Scritti sulla Torre Archives - La Storia di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/category/torre/scritti-sulla-torre/ Mon, 14 Dec 2015 20:25:55 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.7.1 Maria Landi – La Torr https://www.castelbolognese.org/torre/scritti-sulla-torre/maria-landi-la-torr/ https://www.castelbolognese.org/torre/scritti-sulla-torre/maria-landi-la-torr/#respond Tue, 10 Sep 2013 17:54:55 +0000 https://www.castelbolognese.org/uncategorized/scritti-e-memorie-sulla-torre-civica-di-castel-bolognese-2/ (ascolta l’audio: La_Torr.mp3  628KB) Un destino crudele ed una malvagità cieca hanno deciso della tua esistenza. Svettavi nel cielo, sopra le case, con la tua mole slanciata e leggiadra. Guardavi di lassù i paesani che svolgevano la loro esistenza ai tuoi piedi. Eri il simbolo della compattezza e della forza : nulla …

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(ascolta l’audio: La_Torr.mp3  628KB)

Un destino crudele ed una malvagità cieca hanno deciso della tua esistenza. Svettavi nel cielo, sopra le case, con la tua mole slanciata e leggiadra. Guardavi di lassù i paesani che svolgevano la loro esistenza ai tuoi piedi. Eri il simbolo della compattezza e della forza : nulla e nessuno, nel corso dei lunghi secoli, avevano potuto o voluto avere la meglio su di te. Eri il punto di riferimento al quale senza rendersene conto, ognuno guardava. Facevi parte di tutto quello che era il nostro paese.
Nessuno si meravigliava del tuo esistere : eri lì da sempre e da sempre ognuno ti trovava lì all’inizio della vita e lo accompagnavi fino alla fine dei suoi giorni. Col suono della campana che viveva con te, chiamavi a raccolta i bambini della scuola, avvertivi del pericolo che incombeva sul paese e sugli abitanti, davi l’estremo saluto a chi si incamminava nel suo ultimo viaggio. Poi ci fu quel triste giorno in cui fu decretata, con mentalità bieca, la tua fine e tu rovinasti al suolo, come tutto il paese.
Il paese risorse, ma tu no e noi da allora siamo un po’ più poveri.

La steva sempr’im pì ‘te’ fond dla piaza,
elta squadreda, fata d’pré d’na volta
ch’agl’iaveva ciapè e culor dè temp,
coti da è sol, carpedi dai giazon.
L’eva zencv-sizent enn, la nostra torr,
quand c’a la cnunsè mè, de’ trentanov.
Andeva a scola a e’ son d’la su campana,
“la dulurosa”
che la matèna agl’ i ott la scampanèva
l’ariveva una dona, la Panèna
cun una gran ciavtaza un po inriznida,
l’arveva un finistrì e cun una manvèla
la feva salté fura una scaltèna,
l’andeva sò e dop un queich minut,
e cminzeva e’ sturmì de’ campanon.
Nò baben c’a vnegna da la campagna,
c’a segna un po’ piò indrì d’quii de’ paes
a zarchegna d’arivé prèma d’agl’i ott,
par puté ster a vdé la cerimonia
d’la dona cl’a suneva e’ campanon.
Pù andegna d’corsa d’drì e’ Sufragi,
duv cl’era la funtana d’Ravaiol,
cl’a deva un aqua fresca e ruzinosa;
un um piaseva brisa e’ su savor,
mo andeva a bé listess a là in’te’ fond
detr’a che bus, scavé ‘te’ mezz d’la piaza.
E pù via, a la scola, guardend vers a la torr,
cl’aveva un grand arloi in s’dò fazéd,
vers la muntagna e vers a la valéda.
A j o impare ed cnosar i nomr’intigh,
guardend a e’ su arloi toti al maten.
Si enn, as sen vesti ques tot quent i dè.
Mè andeva a scola, lì la steva alè,
abadend a e’ su paes, stes sota d’lì,
prutizend i Castlen da là s’la veta,
cum che fa una ciòza cui pulsen.
L’aqua, e’ vent, al bufer, i taramòt,
gnint, in gnà mai fat gnint,
l’era rubosta com una muntagna.
Neca la guera cun granat e bomb
la ieva fat soltant un queich scurgon.
Parò un brott dè, poc prèma ch’finess l’inferan
i la minè ‘ti pi’ cun cativeria,
e cun un bott tremend la caschè zò.
L’era ormai premavira, i prem d’fabrer.
E’ mond l’era svarsé tott sora e sota.
La cativeria l’eva fat sparì t’un sgond
e’ segn piò bel de’ nostar por paes.
E turnet e’ bon temp dop un queich dè:
e’ rott e fo’ amasé pianè,  pianè,
al ca, al stré, al cis, i chemp spalté
i turnè a nova vita, i risurzè.
Mo par la torr, par veia dl’ignuranza…
…la su Pasqua l’a’ ancora d’arivé.

