Camicie Rosse a Domokos
di Stefano Borghesi – tratto da “La Piè”, n. 4, luglio-agosto 1974
Il reclutamento
Il deputato repubblicano Antonio Fratti aveva letto a Forlì il proclama di Ricciotti Garibaldi per reclutare volontari (1). L’appello non poteva non trovare ascolto a Castelbolognese, dove tra i reduci dalle campagne risorgimentali si era costituito un “Comitato Pro Civiltà”. Ne era segretario Luigi Zappi, che fu tra i quarantaquattro volontari castellani accorsi a Mentana nel 1867. E’ nota la partecipazione di Castelbolognese a tutte le principali campagne del Risorgimento: fatto non comune, soprattutto in rapporto al modesto numero degli abitanti (2). Con la guerra greco-turca del 1897 se ne ebbe un’ulteriore conferma da parte delle più giovani generazioni. Occorre inoltre ricordare che la presenza di Ricciotti Garibaldi e di Amilcare Cipriani costituiva una grande forza d’attrazione sia per i repubblicani che per i socialisti, i quali in questa occasione sposarono in comune la “causa della civiltà “, che la lotta dei Greci riproponeva contro i Turchi oppressori di provincie irredente, contro il fanatismo e la barbaria delle loro leggi.
Giovanni Capra ed Ugo Silvestrini furono tra i primi a rispondere all’appello. Partirono con loro volontari per la Grecia Paolo Dall’Oppio, Paolo Lanzoni, Antonio Raccagna, Giovanni Tosi (3). Altri giovani aderirono, ma la loro partenza fu impossibile per i noti impedimenti frapposti dalle autorità. Nelle acque dell’Adriatico la guardia di finanza fermò una barca denominata “Felice Orsini”, il cui capitano era Serafino Santini di Fano. La barca era partita da Ravenna il 27 Aprile con a bordo quarantasette volontari romagnoli. Tra questi tre giovani di Castelbolognese: Ugo Diversi, Paolo Lama e il diciassettenne Marco Lanzoni (4).
La vigilia della partenza fu accesa, per diversi motivi: oltre alle difficoltà materiali connesse con l’organizzazione della spedizione, agli ostacoli politici, furono causa di inquietudine alcuni problemi di natura ideologica. Tra i socialisti romagnoli sorse il dubbio circa l’opportunità di entrare nella legione straniera filellenica, essendo per questo obbligatorio il giuramento di fedeltà al Re di Grecia. Il dubbio venne dissolto da una lettera inviata da Andrea Costa. “Dal punto di vista socialista – egli scriveva – voi non potete certo giurare fedeltà né al Re greco, né a qualunque altro re, come noi non dobbiamo giurare fedeltà ad Umberto di Savoia. Ma visto e considerato che, senza quel giuramento, non si entra in Montecitorio, noi giuriamo; e diamo al giuramento un significato di pura e semplice formalità… “. II socialista imolese invitava quindi i volontari a fare altrettanto: “Voi siete costì, come noi siamo là dei combattenti. Non si tratta di far dei plebisciti, ma di combattere per un’Idea ove la stessa Grecia monarchica consente. Ottenuto il fine (la cacciata del Turco, che purtroppo, pare, non si otterrà) voi tornerete liberi cittadini… “ (5).
La lettera, che non poté essere pubblicata, fu inviata da Andrea Costa all’imolese Ercole Tamburini che militò nella stessa compagnia dei volontari di Castelbolognese.
Il Tamburini, insieme con Giuseppe Raffaele Serrantoni, soprannominato “il monchino”, parti da Imola il 16 Aprile, sostando a Castelbolognese, ove gli imolesi presero accordi con i futuri compagni d’arme.
La mattina del 18 Aprile, alle 11, li raggiunsero a Brindisi Paolo Lanzoni, Antonio Raccagna ed Ugo Silvestrini. Insieme s’imbarcarono sulla “Cariddi” per Corfù, da dove proseguirono il viaggio per Atene, via Patrasso. Ad Atene avvenne l’incontro con gli altri castellani: Capra, Dall’Oppio e Tosi.
