Scritti e memorie sulla Torre Civica di Castel Bolognese 3
Maria Landi
Un mattino fummo scossi da un grande tremore e da un botto tremendo. Un ordine infame aveva decretato la fine della torre civica, che troneggiava in fondo alla piazza. Qual era il vantaggio che l’esercito tedesco poteva trarre da questo gesto ignobile ? Quale fastidio poteva dare la torre, ferita, sbrecciata, ad un esercito male in arnese, in attesa soltanto che gli alleati varcassero il fiume e li spedissero via, a gambe levate ? Quali fossero state le cause che avevano decretato la morte della torre, ormai non importavano più. Non si poteva certo rimetterla in piedi.
Guardando verso i monti, ora vi era un grande vuoto, una grande luce, un grande spazio aperto fra due ali di case semidiroccate, un cumulo di macerie, come un tumulo funerario, dove prima stava il simbolo gioioso del nostro paese.
La torre era sorta quasi contemporaneamente alla nascita di questo Castello. Era nata per un atto d’amore e di difesa dei primi castellani, nei tempi bui del Basso Medioevo. Dopo tanti secoli, dopo tanti progressi, in un periodo più buio dell’antico Medioevo, qualcuno ne aveva decretato la morte, insieme al suo Castello.
Tratto dal libro “Un’infanzia nella bufera”, 1995
Tristano Grandi
La mattina del 4 febbraio 1945 i guastatori tedeschi ci avvertirono che, nel primo pomeriggio, avrebbero fatto saltare la Torre. Ci sembrava impossibile che quello che era stato il simbolo del nostro Paese, quella Torre che fu innalzata per difendere i cittadini dalle offese nemiche, perchè si ergeva al di sopra delle mura e permetteva alle scolte di scrutare il vasto orizzonte e dare l’allarme in caso di pericolo, dovesse essere abbattuta.
Ma la guerra nulla risparmia alle sue esigenze distruggitrici; i Tedeschi ne avevano decretato la fine. Nella mattinata ne minarono la base, poi avvertirono la popolazione affinchè fosse evacuata la zona circostante considerata pericolosa. Vennero anche all’Ospedale ad avvertirci, non perchè lo evacuassimo, ma perchè, uscendo, non ci esponessimo al pericolo della caduta di macerie o di proiettili lanciati lontano dalla esplosione.
Considerai che, rimanendo sotto il pronao dell’Ospedale, sarei stato al sicuro e, nello stesso tempo, avrei potuto vivere gli ultimi istanti dell’agonia della nostra amata Torre dalla quale, in tempi normali, uscivano i tocchi del campanone che, la mattina, chiamava i fanciulli alla scuola. Dall’ingresso dell’Ospedale vedevo, di fronte, la Torre ergersi al di sopra dei resti della Chiesa del Suffragio a un centinaio di metri di distanza.
Ero con un’altra persona la cui identità non ricordo. La Torre era, come sempre, maestosa; aveva sfidato e resistito alle insidie dei secoli ed ai recenti bombardamenti alleati; possibile che dovesse sparire? Sì, anche quella volta i Tedeschi vollero dar prova della loro capacità distruttiva.
Un sordo boato si espanse nell’aria. Mi sembrò che la Torre si afflosciasse su se stessa, poi si piegò. La sua cima, ancora illuminata dal sole, precipitava, dapprima con lentezza, poi sempre più velocemente, inclinata verso la montagna, mentre dalla base un immenso nuvolo di polvere saliva, quale onda immane, avvolgendo nel nulla i resti della vetta che precipitavano con fragore. Tutto rimase nascosto alla nostra vista dall’immenso polverone che si era innalzato. Quando quella cortina si dissolse, ci appervero i resti del lato destro del Palazzo Mengoni e, dove erano la Torre ed il Suffragio, si notava un alto cumulo di macerie che aveva ostruito la Piazza.
Tratto dal libro “Il servizio di pronto soccorso a Castelbolognese 1944-1945”
Domenico Minardi
Castèl vècc
La Tor l’an i è piò
u’ i amanca al fosci e i pisadùr
e teater u l’ha distròtt al bomb.