Stava sempre in piedi in fondo alla piazza,/ alta, squadrata, fatta di pietre antiche/ che avevano preso il colore del tempo/ cotte dal sole, screpolate dai ghiacci./ Aveva cinque-seicento anni la nostra torre/ quando la conobbi io nel trentanove./ Andavo a scuola al suono della sua campana/ la “dolorosa”/ che la mattina alle otto rintoccava./ Arrivava una donna la “Panena”/ con una grossa chiave arruginita,/ apriva un finestrino con una manovella,/ faceva uscire adagio una scaletta/ andava su e dopo qualche minuto/ cominciava lo stormir del campanone./ Noi bimbi che venivamo dalla campagna/ un po’ meno svegli di quelli del paese/ cercavamo di arrivare prima delle otto/ per poter stare a veder la cerimonia/ della donna che suonava il campanone./ Poi andavamo di corsa dietro il Suffragio/ dov’era la fontana di “Ravaiol”/ che dava un’acqua fresca e rugginosa./ Non mi piaceva affatto il suo sapore,/ ma andavo a bere lo stesso laggiù in fondo/ dentro quel buco scavato nella piazza./ E poi via, alla scuola guardando verso la torre/ che aveva un grande orologio su due facciate,/ verso la montagna e verso la vallata./ Ho imparato a conoscere i numeri romani/ guardando il suo orologio tutte le mattine./ Sei anni ci siamo viste quasi ogni giorno,/ io andavo a scuola, lei restava lì,/ badando al suo paese steso lì sotto/ proteggendo i castellani di là in cima/ come fa una chioccia con i suoi pulcini./ L’acqua, il vento, le bufere, i terremoti,/ niente, non le hanno fatto mai niente/ era robusta come una montagna./ Anche la guerra con granate e bombe/ le avevan fatto soltanto scorticature./ Ma un brutto giorno, poco prima che finisse l’inferno,/ la minarono ai piedi con cattiveria,/ e con un botto tremendo cadde giù./ Era ormai primavera, i primi di febbraio./ Il mondo era rovesciato sopra e sotto./ La cattiveria aveva fatto sparire in un secondo/ il segno più bello del nostro povero paese./ Tornò il bel tempo dopo qualche giorno./ Il rotto fu riparato piano piano,/ le case, le strade, le chiese, i campi devastati/ tornarono a nuova vita, risorsero./ Ma per la torre, per via dell’ignoranza…/ …la sua Pasqua deve ancora arrivare.

Tratto dalla raccolta “Pinsir in zirandla”, 1999

La Torre aveva due campane, una grande ed una piccola. La maggiore (la “Dulurosa”, quella che chiamava gli alunni a scuola), fu rifusa dopo la liberazione e collocata nel 1975 su un cippo all’angolo tra via Antolini e via Piancastelli.

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Scritti di Marta Prelati https://www.castelbolognese.org/torre/scritti-sulla-torre/scritti-di-marta-prelati/ https://www.castelbolognese.org/torre/scritti-sulla-torre/scritti-di-marta-prelati/#respond Tue, 10 Sep 2013 17:54:55 +0000 https://www.castelbolognese.org/uncategorized/scritti-e-memorie-sulla-torre-civica-di-castel-bolognese-4/ C’era una volta… Il mio vecchio Castello non c’è più: il tempo e la guerra l’hanno sgretolato, distrutto. Ma se il tempo lo feriva lentamente, quasi con dolcezza, la guerra l’ha distrutto di colpo, con ferocia; se le ferite degli anni si potevano anche sanare, gli squarci della guerra l’hanno …