Il corpo delle Camicie Rosse organizzato da Ricciotti Garibaldi era composto di quattro battaglioni. Il primo battaglione era sotto il comando di Luciano Mereu, antico ufficiale garibaldino e fu suddiviso in cinque compagnie. I castellani furono inclusi nella quinta compagnia comandata dal tenente Michelangelo Campanozzi di Catania. La loro presenza rimase viva nei ricordi di Ricciotti Garibaldi: “L’anima della 5a compagnia – egli scrisse (dimenticando tuttavia Antonio Raccagna) – era una indivisibile comitiva di Romagnoli (dei quali cinque erano di Castelbolognese), così allegri, così chiassosi, così gioviali che pareva – a sentirli cantare, ridere o scherzare tutto il giorno – che a una scampagnata andassero tutti insieme, non ad una pericolosa campagna di guerra” (6). Gli altri romagnoli militanti nella stessa compagnia erano: Ercole Tamburini di Imola, Ugo Bubani e Antonio Guerrini di Faenza, Egisto Gattamorta, Ugo Dolcini e Pirro Ricchi di Mercato Saraceno, Giovanni Cicognani di Ravenna.
La vigilia
Il 25 Aprile il 1° battaglione ricevette l’ordine di mettersi in marcia per Arta nell’Epiro, situata sul confine stabilito dalla Convenzione di Costantinopoli (22 Maggio 1881).
Sembrava che le Camicie Rosse dovessero essere impegnate in un’imminente azione di guerra, ma si limitarono a consolare con la loro presenza le truppe greche che da qualche giorno erano penetrate in territorio turco. Fino al 7 maggio le giornate trascorsero nell’ozio (gli “ozi di Arta”), finché giunse l’ordine di partire per Minidi. Successivo viaggio in piroscafo per Vonitza e di nuovo in partenza per Zaverda.
Gli spostamenti, i contrordini, facevano pensare a un deliberato temporeggiamento. Nelle alte sfere politiche greche si guardava con una certa diffidenza alle animose milizie garibaldine per il pericolo che la loro presenza poteva costituire sul piano diplomatico, mentre le truppe erano più disposte a familiarizzare con i volontari italiani. La lentezza delle operazioni, d’altra parte, si spiega con l’incapacità dello Stato maggiore di organizzare un’efficace piano d’azione contro il nemico.
Tuttavia non mancava, specialmente tra i romagnoli, chi si prestasse a fare buon viso a cattiva sorte. Ecco, ad esempio, una tappa del viaggio nel racconto degli imolesi Tamburini e Serrantoni: “La marcia da Vonitza a Zaverda fu divertentissima. Una parte della legione era a cavallo e su carrozzelle, altri a piedi, tutti dispersi. Appena giunti trovammo pronto un buon pranzo preparatoci da Dall’Oppio e Raccagna che ci avevano preceduti “ (7).
Intanto i Turchi sotto l’alto comando di Edhem Pascià, istruiti da tempo da una missione tedesca, si rafforzavano nella pianura di Tessaglia dove ormai era prevedibile lo svolgimento dell’azione decisiva.
Il 12 maggio il 2° e il 3° battaglione con Ricciotti Garibaldi (il 4° battaglione comandato dal colonnello Federico Gattorno non fece in tempo a raggiungere il teatro delle operazioni) iniziavano una lunga marcia turbata dai contrordini del Comando greco e dalle proteste a stento contenute dei legionari che temevano di vedersi esclusi dall’azione. Nello stesso giorno la colonna di Mereu, dopo un incontro affettuoso con i legionari di Bertet (che ripartirono per Arta), ricevette l’ordine di portarsi a Domokos dove arrivò la mattina del 15: fu un viaggio estenuante, appesantito nelle ultime ore da una fitta pioggia che rendeva impraticabili le strade. Contemporaneamente gli uomini di Ricciotti Garibaldi raggiunsero gli avamposti di Dranitza, che si riteneva fossero attaccati per primi. Il colonnello Mereu ed altri comandanti si recarono da Ricciotti Garibaldi per ricevere istruzioni. Fu dato l’ordine di portare il 1° battaglione da Domokos a Dranitza il giorno 16 o al più tardi all’alba del 17. Invece, per un equivoco, all’ordine non fu data immediata esecuzione e i combattenti del 1° battaglione non fecero in tempo ad unirsi al resto del corpo garibaldino, rimanendo a Domokos, il giorno 17, quando i Turchi sferrarono l’attacco contro le posizioni greche al centro (Domokos), a destra (Trachtma) e a sinistra (Dranitza), nel tentativo di accerchiarle.
La battaglia
Domokos (l’antica “Thaumakoi”, la città dello “stupore”) sorge a circa 500 metri d’altitudine sormontata da un forte che guarda giù nella grande piana di Farsala. A destra e a sinistra i contrafforti degli (Othrys), su uno dei quali è ritirata Domokos stessa.
