora birra, cognac francese, dentifrici e acqua di colonia (Figure 7 e 8).
Ma in Italia come ci comportammo? I dati di diffusione e mortalità ci dicono che riuscirono a proteggersi di più le popolazioni che erano state informate in modo corretto e tempestivo e che avevano assunto precocemente determinati comportamenti, come l’evitare raduni o l’adottare specifici accorgimenti igienici e di protezione, come per l’appunto le mascherine. Non potendo introdurre il distanziamento sociale in trincea (probabilmente molto gradito) e neppure il “lockdown”, in virtù del fatto che la produzione industriale era quasi a completo supporto della guerra, né tantomeno garantire una copertura sanitaria, dato che le risorse mediche erano riservate allo sforzo bellico, non restarono molte frecce al Governo italiano. Ma anche gli altri Paesi europei in guerra non fecero certo di meglio (tutti i Paesi belligeranti tesero a minimizzarla e a dare solo poche indicazioni comportamentali di massima). Alla popolazione civile le nostre autorità politiche rifiutarono di dare istruzioni generali, rimandando ai prefetti o ai Comuni il compito di chiudere scuole, teatri, cinema, negozi o sospendere eventi sportivi e vietare le commemorazioni ai defunti (Figura 9). Vari sindaci raccomandarono tra l’altro di non prestare libri, di non andare dal barbiere, di lavarsi spesso le mani con acqua e sapone, di arieggiare e ventilare case, laboratori, officine e uffici, di non portare a casa gli abiti da lavoro, di evitare gli agglomeramenti delle persone per le strade, nei veicoli e nei locali chiusi, di non frequentare gli ammalati, di evitare strette di mano! Insomma nulla di nuovo.
In pratica il Paese si fermò per mancanza di personale. Il numero dei malati era tale che le scuole non potevano più funzionare, le fabbriche giravano a rilento e nei campi i contadini si contavano appena. Le misure d’igiene, come la disinfezione dei treni, non venivano eseguite per mancanza di disinfettanti.
Per quanto riguarda nello specifico di Castel Bolognese le notizie riguardanti la “Spagnola” sono poche. Non dobbiamo mai dimenticare che la guerra e la povertà erano in quel momento i problemi più percepiti. Scrive don Garavini nelle memorie parrocchiali:
“Verso la fine della guerra, un po’ in conseguenza delle privazioni causate dal periodo critico e forse anche importata dalle truppe combattenti di così varie nazioni, in breve si diffuse nella nostra regione un’influenza epidemica detta “la Spagnola”. In molti casi era mortale; anzi i decessi avvenivano anche improvvisamente: certe persone si afflosciavano a terra e morivano in un baleno. Il morbo colpiva indistintamente tutte le età. Ne fu vittima anche una ventiduenne Figlia della Carità, addetta al servizio del nostro ospedale, morta il 16 ottobre 1918. Si chiamava suor Luisa al secolo Gentile Tramandoni. Per ordine dell’autorità sanitaria si presero subito rigorose misure profilattiche per circoscrivere l’epidemia e debellarla. Nelle chiese si dovevano spesso disinfettare il pavimento, i banchi e specialmente le grate dei confessionali con irrorazioni di creolina e lisoformio. Dopo qualche mese il morbo che in parecchi casi si mostrava anche in forma leggera, fortunatamente scomparve sollevando un po’ gli animi di tutti”.
Così come altrove anche alcuni soldati castellani contrassero il virus o morbo come lo chiamavano. E almeno due di loro morirono, debilitati dalle fatiche della trincea: Giuseppe Morini (figura 10), deceduto il 23 ottobre 1918 a Bologna, e Domenico Lanzoni (figura 11), spirato il 14 novembre 1918. Più fortunato il futuro scrittore Francesco Serantini che riuscì a guarire pur essendo stato in gravi condizioni.
