Scritti di Marta Prelati
C’era una volta…
Il mio vecchio Castello non c’è più: il tempo e la guerra l’hanno sgretolato, distrutto. Ma se il tempo lo feriva lentamente, quasi con dolcezza, la guerra l’ha distrutto di colpo, con ferocia; se le ferite degli anni si potevano anche sanare, gli squarci della guerra l’hanno dissanguato. Che, se è possibile porre rimedio ad una lenta, anche se continua erosione dei giorni, non ci sono ripari per la frana che precipita impetuosa e tutto travolge. E con le cose sono stati travolti gli uomini: anzi, gli animi.
Era piccolo, ma ordinato e pulito, il mio vecchio Castello. Sembrava una di quelle costruzioni che le abili mani dei fanciulli sanno elevare quando ubbidiscono al prepotente e costante desiderio di “fare” sempre qualcosa. Forse perchè vi ero nata e cresciuta mi sembrava bello pur nella sua austera semplicità, armonico anche se di piccole dimensioni, tranquillo ma ugualmente funzionale.
Dagli antichi portici che gli donavano eleganza e dai lunghi viali che lo proteggevano nella calura estiva si sprigionavano sensi di storico, moderato orgoglio e di vera, riposante serenità; come dai campi che lo chiudevano in un cerchio di magica opulenza e dalle numerose chiese che lo rendevano quasi sacro scaturivano promesse di ricchezza e di grazie divine.Anche allora mi sentivo certa di non poterlo mai dimenticare: forse la vita mi avrebbe tolto di lì per gettarmi in un mondo che già intravedevo crudele e pronto solo ad annientare e a distruggere tutto ciò che di più bello e di più puro si ha nella mente e nel cuore, ma sentivo che avrei sempre provato tanta nostalgia e che ne avrei ricordato sempre le persone e le cose: quelle persone e quelle cose che la guerra ha travolto nella sua furia devastatrice.
Ora c’è un nuovo Castello più bello, certo, più moderno, ma freddo, mi pare, senz’anima; senza quell’immenso calore umano che avvolgeva e proteggeva, quasi, negli anni della mia giovinezza, con quella solidarietà che solo la miseria e la lunga convivenza quasi familiare sanno creare. Troppi nuovi elementi si sono mescolati alle caratteristiche castellane, e non sempre c’è stata fusione amalgamatrice per cui si nota come una stridente frattura tra mentalità, atteggiamenti e costumi di vita assai diversi. E’ un Castello rinnovato che non ha più nulla di caratteristicamente suo e che sta diventando uno dei tanti, ormai tutti uguali.
Il progresso fa di queste cose: dà comodità ma toglie personalità, tanto che si ha l’impressione di essere sempre allo stesso posto pur viaggiando ovunque. Così, quando torno a quello che chiamo ancora “il mio vecchio Castello” sempre più raramente, purtroppo, sempre più frettolosamente, per onorare i morti più che per parlare coi vivi, poche, pochissime cose mi vengono incontro, di quelle che fecero parte del mio mondo più sereno e più bello: gli antichi portici, i festosi viali, le chiese silenziose, i ruderi ancor più sbrecciati delle forti mura e dei torrioni austeri, e un poco, un poco soltanto, del grande, verde prato.
Ma sono proprio queste poche cose che mi riportano indietro nel tempo, a ricordare e ricostruire, con gli occhi della mente ciò che non c’è più; a rivivere, in una parola, con le persone ormai sparite assieme alle molte cose che i moderni Castellani non possono conoscere.
Tratto dal libro “Il mio “Castello”, 1972
La Torre
Come vigile sentinella la torre del mio vecchio Castello si elevava da un solido arco in mezzo alla piazza e stendeva la sua lunga ombra simile ad ala protettrice or su questa, or su quella casa.
Il grande orologio bianco che batteva le ore ed i quarti con un suono a tutti familiare e caro sembrava l’occhio di Polifemo quando ritto, immobile, a gambe aperte, scagliava le sue crude minacce ad Ulisse. In me, bambina che guardavo la torre dall’alto dei miei pochi anni, scaturivano sensi d’orgoglio, di sicurezza e di protezione, alla vista di tanta solidità. E la campana che suonava all’ora di andare a scuola, e il campanone che annunziava il mezzogiorno, e la campanella della dottrina, mi dicevano già che la torre era buona, che era di tutti, che avrebbe gioito con noi nei giorni di festa o ci avrebbe avvertito nell’ora del pericolo.
Ma altri sentimenti nascevano in me quando mi capitava di passare accanto alla torre ad una certa ora: la meraviglia alla vista di uno speciale meccanismo che si volgeva sotto i miei occhi incantati, ed il rispetto, misto a timore, per l’uomo che sapeva comandare a tutti quegli ingranaggi, perchè li aveva creati.
Si chiamava Giovanni Ravaglia, ma per noi Castellani era Gianni D’Ravaiol. Ancora la piazzetta dove si affacciava la sua casa porta il suo nome e non viene riconosciuta in altro modo. Era il nonno di un mio coetaneo e compagno di scuola; indossava pantaloni da tuta blù, una camicia con le maniche rimboccate ed aveva le mani stranamente sempre nere. Già: era un fabbro. Un fabbro però che lavorava con le mani, sì, ma di più col cervello: le mani per lui non erano che agili strumenti atti a realizzare le sue più avanzate intuizioni.
Ad un leggero tocco delle sue dita, al semplice movimento rotatorio di una manovella, s’apriva in alto, a fianco nella torre, una porta di ferro e scendeva, dall’apertura, una scaletta anch’essa di ferro, che si snodava fino a terra. Agile l’uomo saliva, saliva, si perdeva nell’interno come inghiottito da un drago vorace e intanto si sapeva che l’orologio avrebbe avuto la sua carica e che per tutte le ore del giorno e della notte ci avrebbe accompagnato col suo regolare suono. A lavoro terminato Gianni scendeva, la scala rientrava nella capace torre, la porta si chiudeva, lassù, e di tutta quell’operazione quasi irreale non restava che un rettangolo di ferro nero, incastrato fra le pietre corrose.
Dicevano, mio padre ed i suoi amici, che parecchi ingegneri dai lunghi studi, non erano riusciti a capire la dinamica di quel meccanismo. Questo aumentava ancor di più in me la considerazione per quell’artigiano, come sempre quando persone, fatti o cose potevano mettere in miglior luce il paese che amo ancora tanto.
La torre, già di per se stessa imponente, acquistava con quel meccanismo maggior valore e diventava un gioiello tale per cui, ai miei occhi ed al mio cuore di bambina, il mio Castello diventava ancor più prezioso.
E quando, più avanti negli anni, uscendo dalla stazione, scorgevo là, in fondo al viale, l’imponente struttura che chiudeva il verde binario aereo dei tigli, col colore più pacato dei vecchi, solidi mattoni, sentivo di essere veramente giunta a casa anche se quelle pietre che vedevo non erano ancora quelle di casa mia.
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