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C’era una volta…

Il mio vecchio Castello non c’è più: il tempo e la guerra l’hanno sgretolato, distrutto. Ma se il tempo lo feriva lentamente, quasi con dolcezza, la guerra l’ha distrutto di colpo, con ferocia; se le ferite degli anni si potevano anche sanare, gli squarci della guerra l’hanno dissanguato. Che, se è possibile porre rimedio ad una lenta, anche se continua erosione dei giorni, non ci sono ripari per la frana che precipita impetuosa e tutto travolge. E con le cose sono stati travolti gli uomini: anzi, gli animi.

Era piccolo, ma ordinato e pulito, il mio vecchio Castello. Sembrava una di quelle costruzioni che le abili mani dei fanciulli sanno elevare quando ubbidiscono al prepotente e costante desiderio di “fare” sempre qualcosa. Forse perchè vi ero nata e cresciuta mi sembrava bello pur nella sua austera semplicità, armonico anche se di piccole dimensioni, tranquillo ma ugualmente funzionale.

Dagli antichi portici che gli donavano eleganza e dai lunghi viali che lo proteggevano nella calura estiva si sprigionavano sensi di storico, moderato orgoglio e di vera, riposante serenità; come dai campi che lo chiudevano in un cerchio di magica opulenza e dalle numerose chiese che lo rendevano quasi sacro scaturivano promesse di ricchezza e di grazie divine.Anche allora mi sentivo certa di non poterlo mai dimenticare: forse la vita mi avrebbe tolto di lì per gettarmi in un mondo che già intravedevo crudele e pronto solo ad annientare e a distruggere tutto ciò che di più bello e di più puro si ha nella mente e nel cuore, ma sentivo che avrei sempre provato tanta nostalgia e che ne avrei ricordato sempre le persone e le cose: quelle persone e quelle cose che la guerra ha travolto nella sua furia devastatrice.

Ora c’è un nuovo Castello più bello, certo, più moderno, ma freddo, mi pare, senz’anima; senza quell’immenso calore umano che avvolgeva e proteggeva, quasi, negli anni della mia giovinezza, con quella solidarietà che solo la miseria e la lunga convivenza quasi familiare sanno creare. Troppi nuovi elementi si sono mescolati alle caratteristiche castellane, e non sempre c’è stata fusione amalgamatrice per cui si nota come una stridente frattura tra mentalità, atteggiamenti e costumi di vita assai diversi. E’ un Castello rinnovato che non ha più nulla di caratteristicamente suo e che sta diventando uno dei tanti, ormai tutti uguali.

Il progresso fa di queste cose: dà comodità ma toglie personalità, tanto che si ha l’impressione di essere sempre allo stesso posto pur viaggiando ovunque. Così, quando torno a quello che chiamo ancora “il mio vecchio Castello” sempre più raramente, purtroppo, sempre più frettolosamente, per onorare i morti più che per parlare coi vivi, poche, pochissime cose mi vengono incontro, di quelle che fecero parte del mio mondo più sereno e più bello: gli antichi portici, i festosi viali, le chiese silenziose, i ruderi ancor più sbrecciati delle forti mura e dei torrioni austeri, e un poco, un poco soltanto, del grande, verde prato.

Ma sono proprio queste poche cose che mi riportano indietro nel tempo, a ricordare e ricostruire, con gli occhi della mente ciò che non c’è più; a rivivere, in una parola, con le persone ormai sparite assieme alle molte cose che i moderni Castellani non possono conoscere.

Tratto dal libro “Il mio “Castello”, 1972

La Torre

Come vigile sentinella la torre del mio vecchio Castello si elevava da un solido arco in mezzo alla piazza e stendeva la sua lunga ombra simile ad ala protettrice or su questa, or su quella casa.

Il grande orologio bianco che batteva le ore ed i quarti con un suono a tutti familiare e caro sembrava l’occhio di Polifemo quando ritto, immobile, a gambe aperte, scagliava le sue crude minacce ad Ulisse. In me, bambina che guardavo la torre dall’alto dei miei pochi anni, scaturivano sensi d’orgoglio, di sicurezza e di protezione, alla vista di tanta solidità. E la campana che suonava all’ora di andare a scuola, e il campanone che annunziava il mezzogiorno, e la campanella della dottrina, mi dicevano già che la torre era buona, che era di tutti, che avrebbe gioito con noi nei giorni di festa o ci avrebbe avvertito nell’ora del pericolo.