Nelle prime ore della mattina del 17 maggio i Turchi si misero in movimento contro le posizioni greche intorno a Domokos: erano i 5000 uomini della brigata di Islam Pascià, armati di modernissime carabine “Mauser” e forti della loro superiorità numerica. Ecco una testimonianza dei protagonisti: “Ci svegliammo la mattina del 17 quando l’esercito turco era già in vista ed una grande agitazione regnava a Domokos. Le botteghe venivano chiuse e gli abitanti si disponevano a fuggire; tutti avevan poca fiducia nell’esercito greco e ritenevano inevitabile una disfatta” (8).
Seguendo l’indicazione di un ufficiale ellenico le Camicie Rosse si portarono sul monte ov’era la batteria greca ed occuparono una trincea scavata in posizione di avanguardia sul fianco della strada che seguiva lo sprone del monte stesso. Frattanto, in assenza del colonnello Mereu che s’intratteneva ancora presso Ricciotti Garibandi e il grosso delle truppe, assunsero il comando il tenente Antonio Mosca ed Amilcare Cipriani che aveva raggiunto da poco gli uomini di Mereu e divenuto capo improvvisato per loro stessa richiesta.
In trincea il morale era alto; lo rendevano tale la presenza di Cipriani e il buon umore di chi non si lasciava impressionare dall’inarrestabile avanzata dei Turchi, che sbucavano dal fondo della pianura. Ce lo racconta Teodoro Monicelli, presente quel giorno nella trincea di Domokos: “Io aveva al fianco destro Michele Frappampina di Bari e alla sinistra Bellini di Comacchio. Frappampina aveva il saccapane pieno di grazia di Dio. Aveva ricevuto da casa del denaro e si era provvisto di tutto. Egli era un’anima buona e generosa, il mio compagno più caro della compagnia. Tirò fuori una bottiglia di cognac, ne bevve e poi la passò a me. Io la passai a Bellini, Bellini a Cappelli, questi al Capra, Capra a Pini e via dall’una all’altra bocca finché non fu finita. Egual sorte ebbero tutte le altre vivande del saccapane di Frappampina.
– Tanto – disse questi, oggi si decide ben altro – Pini aveva un cruccio. S’era portate con sé due galline prese chissà dove, due belle galline, unite ai piedi e vive ancora. Non sapeva darsi ragione di non poterle cuocere e mangiare. Le alzava sul fucile ben in alto e gridava – Invito a cena stasera chi resta!” (9).
Il destino volle che proprio Antonio Pini, un impiegato di Arezzo, fosse il primo a cadere nella trincea colpito in fronte da una scarica.
Il combattimento divampò ben presto in tutta la sua veemenza e dopo un quarto d’ora si ebbero le prime vittime tra le Camicie Rosse: due morti e due feriti. Poco più lontano dal Pini, cadde Giovanni Capra di Castelbolognese. Si tramanda che il Capra venisse colpito quattro volte da palle turche, ma che non desistesse per questo dall’esporsi, ed anzi gridasse: “Toti al mei, toti al mei!” (cioè “Tutte a me le pallottole”), finché un quinto colpo lo stroncò per sempre (10).
Tra i feriti lo stesso tenente Campanozzi, colpito gravemente al ventre. “La vista di quei due morti e di quei due feriti – scrive il Monicelli – produsse in noi un senso diverso di quel che ci avrebbe fatto in qualunque altra circostanza. Anzi che commuoverci e fremerne ne sentimmo come invidia. Si salutarono i caduti con degli evviva senza interrompere l’opera nostra”.
Un altro volontario di Castelbolognese, Paolo Dall’Oppio, nel corso del combattimento riportò una gravissima ferita alla gamba destra e riuscì a trovare riparo dietro un grosso macigno aiutato da Ugo Bubani di Faenza (11).
Fin dalle prime ore i Turchi incontrarono non poche difficoltà nella loro avanzata. La posizione alta da cui i garibaldini combattevano, senza timore di mettersi allo scoperto, recava il vantaggio di tener testa a forze di gran lunga superiori come quel avversarie. Ma inspiegabilmente il Comando greco impartì l’ordine di cessare il fuoco dalle posizioni di avanguardia. L’ingiunzione venne nel momento meno opportuno e le Camicie rosse non obbedirono subito convinte di essere in grado di rintuzzare l’attacco nemico con una resistenza prolungata. D’altra parte lo Stato maggiore aveva ricondotto a Domokos i carri con le casse di munizioni e fu necessario abbandonare la trincea per il venir meno dei mezzi di combattimento.
