La morte dei fratellini Virginia e Vittorio Bruni
La morte dei miei fratellini
Dal settembre 1944 la nostra famiglia, mia mamma e noi quattro fratelli di cui due gemelli (mio babbo era morto nel ’41), in presenza del fronte di guerra sul Senio, ha sfollato alla Marcona del Borello. Ci ospitarono i fratelli di mia nonna materna Maria che era invece sfollata a S. Pier Laguna. La famiglia Costa era composta da tre fratelli.
Il fratello maggiore Angelo era disabile per un infortunio ad una gamba e girava a fatica con un sussidio ortopedico, e quindi il capo famiglia era il secondogenito Domenico. Domenico aveva due figli, Paolo chiamato da tutti Palì, e Maria, (ora unica rimasta dell’intera famiglia). Angelo aveva una figlia, Ninetta da poco deceduta. L’altro fratello Giovanni era celibe.
Con la prima guerra mondiale era morto in guerra un altro fratello, Nicola.
La casa in cui abitavamo, situata a poche decine di metri dal Rio Sanguinario, era stata attrezzata nel tempo con due rifugi: uno scavato sotto una posta della stalla e protetto all’esterno da calastre della ferrovia e da terra e un altro scavato sulla riva destra dell’affluente del Rio Sanguinario. Questo aveva due uscite e fu una fortuna perché, nonostante fosse protetto dall’alta riva, una notte fu colpito e una uscita fu ostruita da una montagna di terra provocata dalla caduta della bomba. Potemmo quindi uscire la mattina successiva dall’altra apertura rimasta intatta.
Sulla sponda destra del Rio Sanguinario, riparata dai tiri diretti dell’artiglieria alleata, aveva sede il comando tedesco in molti rifugi scavati e arredati con molti mobili e tappeti: era veramente un labirinto di stanze, corridoi e attrezzato di tutto con bellissimo mobili sequestrati in zona.
Per quello che ricordo non ci furono grossi problemi con le truppe tedesche. Vi era una convivenza che io giudicavo normale.
La vita trascorreva abbastanza serenamente. I tedeschi ci rispettavano, molto probabilmente per l’ospitalità che ricevevano. Si trovavano spesso in casa e utilizzavano la cucina: il grande tavolo qui presente veniva utilizzato dai militari anche per pulire le loro armi.
Il 17 marzo del 1945, proprio in una occasione di queste, un militare, maresciallo, si fermò più a lungo. Rimase solo e pulito il mitra si avvicinò alla stufa accanto alla quale su una sedia sedeva una ragazzina di dodici anni Lia, membro di una famiglia, vicina di casa, composta da padre, madre e tre figli e che si trovavano spesso in casa con noi. La loro abitazione, molto vicina alla ferrovia, era ritenuta meno sicura. Questa teneva sulle ginocchia i miei due fratellini gemelli, Vittorio e Virginia, che non avevano ancora quattro anni.
Io ero seduto a lato del camino in un punto dove potevo vedere meglio il lavoro dei militari: il loro smontare, pulire e rimontare fucili, pistole e mitra. La ragazzina credendo che il militare volesse giocare con loro con tono scherzoso indicò ai miei fratellini il mitra: “Vedete che bel mitra ha!”
All’improvviso, senza proferire parola, il militare si avvicinò, appoggiò il mitra al petto di mio fratello e fece partire una scarica.
Si creò un silenzio particolare e subito dopo corsero dalla stanza attigua mia madre, mio fratello, la cugina di mia mamma Maria, le mogli di Domenico e Angelo e le vicine che stavano lavorando a maglia.
Mio fratello Vittorio, il primo esposto all’arma colpito al cuore morì subito. Le pallottole deviate dal corpo di mio fratello ferirono poi mia sorella ad una gamba e la ragazzina al polso e a una gamba.
Intervenne prontamente il comando tedesco che inseguì e arrestò il militare e provvide al trasporto all’ospedale di Imola su un side-car. Solo mia mamma accompagnò i due bimbi feriti. Fino alla fine della guerra nessuno poté andare a trovarli, data l’impossibilità di raggiungere Imola, anche se distante pochi chilometri, per i continui bombardamenti.
La ragazzina Lia dopo poco fu dimessa e andò ospite di una cugina a Imola. Ogni due giorni veniva prelevata dalla casa e riportata all’ospedale per la medicazione. Dice “Versavano solo dell’acqua sulle ferite e rifasciavano”. La ferita, curata in questo modo, si infettò tanto che le fu preannunciato la necessita del taglio sia della mano che della gamba. Per fortuna finì la guerra e il 14 aprile suo padre a piedi la venne a prendere da Imola e la portò all’ospedale di Castello dove fu curata da un medico alleato indiano. E solo con le sue cure guarì ed evitò l’amputazione.
Per mia sorella fu necessario il trasferimento dall’ospedale di Imola all’ospedale di Bologna per l’amputazione della gamba e dopo quaranta giorni, il 6 di maggio morì. Sapemmo della sua morte, finita la guerra, quando mia madre poté ritornare a casa su un camion militare.
Per quanto ricordo e per quanto mi è stato successivamente confermato, il graduato colpevole della strage era una persona molto taciturna, si aggirava per i campi quasi sempre da solo leggendo un libro religioso simile ai breviari dei sacerdoti e non aveva mai avuto atteggiamenti né pericolosi, né preoccupanti.
A fine guerra ci fu detto che era stato processato e condannato. Da notizie riportate su racconti scritti da persone locali si dice invece che il militare colpevole dell’eccidio fu trovato ucciso da una bomba: uno dice alla Serra, un altro dice a Casalecchio.
Mia mamma giunse a casa distrutta dal dolore, dalle sofferenze, dalle privazioni e dall’angoscia di non sapere niente dei propri familiari e di non avere nessuna notizia dato l’isolamento di quel periodo.
Apprese inoltre a casa della morte di suo fratello avvenuta nel faentino.
Tutto questo portò alla sua malattia, fu ricoverata in ospedale e dopo pochi giorni morì probabilmente di crepacuore.
Carlo Bruni
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