Certamente morirono anche tanti civili di cui però abbiamo perso memoria e i cui nomi riaffiorano rileggendo le vecchie lapidi come la sorella di mio nonno Orsolina Minardi (Figura 12) di 20 anni, Domenico Borzatta di 28 anni (figura 13), Anna Galeati di 20 anni (figura 14) e, probabilmente, anche Giovanna Guidi di 53 anni, morta nel 1920 (figura 15). Grazie ad Alberto Mingotti (che si ringrazia per la segnalazione) scopriamo la storia della sua prozia Bartolomea Cimatti, deceduta a 23 anni nel 1918 (figure 16 e 17). E ancora morirono Maria Bassi, di 24 anni e Carolina Santandrea in Sangiorgi di 37 anni come testimoniano i due luttini conservati nell’archivio di Andrea Soglia.
Allora come ora si poteva contare sostanzialmente solo su mascherine e salubrità degli ambienti favorendo il riciclo dell’aria. Tuttavia non si rimase completamente inattivi, neppure sul fronte terapeutico e ci fu chi tentò di curare i malati di “Spagnola” con trasfusioni di sangue prelevato dalle persone guarite. L’analisi delle pubblicazione dei casi clinici fa rilevare che i pazienti affetti da trattati in questa maniera, hanno manifestato una riduzione importante del rischio di morte. Insomma già 100 anni fa si sosteneva che il plasma umano di convalescenti poteva essere un trattamento efficace, tempestivo e ampiamente disponibile.
Di lì a poco la guerra terminerà su tutti i fronti e subito dopo la “Spagnola” subirà un meccanismo di totale rimozione, occultata alla memoria dei popoli, in particolare da quelli europei, troppo impegnati ad occupare tutto lo spazio della memoria con i ricordi della conflitto appena concluso. Non si vuole più parlare di morte o almeno si preferisce ricordare soltanto le morti eroiche. C’è anche da dire che l’oblio si spiega con la sua apparizione atipica nella specifica storia delle epidemie e della salute. A quel tempo, soprattutto il mondo occidentale era nel bel mezzo di una transizione epidemiologica: si stava passando da una mortalità di origine principalmente infettiva (tubercolosi, dissenteria, morbillo, ecc.) a una mortalità per malattie degenerative (cancro, morbo di Alzheimer, ecc.). Con le regole d’igiene, dell’asepsi e delle nuove vaccinazioni ci si convinse di aver arrestato le grandi epidemie ancora estremamente mortali nel XIX secolo. Tuttavia, le autorità mediche e politiche si erano trovate impotenti di fronte all’epidemia di influenza. Non vollero quindi mantenere vivo il ricordo di un evento che fu per loro un completo fallimento.
Si è dovuto attendere la fine del XX secolo per far riemergere l’influenza del 1918-19 in termini di riferimento epidemico.
Sulla sua origine, sulle cause della sua virulenza e sul perché abbia colpito principalmente i giovani le ipotesi sono tuttora non unanimi e proprio di recente è uscita una nuova ricerca (Short KR, Kedzierska K, van de Sandt CE. Back to the future: lessons learned from the 1918 influenza pandemic) che ha compiuto una metaanalisi degli studi al riguardo. Solo oggi, infatti, (anche se non c’è consenso universale) possiamo classificare il virus influenzale della “Spagnola” come di tipo A, lo stesso che si evolve provocando la classica influenza stagionale. Gli studi condotti su campioni risalenti all’epoca della “Spagnola” dimostrerebbero che il virus avrebbe avuto origine prima del 1918 quando un virus H1 umano acquisì la neuraminidasi aviaria N1 e i geni delle proteine interne. Tutti gli 8 segmenti genetici sarebbero derivati da un virus aviario che, compiendo un “salto di specie”, si sarebbe adattato all’uomo acquisendo anche una eccezionale capacità di trasmettersi da persona a persona. Purtroppo l’atipicità dei sintomi fece sì che all’inizio a molti malati non fosse neanche diagnosticata una influenza, ma qualche altra malattia contagiosa. Le perdite di sangue dal naso e dalla bocca, che oggi sappiamo essere dovute alle complicazioni polmonari, fuorviarono molti medici. E, infatti, molti morti, se non la maggioranza, furono causate da queste emorragie polmonari. Certamente in molti casi la causa di decesso fu una polmonite batterica secondaria, come d’altronde avviene in molte influenze. Un gruppo di ricercatori, recuperando il virus dai corpi di vittime congelate, ha scoperto che la trasfezione negli animali causa una rapida insufficienza respiratoria progressiva e la morte attraverso una vera e propria “tempesta di citochine”. Sappiamo che queste sostanze sono normalmente prodotte dalle nostre difese immunitarie, ma un rilascio sproporzionato può causare una reazione immunitaria polmonare eccessiva e di conseguenza determinarne quelle complicanze letali che abbiamo visto. Giovani in buona salute e con un sistema immunitario molto robusto possono avere tempeste di citochine più facilmente di persone con un sistema immunitario debole, come per esempio gli anziani. E in effetti la maggioranza dei morti di “Spagnola” si contò in adulti sotto i 65 anni e più della metà tra i 20 e i 40 anni.