Ma altri sentimenti nascevano in me quando mi capitava di passare accanto alla torre ad una certa ora: la meraviglia alla vista di uno speciale meccanismo che si volgeva sotto i miei occhi incantati, ed il rispetto, misto a timore, per l’uomo che sapeva comandare a tutti quegli ingranaggi, perchè li aveva creati.

Si chiamava Giovanni Ravaglia, ma per noi Castellani era Gianni D’Ravaiol. Ancora la piazzetta dove si affacciava la sua casa porta il suo nome e non viene riconosciuta in altro modo. Era il nonno di un mio coetaneo e compagno di scuola; indossava pantaloni da tuta blù, una camicia con le maniche rimboccate ed aveva le mani stranamente sempre nere. Già: era un fabbro. Un fabbro però che lavorava con le mani, sì, ma di più col cervello: le mani per lui non erano che agili strumenti atti a realizzare le sue più avanzate intuizioni.

Ad un leggero tocco delle sue dita, al semplice movimento rotatorio di una manovella, s’apriva in alto, a fianco nella torre, una porta di ferro e scendeva, dall’apertura, una scaletta anch’essa di ferro, che si snodava fino a terra. Agile l’uomo saliva, saliva, si perdeva nell’interno come inghiottito da un drago vorace e intanto si sapeva che l’orologio avrebbe avuto la sua carica e che per tutte le ore del giorno e della notte ci avrebbe accompagnato col suo regolare suono. A lavoro terminato Gianni scendeva, la scala rientrava nella capace torre, la porta si chiudeva, lassù, e di tutta quell’operazione quasi irreale non restava che un rettangolo di ferro nero, incastrato fra le pietre corrose.

Dicevano, mio padre ed i suoi amici, che parecchi ingegneri dai lunghi studi, non erano riusciti a capire la dinamica di quel meccanismo. Questo aumentava ancor di più in me la considerazione per quell’artigiano, come sempre quando persone, fatti o cose potevano mettere in miglior luce il paese che amo ancora tanto.

La torre, già di per se stessa imponente, acquistava con quel meccanismo maggior valore e diventava un gioiello tale per cui, ai miei occhi ed al mio cuore di bambina, il mio Castello diventava ancor più prezioso.

E quando, più avanti negli anni, uscendo dalla stazione, scorgevo là, in fondo al viale, l’imponente struttura che chiudeva il verde binario aereo dei tigli, col colore più pacato dei vecchi, solidi mattoni, sentivo di essere veramente giunta a casa anche se quelle pietre che vedevo non erano ancora quelle di casa mia.

Alcuni reperti recuperati dalle macerie della Torre: la lancetta piccola dell’orologio, parte della campana piccola e alcuni ingranaggi dell’orologio. Tali reperti sono conservati presso il Museo Civico di Castel Bolognese

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Scritti e memorie sulla Torre Civica di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/torre/scritti-sulla-torre/scritti-e-memorie-sulla-torre-civica-di-castel-bolognese/ https://www.castelbolognese.org/torre/scritti-sulla-torre/scritti-e-memorie-sulla-torre-civica-di-castel-bolognese/#respond Tue, 10 Sep 2013 17:54:54 +0000 https://www.castelbolognese.org/uncategorized/scritti-e-memorie-sulla-torre-civica-di-castel-bolognese/ Armando Borghi Di notte ho visto Castello Venni di notte, qual ladrone, o matto, A destar morti e a salutar Castello, E lo trovai – non più sfatto o rifatto – Tal qual mi era rimasto nel cervello. Tutto era cieco ed io tutto vedevo, Tutto era muto e assai …

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Armando Borghi

Di notte ho visto Castello

Venni di notte, qual ladrone, o matto,
A destar morti e a salutar Castello,
E lo trovai – non più sfatto o rifatto –
Tal qual mi era rimasto nel cervello.

Tutto era cieco ed io tutto vedevo,
Tutto era muto e assai il cor mi strinse.
Sonnambulo d’ amor io mi credevo…
Ma “un solo punto fu quel che mi vinse”.