La ritirata
Al calar della sera iniziava la ritirata verso Domokos. All’uscita dalla trincea si doveva percorrere un tratto di altura scoperto e insistentemente bersagliato. Fu allora che si ebbe il maggior numero di perdite tra le file garibaldine ed Amilcare Cipriani rimase ferito. Cadde fra gli altri Ugo Silvestrini di Castelbolognese: un giovane trentenne, figlio di un volontario delle battaglie risorgimentali, uscito da poco dalle file dell’esercito col grado di Sergente di cavalleria. Sul suo corpo furono riscontrate ben sette ferite d’arma da fuoco.
Ezzelino Magli, studente di medicina di Bologna, assistente nell’ambulanza del 1° battaglione, lasciò questa testimonianza sulla sua morte: “ … Fu breve riposo, giacché essendosi scorto un altro ferito, il Silvestrini, che si dibatteva steso al suolo, si dovette subito raccoglierlo e trasportarlo, con l’aiuto di alcuni soldati greci, nella solita capanna. Ivi però, osservata l’abbondantissima emorragia ch’egli aveva subito per le numerose ferite, fu facile constatare, dolorosamente, la nessuna speranza di salvezza, né alcuna parola fu possibile raccogliere dal semispento labbro del commilitone morente.
Un medico greco (il direttore dell’Istituto antirabbico di Atene, se la memoria ben mi sorregge) estrasse al Silvestrini una palla che gli aveva lacerata l’arteria femorale di destra; ma, tanto, ogni tentativo era inutile, giacché il valoroso Silvestrini aveva cessato di vivere.
Noi non volevamo lasciare quel corpo esanime, in preda al nemico che più da vicino ora avanzava; lo adagiammo quindi su di un cavalcatura e lentamente risalimmo nella direzione di Domokòs.
La sera era già calata; l’oscurità si faceva intensa, e salendo per quel viottolo impraticabile, senza la conoscenza dei luoghi e senza l’aiuto di alcuno fu assai malagevole l’adempimento del nostro dovere.
In quel momento non potevamo sapere che altri numerosi morti e feriti giacessero dietro di noi e solo a notte inoltrata (di ritorno dall’avere, con l’aiuto dei conterranei del Silvestrini, depositato il corpo di lui in una cameretta attigua alla chiesa di Domokòs, ove già erano stati depositati Pini e Capra), solo allora, lassù a Domokòs, giunti al luogo di ritrovo dei garibaldini, venimmo a sapere che una squadriglia di volontari era nuovamente scesa alla trincea per il salvataggio degli altri feriti… “ (12).
In complesso grave risultò il bilancio delle perdite nelle file del 1° battaglione: su circa 130 combattenti dodici furono i morti e una trentina i feriti. Tra le altre vittime: Alarico Silvestri d’Amelia studente di matematica, Michele Frapampina, socialista, di Bari, Ettore Panseri, bergamasco, Alfredo Antinori, mazziniano, di Ancona, Pio Simoni, di Bassano Veneto, il diciassettenne Guido Cappelli di Milano, Filippo Bellini di Comacchio. Quest’ultimo impiegato socialista nell’Amministrazione delle Valli di Comacchio, si adoperò per il trasporto di Ugo Silvestrini, ma, ritornato in trincea, fu colpito da una scarica al petto.
I superstiti
L’incontro affettuoso dei superstiti a Domokos fu rattristato dalla notizia della morte di Antonio Fratti avvenuta nei pressi del villaggio di Kasimir, poco più a ovest di Domokos, dove il 2° e il 3° battaglione riuscirono a contrastare l’avanzata nemica. Ma al centro i Turchi avevano sfondato la linea rendendo a loro favorevole l’esito della battaglia. Il 19 maggio il governo greco ottenne l’armistizio. Anche per gli uomini della colonna Mereu era iniziata la ritirata. Nella notte stessa, tra il 17 e il 18, si portarono a Lamia dove poterono prestare anche qualche aiuto alla popolazione civile. Frattanto si erano perdute le tracce di Giovanni Tosi. Fu rivisto ad Atene, quando i legionari vi giunsero il 27 maggio. “Egli ci raccontò di essere partito la notte da Lamia con tutti i soldati fuggiaschi verso le Termopili, ed incontrata una carrozza con un signore, riuscì a salirvi e seguitò il cammino. Giunto ad un certo punto, preso dallo scrupolo di avere abbandonato i compagni, discese e rifece a piedi la strada che aveva percorso in carrozza, perdendosi fra le strette tessaliche. Giunto a Lamia si era imbattuto nella legione Garibaldi alla quale si aggregò” (13).
Si uni così alla comitiva dei romagnoli superstiti (anche Paolo Dall’Oppio era stato lasciato con i feriti), che attesero con altri l’arrivo ad Atene di Ricciotti Garibaldi per potersi congedare prima del rimpatrio.