T’la vèia còva i’ha fat un merciapì,
Bascìanita de Gob un fa piò al cas
Neo d’Clodio un fêra piò i cavêl
i bruzèi in biastèma long e fiòm.
I Bagiùla i’ha finì al zardiniri,
Ceschi l’è sparì cun e landò
i burdèl i s’è invciè, i zuven i è vnù so,
ma in zuga piò a l’ombra dla su tor!
Se fos pusèbel fe averë un sogn,
avrèb truvë Castêl quand che babèn
aspitèma l’influêza par la crema
la Dmènga par cumprë n’a caramèla
Nadël al meliranz in t’la calzeta
Carnuvël prin’ baruslëz la faza:
e la voia la voia ed tot gni cösa
e la speranza d’arrivë un dè!
Ma… l’è un sogn ca l’ho da tnì par me!!
Castello vecchio. La Torre non c’è più/ mancano la fossa e i vespasiani,/ il teatro l’hanno distrutto le bombe./ Sulla via cupa hanno fatto un marciapiede,/ Bascìanita del Gobbo non fabbrica più le bare,/ Neo di Clodio non ferra più i cavalli/ e i birrocciai non bestemmiano lungo il fiume./ I Bagiòla hanno cessato con le giardiniere,/ Ceschi è scomparso con i landò./ I bimbi sono diventati vecchi e i nuovi sono cresciuti,/ ma non giocano più all’ombra della loro torre./ Se fosse possibile fare avverare un sogno,/ vorrei ritrovare Castello quando bambino,/ aspettavo l’influenza per mangiare la crema,/ la Domenica per comprare una caramella,/ Natale per le arance nella calzetta,/ Carnevale per dipingersi la faccia./ E… la gran voglia di tutte le cose/ e la speranza di poterci arrivare un giorno./ Ma…è un sogno che devo tenere per me!
Carlo Pirazzini
La Tor d’Castel
Dop ch’jèt fat una bastèja,
par suldé e cavalerèja,
la roca, e palaz pretori,
quâlca cà, un uratori
a atorn’atorna, in se d’fura,
al port, al fòsa e al mura;
ui manchéva incora un quèl,
a fel guinté un ver Castèl:
una tor par mèt’in vèta
i suldé a f’é da vedèta.
E fò acsè che in dò e dò quatar,
te mèl tarsènt nuvânta quatar,
e fò tolt la decisiô,
d’tiré sò, sta custruziô.
Trènt’èn dop, i l’alzè ‘cora,
pâr fé in mod che da là sora,
us’avdès se da là fura
i tintès, d’saltê al mura,
intré detr’a e paes
a fé sol dal bròt’impres.
Té mèl sèt zent utântasi,
par f’é un lavor ciumpì,
i mité al mâ te portafòi
a mètar sò un bèl arlòi,
cul campân e, e mutôr
da suné tot quant agl’ôr.
Acsè finì, l’era guèt
una perla d’monumèt
e pri zitadé d’Castél,
aprezé cum’è un giujèl.
L’èra èlta, forta e drèta,
finida be’ fen’in sla vèta;
l’era fata d’na struttura,
cugn’era gnìt c’ai fès paura;
l’as salvè dai fèt piò bròt,
intempéri e târamot,
e pareva che la gès:
“Sol al bomb a mal finès!”
INFATTI
De quarânta zech, che brot invéran
cun Castèl te mèz dl’inféran,
e dè di quàtar ed fabrer
la mâ vigliaca de stranier
de tedesch, in ritirata
ormai prosum a la sfata,
vers agl’ot ed la maténa
ui fasè scupiè na ména,
e che grand bèl monumèt
l’è crule’ in t’un mumèt.
Mò ac se sor’i là distròta,
sot’a tèra, la jè tòta;
al su radis al viv incora,
ed de fur’a n’al ved l’ora
al cheica da sot’a l’asfêlt,
par turné ancor’in êlt,
cun sperâza e tânta stèma,
d’turné grânda cum’è prèma.
