La comunità ebraica a Castel Bolognese
di Maria Merenda
Tratto dalla tesi di laurea: La partecipazione del Consiglio comunale alla vita religiosa di Castelbolognese (1469-1796)
Anche a Castel Bolognese, come in altre località vicine, esisteva un tempo una comunità ebraica.
Da un documento del 1870 risulta l’esistenza di una giudecca, posta nel vicolo dei Giudei, che partiva dall’allora vicolo di S. Petronio (cambiato, poi, nel 1876, nella via Morini e che comprendeva anche la vecchia via Guazzabuglio) e sfociava nella piazza Fanti.
La prima notizia si ricava dagli archivi comunali e risale al 3 maggio del 1548, con la nomina, tra i magistrati, di “assunti deputati” a trattare una convenzione con loro, ma la loro presenza era già attestata nel Quattrocento.
Nel 1522 Raffaele di Faenza ricevette una concessione decennale per praticare il prestito nel nostro paese. In seguito, nel 1533 i fratelli Emanuel e Abramo di Giuseppe, qui residenti, ottennero, insieme a familiari e soci, una licenza valida sette anni per gestire un banco feneratizio al 30% annuo, nonché l’esenzione del segno distintivo e il godimento dei privilegi assicurati ai feneratori di Faenza e di altri luoghi della Romagna.
Nell’elenco degli ebrei che dovevano versare la vigesima al Papa figura nel 1535 anche “l’ebreo banchero de Castelbolognese” con 80 scudi.
La tesi di una vertenza nata con la Magistratura castellana trova conferma nella seduta del 18 maggio 1548, causata dalla cattiva condotta al banco di usura degli ebrei. Da allora tra le due comunità si aprì un dialogo proficuo e una serena convivenza, da portare alla conversione al cristianesimo di numerosi ebrei.
Il primo episodio risale al 1551, quando il predicatore quaresimale, padre Bonaventura da Mendola e alcuni consiglieri a ciò incaricati, si recarono ad ascoltare certa “Fiammetta figlia di Emanuello da Monselice”, che, assieme ad altri, aveva espresso la volontà di farsi cristiana.
Fiammetta, “adottata come figliola dalla Comunità”, come suo desiderio, ebbe una dote in danaro di 50 lire semestrali per due anni, di cui sarebbe entrata in possesso al momento del battesimo.
L’anno dopo fa cenno a certa Laura, che potrebbe essere il nome adottato da Fiammetta dopo la sua conversione.
Accettando la giovane come “figliola”, la Comunità si impegnava ad eleggere nel suo seno dei “curatori” o tutori, col compito di provvedere alle necessità non solo materiali ma anche spirituali della ragazza, compreso il compito di “maritarla a persona virtuosa e dabene”.
Così come era avvenuto per Fiammetta, lo fu anche per Rafaello di Josepho, battezzato col nome di Carlo il 22 ottobre 1564.
La figlia di questi non tardò a seguirne l’esempio. Infatti due giorni dopo in consiglio veniva discussa e accolta la sua richiesta di diventare figlia della Comunità. Il che portò alla decisione di farle una dote di 800 lire, che le sarebbe stata consegnata in età di marito, subordinata però al pieno gradimento da parte della Magistratura dell’uomo prescelto.
Il 9 novembre 1564 Maria Felice, un tempo ebrea, sposando Andrea Pallantieri, giovane castellano, ebbe come dono di nozze una “dozzina” di 4 corbe di grano e 32 lire annuali.
Negli anni a seguire, fino al 1770, si registrarono solo due ulteriori casi di elemosina: 20 soldi a un ebreo e a due turchi il 1’ aprile 1652, su attestazione delle loro “patenti” di fede e 3 paoli ai coniugi Valeri il 6 luglio 1770.
Le notizie sulla Comunità ebraica terminano nella seconda metà del XVI secolo. E questo perché Papa Pio V, con la Bolla “Hebraeorum gens” del 1569, ordinò che tutti gli ebrei dello Stato Pontificio fossero relegati nei due ghetti di Roma ed Ancona.
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