Quando sentii il campanon di piazza
Batter le tre di notte, e la Campana,
Commemorando suon di antica razza,
Chiamarmi a scuola, fu per me una diana.

Subito venni in me: sì, era Castello!
Di tutti i morti vidi il viso caro;
Ma della Torre invan cercai l’ostello…
E me ne andai col viso triste e amaro.


Dopo letto “I territori di Castelbolognese” di Oddo Diversi

Se fosse dato all’attimo che muore,
di confessar le picciol cose ai vivi,
le cose che s’addormono nel cuore
e si ridestan della mente privi

Se fosse data a me l’ultima voce,
di chi si imbarca col signor Caronte
– come supposto fu di Cristo in croce –
credo domanderei scavarmi un ponte

Dove la Torre fu per lunga età,
e lì, a Castel, posar la stanca fronte
coi morti tutti della libertà…
de essa madre di una sola fonte

Chissà se nonna mia santa davvero
là sotto non trovasse “è su burdel”
tornando dal vicino cimitero
per rivedere insieme è “vec Castel”


 La Torre assassinata

Dedicata  a  FRANCESCO SANTANDREA
(Frazchin), per ringraziarlo di avermi man-
dato  la  foto  della  Piazza  di  Castel   Bolo-
gnese,  del  tempo  in  cui  non  era  stata di-
strutta  (dai tedeschi)  la  Torre  medioevale
che rendeva  pittoresca la piazza del piccolo
borgo che mi vide nascere. 

Caro Frazchin, la “Torre” mi ridesta
la lieta età di quando dai voltoni
miravo, in apprensione incerta, o in festa,
il cielo popolato di rondoni.

Fischi assordanti udivo in alto e intorno,
dai nidi della Torre e sui piazzali,
sveglianti i castellani al far del giorno
e ricamando il ciel d’aperte ali.

Francesco, “Patria è il Mondo”, è un detto forte;
ma l’esperando della fanciullezza
è un’antenna del cor fino alla morte:
un “bel” non nega il bel d’altra certezza.

E quella Torre nostra assassinata,
sai tu Frazchin cos’altro mi ridesta?
(nonna Luziina, anima beata,
me lo diceva, in pianto non in festa):

Fu accanto a lei che al tempo del Mastai,
la ghigliottina insanguinò il selciato . . .
Povera Torre, ell’ebbe i tristi guai
di segnar l’ora al boia del papato.

E’ Lì, ove cadde il grande Pirazzini
(il nome suo il giovane non sa!);
lì, quei Loyola, ignobili assassini,
credettero di ammazzar la libertà

ROMA 20 luglio 1960


Francesco Serantini

Vaghe stelle dell’Orsa, guardie dei piloti, nel cielo del mio paese voi stavate a picco sopra la torre. Adesso, la torre non c’è più… Quante volte, guardando le tue pietre nere per il tempo, mi sono detto che avresti seppellito anche me, viceversa sei morta tu, ti ho vista io in polvere: pulvis et cinis e adesso non so se sarò buono di ritrovare le stelle dell’Orsa.

Tratto da: Le ricordanze


E la torre, la torre che era in piazza e aveva non so mai quanti secoli e non c’è più perché i tedeschi ci misero sotto una carica di tritolo e buonanotte la torre. Nicola liutaio ci ha fatta una passione. Essa era l’ingresso dell’antico castello…
Ne hai vedute di vicende, vecchia torre, in tanti anni che sei stata su e io delle volte guardandoti pensavo che tu avresti seppellito anche me come gli altri castellani, viceversa sei partita tu, ti abbiamo seppellita noi. Col tuo orologio tu scandivi le ore delle nostre notti quando facevamo infinite volte il giro delle mura a discutere e a contare i fatti; le discussioni andavano dalla politica alle donne alla filosofia e mai che fossimo buoni di farle pacatamente, macchè, ci scaldavamo subito ed erano grida e accenti concitati, senza un po’ di rispetto per i cristiani che dormivano.