Dopo due giorni si ripartì da Corfù per Brindisi. “Prima di andarcene ad ognuno di noi furono distribuite venti lire ed un pacco di sigarette. Così il governo greco ricompensava i volontari italiani di tutte le fatiche e degli stenti sopportati nella triste campagna” (14).
La notizia in patria
Nelle città d’origine dei caduti grande fu la commozione per le notizie giunte dalla Grecia ed in particolare per gli avvenimenti del 17 Maggio. A Castelbolognese nella domenica successiva ci fu una solenne commemorazione con larga partecipazione di popolo e di forestieri provenienti da altri luoghi di Romagna. Un lungo corteo sfilò attraverso le principali vie del paese: erano presenti, tra gli altri, la banda di Riolo venuta con l’intera Società operaia, i rappresentanti dei municipi di Imola e di Forlì, trentotto società con bandiera. Di fronte alla folla (oltre cinquanta donne del paese erano vestite a lutto) furono pronunciati sei discorsi, tra i quali venne apprezzata in particolare la commemorazione fatta dal dott. Umberto Brunelli (15). Il tutto si svolse in perfetto ordine, se si eccettua il comportamento di alcuni giovani lughesi i quali, al ritorno, arrecarono disturbo ad una festa religiosa che si svolgeva a Solarolo: si udì gridare tra le gente “Viva Fratti”, si pronunciò qualche parola ostile; la chiesa venne chiusa per precauzione, ma il focolaio si spense ben presto.
Il sindaco, in data 29 Maggio, inviava ad Enrico Capra, padre di Giovanni, questa lettera: “A nome del Consiglio Comunale esprimo alla S.V. Ill.ma, i sentimenti di profonda condoglianza per la perdita del ben amato Giovanni.
La commemorazione in Consiglio e quella pubblica fatta Domenica mostrano quanto sia e sarà vivo alla memoria di noi e di quelli che verranno il nome dei cari estinti. Il Consiglio ha decretato l’innalzamento di una lapide marmorea a ricordo del loro sacrifizio in vantaggio dell’idea della libertà e dell’indipendenza dei popoli: ma un monumento ben più perenne del marmo essi si sono innalzati nel cuore di ogni Italiano. Il saperli entrati nel tempio della Storia, dopo di avere cosi degnamente illustrato il nostro Paese, piccolo per territorio, ma grande per la sua gloria, valga a lenire in parte il dolore di lei e della sua famiglia”.
Il profilo di Giovanni Capra appare ben delineato in uno scritto di Umberto Brunelli pubblicato da Ricciotti Garibaldi:
“Era di razza. L’avo materno fu decapitato sulla piazza di Castelbolognese per ordine del Papa; l’avo paterno prese pure parte alle congiure e ai moti del nostro risorgimento.
Il padre Enrico e tutti gli zii, si paterni che materni sono stati Garibaldini: di questi uno, il capitano Raffaele Pirazzini, ufficiale del regio esercito, domandò nel 1867 l’aspettativa per correre a Mentana, dove rimase ferito.
Socialista convinto, carattere buono ed energico, egli sollecitò in ogni maniera dal Comitato l’arruolamento per la Grecia. Ad un amico che, salutandolo al momento della partenza, gli disse: E se non ci vediamo più? Ci troveremo all’inferno, rispose sorridendo Giovanni Capra. E partì.
Tutte le lettere da lui spedite dalla Grecia e riboccanti d’affetto per i suoi e per la fidanzata, rivelano lo sdegno suo per l’azione incerta del governo greco e il suo ardente desiderio del battesimo del fuoco.
E l’ebbe glorioso sugli spatti di Domokos, dove rimase fulminato da una palla in fronte.
La causa della civiltà ha avuto pochi militi più modesti e più risoluti di Giovanni Capra. Era nato a Castelbolognese il 16 Settembre 1865” (16).
II ritorno
I romagnoli con altri volontari ritornarono insieme a casa in treno da Brindisi. A Castelbolognese scesero anche gli imolesi Tamburini e Serrantoni dopo aver salutato i compagni che proseguivano per l’Alta Italia. “Il dispiacere di lasciarli – essi scrissero – fu rallegrato dagli abbracci delle nostre famiglie e degli amici che trovammo alla stazione. Ordinati in corteo, con musica ed associazioni cittadine, ci recammo a deporre una corona sul ricordo già dedicato ai valorosi Silvestrini e Capra morti a Domokos e di loro Serrantoni, a nome dei compagni reduci, disse poche parole di elogio e di compianto”(17).