Una volta ritrovato e ricostruito il virus responsabile della “Spagnola” le proprietà che lo hanno reso così devastante sono state meglio comprese. Studi più recenti basati principalmente su referti medici originali del periodo della pandemia, hanno rilevato che l’infezione virale non era molto più aggressiva di altre influenze precedenti, ma che le circostanze speciali (guerra, malnutrizione, campi medici e ospedali sovraffollati, scarsa igiene) contribuirono ad una superinfezione batterica. Quando una persona infetta starnutisce o tossisce, più di mezzo milione di particelle virali possono essere diffuse nelle vicinanze. Gli alloggi sovraffollati e i massicci movimenti delle truppe impegnate in guerra affrettarono la pandemia e accelerarono la trasmissione e la mutazione del virus, provocando un tasso di mortalità probabilmente più alto del dovuto (3). Una maggiore letalità acuita anche dalla modalità in cui si viveva nel periodo bellico: nella vita civile la selezione naturale favorisce i ceppi di virus miti. Quelli che si ammalavano seriamente rimanevano a casa e coloro che erano solo lievemente malati continuavano con le loro vite, diffondendo una malattia non grave. Nelle trincee la selezione naturale risultava invertita: i soldati che avevano contratto una forma leggera rimasero dov’erano, mentre i malati gravi venivano inviati su treni affollati verso ospedali da campo altrettanto affollati, diffondendo il virus più letale. Insomma, una concatenazione di cause tali che la malattia ridusse talmente tanto l’aspettativa di vita di inizio XX secolo che, nel primo anno dal diffondersi della pandemia, risultava diminuita di circa 12 anni.
Nonostante la diffusa convinzione che le pandemie non guardino in faccia a nessuno e che colpiscano ricchi e poveri in ugual modo, purtroppo questa è solo una mezza verità: le classi più povere erano anche le più fragili considerando le condizioni di vita, nutrizione, igiene e salute. Alcuni studi hanno addirittura individuato una correlazione positiva tra il tasso di mortalità per “Spagnola” e analfabetismo. Tuttavia, paradossalmente, anche “l’influenza spagnola” ebbe un bicchiere mezzo pieno: la virulenza della malattia determinò la scomparsa delle pandemie influenzali per i successivi 40 anni a causa dell’immunizzazione di gran parte della popolazione sopravvissuta.
Forse alla luce di quanto sopra, partendo da peste, vaiolo e colera fino alla “Spagnola”, diventano più comprensibili le recenti epidemie di AIDS, mucca pazza e SARS (Severe Acute Respiratory Ryndrome). In sintesi un microorganismo è la condizione necessaria, ma non sufficiente, alla manifestazione di una malattia infettiva. Affinché questa si manifesti è necessario qualcosa d’altro. Questo qualcosa è dovuto a cause socio-ambientali (psicologiche, relazionali, affettive, sessuali, lavorative, economiche, igieniche, spirituali). Alcune hanno un maggiore impatto sulle ineguaglianze nella salute come il reddito, l’educazione, la sicurezza, la casa, l’ambiente di lavoro, la socializzazione e i trasporti, altre hanno un’influenza più ristretta come i singoli stili di vita.