La Torre di Castel Bolognese. Dopo aver fatto una bastia,/ per i soldati e la cavalleria,/ la rocca, il palazzo pretorio,/ qualche casa, un oratorio/ e attorno sull’esterno,/ le porte, i fossati e le mura,/ ci mancava ancora un qualcosa/ per farlo diventare un vero castello:/ una torre perché ci stessero in cima/ i soldati a fare la guardia.// Fu così che in due e due quattro nel milletrecentonovantaquattro,/ fu presa la decisione/ di erigere la costruzione.// Trent’anni dopo l’alzarono ancora/ perché dalla sua cima/ si vedesse se dall’esterno/ tentassero di saltare le mura,/ entrare dentro al paese/ e compiere delle brutte imprese.// Nel millesettecentottantasei,/ per fare un lavoro compiuto/ sobbarcandosi la spesa relativa/ applicarono alla torre l’orologio/ con le campane e il motore/ per farle suonare tutte le ore./ Così finita, era diventata/ una perla di monumento/ che dai cittadini di Castello/ era apprezzata come un gioiello.// Era alta, forte e dritta/ finita bene fino alla cima/ era fatta di una struttura/ che non c’era niente che le facesse paura;/ si era salvata dagli eventi più brutti/ intemperie e terremoti,/ e sembrava che dicesse:/ Solo le bombe mi possono finire.// INFATTI// Nel quarantacinque, in quel brutto inverno/ con Castello in mezzo all’inferno// il giorno quattro di febbraio,/ la mano vigliacca dello straniero/ del tedesco in ritirata,/ ormai prossimo alla disfatta/ verso le otto del mattino/ fece scoppiare una grossa mina/ e quel gran bel monumento/ crollò in un momento.// Ma anche se sopra è stata distrutta,/ sotto terra c’è ancora tutta;/ le sue radici vivono ancora/ e di venir fuori non vedono l’ora,/ e spingono da sotto l’asfalto/ per tornare ancora in alto/ con speranza e tanta stima/ di farla tornare grande come prima.
E Pass dal Caden
Cun puch mìtar d’difarèza,
a mitê strê, fra Joml’e Fêza,
sla via Emilia uj’è un paes
denuminê: CastèlBulgnes.
L’è e nô che ui dasè,
i bulgnis, quat ch’il fundé.
Dov cus ved pasènd adès,
un paes cl’armasta imprès,
l’era zirca ot-zent èn fà,
sol campâgna seza cà.
U’jera sol e pur cunfe’
fra imulis e fajnte’,
fat da do caden slà strê,
una gareta e un suldê
a badê e stê atèt
che i ledar e i brighèt,
i passes da e pòst ed blòc
e nò paghê gnac un bajòc,
ed che dazi ubligatori,
par intrê in te teritôri.
E fò quèl che par tent èn,
il ciamè: E pass dal cadèn.
Quat che par intrê a Castèl
us smitè d’paghê e balzèl,
d’cal cadèn d’travers dal strê,
i nà fat una gulpê,
i gl’à purtedi sò in cumô
atravers dé gunfalô.
Il Passo delle Catene. Con pochi metri di differenza,/ a metà strada fra Imola e Faenza,/ sulla via Emilia c’è un paese/ denominato: Castel Bolognese./ Questo è il nome che gli fu dato/ dai bolognesi quando lo fondarono./ Dove si vede, passando adesso,/ un paese che rimane impresso,/ c’era circa ottocento anni fa/ solo campagna e neanche una casa./ C’era solo il puro confine/ fra imolesi e faentini/ fatto da due catene poste sulla strada,/ una garitta e un soldato/ che guardava e stava attento/ che i ladri e i briganti/ non passassero da quel posto di blocco/ senza neanche pagare un soldo/ di quel dazio obbligatorio/ per entrare nel territorio./ Fu per quello che per tanti anni/ lo chiamarono: il Passo delle Catene.// Quando per entrare a Castello/ si cessò di pagare quel balzello/ di quelle catene che erano in mezzo alla strada/ ne hanno fatto una bracciata/ le hanno portate su in Comune/ e le hanno messe di traverso sul gonfalone.
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