I parenti poi si adoperarono in ogni modo per il recupero delle salme, ma senza risultato. Il sindaco comunicò ad Enrico Capra la risposta inviatagli dal Prefetto a conclusione delle ricerche:
“19 Agosto 1897 – Di seguito alla mia lettera del 12 Luglio scorso n. 389 comunico alla S.V. la seguente lettera diretta a S.E. il Presidente del Consiglio dei Ministri da S.E. il Ministro degli affari Esteri.
Mi pregio di informare l’E.V. che i cadaveri di Giovanni Capra e di Ugo Silvestrini secondo quanto mi riferisce il R. Ministro di Atene, sarebbero rimasti insieme ad altri, sul campo di battaglia ed è a supporsi che, dopo la ritirata dell’Esercito Ellenico per Lamia e la occupazione di Domokos per parte delle truppe turche quei cadaveri siano stati sepolti, per cura di quelle ultime, tutti alla rinfusa, in una fossa comune” (18).
Il 17 Maggio 1902, nel Cimitero Comunale da poco inaugurato, per iniziativa del Comitato cittadino “Pro Civiltà” venne eretto un monumento ai caduti di Domokos nel corso di una solenne cerimonia, alla presenza dell’oratore ufficiale, il deputato repubblicano Ettore Socci. (19).
(1) La guerra greco-turca del 1897 risvegliò il filo-ellenismo degli Europei (Byron e Santorre di Santarosa ne furono tra gli illustri precursori), che ancora una volta si concretizzò nella partecipazione alla lotta della Grecia contro l’Impero Ottomano. In modo particolare gli Italiani, impegnati nella conquista della libertà e dell’indipendenza, si trovarono a fianco dei Greci, in uno scambio di aiuto, in nome della solidarietà internazionale per i popoli oppressi, ispirata agli ideali del Romanticismo.
Greci ed Albanesi presero parte alla campagna del 1860 sotto il comando dello Zuccòli e furono pure presenti nella campagna del 1866, ed in Francia nel 1870-71. Nel 1866 oltre duemila volontari italiani e ottanta ufficiali si recarono nell’isola di Creta che era insorta, finché intervennero le potenze a ristabilire la pace. Ma fu una soluzione soltanto provvisoria; la questione si riaprì per i massacri compiuti nel 1894 contro le minoranze cristiane armene in Anatolia, ed in seguito a Costantinopoli, finché nel 1897, con l’insurrezione di Creta, la Grecia entrò in guerra contro la Turchia a difesa degli interessi cretesi. L’avvenimento suscitò viva emozione in Italia, dove studenti, operai, impiegati, vecchi patrioti andavano ad applaudire sotto le finestre dei consolati di Grecia, ad inneggiare alla “causa della civiltà”, con la quale veniva identificata la lotta contro la Mezza Luna. Mentre al Parlamento Felice Cavallotti salutava con accenti accorati la Grecia risorta ed Imbriani ripeteva al sultano l’epiteto di “assassino coronato” con cui l’aveva sdegnosamente apostrofato il Gladstone, il governo (ministero di Rudinì), stretto dalle esigenze diplomatiche, non poteva non nascondere il proprio imbarazzo.
L’Italia che nel 1882 aveva stipulato la Triplice Alleanza con Austria e Germania, si allineava con le grandi potenze. Queste, allo scoppio della guerra tra Greci e Turchi in Epiro e in Tessaglia, si dichiararono neutrali per mantenere l’equilibrio degli schieramenti internazionali sempre divisi sulla questione d’Oriente. Tutti cercavano di trarre profitto dalla debolezza cronica dell’Impero turco, mentre proprio allora la Germania effettuava una penetrazione economica in quel settore (nel 1899 la Deutsche Bank otteneva l’autorizzazione a costruire la ferrovia che doveva collegare Costantinopoli al golfo Persico). Pertanto il governo italiano faceva tutto il possibile per spegnere l’incendio, sequestrando i denari raccolti, ostacolando gli arruolamenti e gli imbarchi che si formavano dai porti dell’Adriatico.
I tentativi furono in gran parte inutili. La “Società dei reduci dalle patrie battaglie” con la collaborazione di studenti universitari, cominciò la raccolta di fondi che venivano rimessi a Marco Ranieris, presidente del comitato cretese in Atene. Si costituì pure in Roma tra i socialisti un comitato pro-Grecia. La partenza di Nicola Barbato per la Grecia e quella successiva di Amilcare Cipriani, colonnello della Comune di Parigi, furono causa di grande incitamento per i socialisti, che nella questione greca anteposero la questione nazionale a qualunque altra, quale premessa indispensabile per le conquiste economiche.