A questo punto però chi si aspettasse un parallelismo tra “influenza spagnola” e Coronavirus o COVID-19, come oramai tutti hanno imparato a conoscerlo, resterà deluso. Fatta eccezione per i sintomi dell’influenza o le complicazioni polmonari, i paragoni si fermano lì, tanto i contesti, i tempi, le terapie e le proporzioni (almeno per ora) sono distanti. Le valutazioni e le statistiche cliniche per essere credibili non possono fondarsi solo su qualche mese.
Tuttavia, in conclusione occorre fare almeno una considerazione. La storia è contraddistinta da due insidie opposte: fare del passato tabula rasa o avere il passato come unico orizzonte. La memoria collettiva è un processo selettivo. È un costrutto individuale e collegiale in cui le crisi equivalgono a periodi d’insegnamento che, se interiorizzati, ci aiutano a vivere meglio quelle successive. Ma chi non tiene conto della storia è destinato a ripetere gli stessi errori.
BIBLIOGRAFIA
1. Norme igieniche individuali. La Stampa, 4 ottobre 1918
2. Tognotti E. La spagnola in Italia. Storia dell’influenza che fece temere la fine del mondo. Franco Angeli Editore, Milano, 2002
3. Johnson NPAS, Muller J. Updating the accounts: global mortality of the 1918-1920 – Spanish influenza pandemic. Bull Hist Med 2002; 76 (1): 105-115
4. Crosby AW. America’s forgotten pandemic: the influenza of 1918. Cambridge University Press, New York (USA) 2003
5. Pittalis E. La Grande Guerra di Giovanni (l’Italia al fronte: 1915-1918). Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone, 2006
6. Nataloni A, Soglia A. Castellani oltre il Piave: la memoria e il ricordo. Edizione EDIT Faenza, 2006
7. Short KR, Kedzierska K, van de Sandt CE. Back to the future: lessons learned from the 1918 influenza pandemic. Front Cell Infect Microbiol 2018; 8 (8): 343.
8. Nataloni A, Zanotti B. La chiamarono spagnola, ma venne dal mare: un promemoria che non andava dimenticato. Journal Progress in Neuroscience, Topics, suppl. 1, 23-30, 2020
9. Grandi P. Il lazzaretto di Castel Bolognese, La storia di Castel Bolognese, www.castelbolognese.org. 2020
NOTE
(1) Albert Mitchell, cuoco di una compagnia dell’esercito, si recò all’infermeria di Camp Funston nel Kansas (un campo satellite di Fort Riley), lamentandosi di un leggero mal di testa, un lieve mal di gola, perdita di appetito, dolore muscoli e febbre di basso grado. Sebbene gran parte degli storici più accreditati, come Alfred W. Crosby e John Barry, hanno convenuto che la “Spagnola” abbia avuto origine in America, altri hanno ipotizzato che l’influenza sia nata in Asia orientale. In particolare Claude Hannoun (principale esperto dell’epidemia per l’Istituto Pasteur di Parigi) ha affermato che probabilmente si trattava di un virus proveniente dalla Cina, mutato negli Stati Uniti, vicino a Boston, per poi diffondersi in Europa. Ma certezze non ne avremo mai.
(2) La numerosità e la forbice devono necessariamente essere presi con beneficio d’inventario. La pandemia si è diffusa in anni in cui gli strumenti di raccolta dati per calcoli epidemiologici e di statistica medica erano tendenzialmente incoerenti e di dubbia validità, accuratezza e solidità.
(3) Per questi motivi la mortalità fu minore nei Paesi neutrali proprio come la Spagna.
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