Passò all’iniziativa anche la “Consociazione repubblicana del Lazio”, che si rivolse ai deputati Antonio Fratti, Salvatore Barzilai ed allo scultore Ettore Ferrari. Tra non poche difficoltà venne organizzato un corpo di spedizione composto di circa 1323 uomini (inclusi i Greci), di cui venne affidato il comando al generale Ricciotti Garibaldi.
Si devono aggiungere i trecentocinquanta volontari comandati dal colonnello Bertet, che non voile mettersi agli ordini di Ricciotti Garibaldi, e la Legione Internazionale Filellenica comprendente pure una sezione italiana.
I complessi interessi di fronte alla questione d’Oriente impedirono alle potenze europee di intervenire efficacemente presso il sultano per ottenere un piano di riforme e prevenire così gli scontri con la Grecia. Questa, d’altra parte, nel 1897, attaccò la Turchia senza un’adeguata preparazione e venne rapidamente sconfitta. Nella pace successiva (settembre 1897) le potenze cercarono di non far subire alla Grecia i danni più gravi. Venne riconosciuta l’autonomia dell’isola di Creta, mentre la Turchia, rinunciando alla Tessaglia (già ceduta alla Grecia), si accontentò di una rettifica di frontiera a suo favore e di una riduzione dell’indennità di guerra.
La questione d’Oriente rimaneva tuttavia aperta ad ancor più gravi conseguenze.
(2) Vedi a questo proposito: G. EMILIANI, Manoscritti – Biblioteca di Castelbolognese. P. COSTA: Un paese di Romagna. Castelbolognese tra due battaglie (1797-1945), Imola, 1971. – O. DIVERSI, Le cronache castellane, Imola, 1972.
(3) Sui volontari castellani a Domokos: F. SERANTINI, Le Ricordanze in “Racconti”, a cura di G. MARAMOTTI Bosi, Bologna 1970. Garibaldini a Domokos in “La Pie” Luglio-Agosto 1958, pag. 153.
(4) Il documento relativo (a 12901)/1968) è presso il Museo del Risorgimento di Bologna.
(5) G.R. SERRANTONI – E. TAMBURINI, Alla campagna di Grecia. Aprile-Maggio 1897, Imola, Dai tipi della Lega Tipografica, 1897. Nel corso dello stesso anno il volumetto venne pubblicato una seconda volta senza il testo della lettera di Andrea Costa sequestrata (a pag. 7).
(6) RICCIOTTI GARIBALDI: La camicia rossa nella guerra greco-turca; 1897, Roma, Tipografia Cooperativa Sociale, 1899, pag. 207. Il nome di Antonio Raccagna non compare nell’elenco dei volontari riportato in appendice al volume. Ma lo stesso Garibaldi non esclude a possibilità di errori, soprattutto per la perdita delle carte dello Stato maggiore.
Ricciotti Garibaldi nacque a Montevideo da Giuseppe e dia Anita il 28-4-1847. Combatté a Bezzecca, Mentana, nei Vosgi e contro i Turchi nel 1897 e nel 1912. Morì a Roma nel 1924.
(7) G.R. SERRANTONI – E. TAMBURINI, op. cit., pag. 25.
(8) Ibidem, pag. 31.
(9) T. MONICELLI, Nel XXV anniversario di Domokos – 17 Maggio 1897-17 Maggio 1922, in “Il nuovo Giornale”, Firenze, 17 Maggio 1922.
(10) Ciò è confermato anche da MICHELE CAMPANA: II 40’ annuale della battaglia di Domokos – I due superstiti di Castelbolognese, nel “Corriere Padano”, 16 Maggio 1937. I due superstiti erano Antonio Raccagna (classe 1868), morto nel 1940 a Riolo Terme dove gestiva un forno e Giovanni Tosi (classe 1867), detto “e Mas-cì”, gestore del centrale “Caffè della Torre”, trasferitosi in seguito a Bologna e morto nel 1948. Paolo Dall’Oppio (classe 1858) e Paolo Lanzoni (classe 1872), morirono rispettivamente nel 1918 e nel 1924.
(11) Paolo Dall’Oppio è ricordato da A. Rossi, presente nel teatro della battaglia in qualità di giornalista: Alla guerra greco-turca. Aprile-Maggio 1897, Bemporad, Firenze 1897, pag. 176: “cadde gravemente ferito gridando – Viva l’Italia!”. Secondo una tradizione orale (che tuttavia non trova conferma) il Dall’Oppio sarebbe stato trasportato a spalla dal compaesano Paolo Lanzoni. A proposito di quest’ultimo vedi: P. COSTA: Una famiglia castellana: i Lanzoni, in “Studi e memorie su Castelbolegnese”, Imola, 1973.
(12) RICCIOTTI GARIBALDI, op. cit., pag. 192.
(13) G.R. SERRANTONI-E. TAMBURINI, op. cit., pag. 42.
(14) Ibidem, pag. 44.
(15) Umberto Brunelli (1861-1931), originario di Cesena, svolse con onore la professione di medico condotto a Castelbolognese. Partecipò attivamente alla vita politica militando nelle file socialiste. Fu eletto due volte deputato al Parlamento.
(16) RICCIOTTI GARIBALDI, op. cit., pagg. 207-208.
(17) G.R. SERRANTONI – E. TAMBURINI, op. cit., pag. 45.
(18) Le lettere citate appartengono alle carte di famiglia che le signore Alda, Rina ed Ernestina Scardovi di Castelbolognese, nipoti di Giovanni Capra, mi hanno permesso di consultare.
Quanto è stato scritto contribuisca a correggere l’errore riscontrato presso il Museo del Risorgimento di Imola, dove Giovanni Capra, ritratto in ovale, è indicato tra i volontari di quella città.
(19) Per una trattazione storicamente oggettiva della guerra greco-turca, vedi: L. LOTTI, I repubblicani in Romagna dal 1894-1915, Faenza, 1957.
(20) Le festose accoglienze riservate ai volontari al rientro in patria non furono certamente sufficienti a far dimenticare le amarezze e le delusioni provate nel corso di quell’infelice spedizione.
Perfino durante il viaggio di ritorno le autorità greche ebbero occasione di mostrare la loro diffidenza effettuando una rigorosa sorveglianza sulla rotta dei legionari. Si temevano forse complicazioni a livello diplomatico per possibili deviazioni verso altri lidi delle tormentate regioni balcaniche: il fatto è che da molte parti si nutrivano dubbi o infondati timori sulla disinteressata partecipazione di volontari ed i fatti accaduti prima e durante la spedizione lo dimostrano chiaramente.
Lo stesso governo italiano, che pure aveva osteggiato le partenze, non mancò di esprimere, a fatti compiuti, il proprio compiacimento per l’”eroico sacrificio” dei connazionali. Ma, scriveva “Il Romagnolo” in data 29 Maggio 1897: “ … Non vorremmo che quei poveri morti, che i feriti, che i volontari, offertisi per la difesa della libertà e perseguitati in patria dalla parte che vi spadroneggia, avessero a soffrire l’estrema ingiuria di vedere le loro fatiche ed il loro sangue sfruttati da quegli stessi che ieri li calunniarono e li avrebbero voluti bandire dal civile consorzio. Non sarebbe la prima volta che le cosi dette classi dirigenti hanno intessuta la loro storia dei sacrifizi e degli eroismi degli apostoli di piazza e della plebaglia che al dire de’ suoi stessi oratori improvvisati non ebbe mai uno slancio, né un’audacia …”
Non sarebbe stata certamente la prima volta! Nel 1937 le celebrazioni del 40° annuale della battaglia di Domokos fornirono l’occasione per un’esaltazione retorica del volontarismo romagnolo e per un’interpretazione arbitraria dell’avvenimento, tanto che qualcuno poteva scrivere, lasciandosi prendere la mano dagli entusiasmi ancor freschi dell’”impresa” etiopica: “Convien riconoscere, e i reduci ne fanno tuttora testimonianza, che oltre alla solidarietà per la Grecia, che si batteva per la propria indipendenza, un proposito schiettamente nazionale muoveva i reduci delle patrie battaglie e i giovani degli atenei e dei campi ad accorrere sotto le insegne garibaldine: quello di riabilitare la fama guerriera del nostro Paese dopo 1’infausta vicenda di Adua che aveva dato la stura a tanta malignazione straniera…” (A. VEDANI, Domokos in le “Vie del Mondo”, VI – 1937, pp. 648).
Contro queste affermazioni basti ricordare ciò che scriveva il foglio ravennate, sopra citato, nei giorni stessi della guerra greco-turca: “Gli italiani accorsi in Grecia sono andati ad affermare la loro fede di repubblicani e socialisti, ed a difendere, non a combattere 1’indipendenza di un popolo; essi hanno sentito il dovere di fare atto di solidarietà internazionale mentre i cannoni dell’Europa reazionaria furono rivolti al petto della madre comune e le corazzate italiane e dei nostri alleati compivano gli eccidi di Malaxa”.
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