Tratto da:Le rimembranze

Le macerie della Torre

Le macerie della Torre

Angelo Donati

Foglie morte

Caddero le foglie disperse
dal tramontano feroce
mosso dal soffio di morte.
Son tornato, o rimasto, non so
abbarbicato com’edera
alla torre quadrata
da l’occhio di vetro,
tracciante, nel volger del tempo,
le rughe sul volto de l’uomo.
Son rimasto con l’anima folle
legato, a catena di tempo,
al ponte levatoio:
ho vissuto in altre epoche
e son tornato a ritroso,
calcando degli avi le orme,
a viver nel picciol quadrato
fra merli e bastioni,
a sognar con l’acciaro il mio passo,
ne le notti di veglia.

Io qui son vissuto: una chiesa, un campo
d’arma, un fossato, una fortezza
e sovra il fossato il bel ponte
dal gonfalon selvaggio.

Ampio fossato ed a guardia
te o torre di pietra,
cuor palpitante col suono
a gioia, a stormo, a morte,
col nostro cuore
bruciante libertà.
Volto accigliato e materno
ne la corsa;
ghirlande di rondini in volo
stridenti a sera l’addio,
fila di rondini in concerto
ne l’alba rugiadosa:
sorelle bianconere,
in partenza
nel pallido autunno che avanza.

Tratto da “I canti della mia terra”

Torre

Batte l’antica torre
i lenti singulti che segnano
l’avanzar della morte
sul nostro cammino.

Spalanca la grande pupilla
di vetro
su la piazza
ove i distruttori giganti
rombano sinistramente.

Un colpo l’ha destata
dal lungo letargo di secoli:
ha rabbrividito
ne le carni di pietra
ritrovando
un antico servaggio.

Poi, più forte,
nel vuoto notturno,
su macchine di guerra addormentate,
s’ode
il suo ultimo singulto,
il suo crollo.

Novembre 1943

Tratto da: “E l’allodola cantò. Rimembranze serene”


Enrica Giarnieri Bolognini

Fra noi, creatura viva

Un arco sulla terra
poi
ancora
pietra su pietra
perché regnasse sovrana oltre le case
i comignoli
nel cielo
incoronata di voli.
Le diedero voci di campane
un cuore nudo, luminoso nella notte
e più grande della luna
su cui, dall’aurora cosciente
sino al tramonto
si posavano gli occhi degli uomini.
Nei secoli, lunghe catene di sangue
l’imprigionarono d’amore e di dolore
in quell’andare e venire sotto il suo arco
attorno ai suoi fianchi saldi
di pietra.
La credevamo eterna
ma fra i vinti e i vincitori
fra noi inermi, in mezzo alle battaglie
il grande corpo
la torre dominatrice
divenne una montagna torturata
entro cui era sepolto un cuore
(il cuore del nostro tempo)
spenta una voce.
Al frastuono della sua morte
rispose, alto, un solo grido!

In questo mio ritorno,
fra case dai volti nuovi
guardo il libero orizzonte
e attendo sulla piazza deserta
che mi appaia la luna
più piccola di quel grande cuore.
Con la luna ritornerà la sua ombra
perché, simbolo vivo
più vivo della nostra carne
noi l’abbiamo sepolta
nell’infinito cimitero del passato.

Tratto da: “La voce del girasole”

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Scritti e memorie sulla Torre Civica di Castel Bolognese 2 https://www.castelbolognese.org/torre/scritti-sulla-torre/scritti-e-memorie-sulla-torre-civica-di-castel-bolognese-2/ https://www.castelbolognese.org/torre/scritti-sulla-torre/scritti-e-memorie-sulla-torre-civica-di-castel-bolognese-2/#respond Tue, 10 Sep 2013 17:54:55 +0000 https://www.castelbolognese.org/uncategorized/scritti-e-memorie-sulla-torre-civica-di-castel-bolognese-3/ Ubaldo Galli L’antica Torre si indora ai raggi del sole cadente, i rondoni stridono ed intrecciano voli attorno “ai suoi fianchi saldi di pietra”, suoni di campane richiamano i castellani entro le mura, mentre il faccione rosso di una luna agostana sale all’orizzonte. Voltata l’ultima pagina e chiuso il libro …

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Ubaldo Galli

L’antica Torre si indora ai raggi del sole cadente, i rondoni stridono ed intrecciano voli attorno “ai suoi fianchi saldi di pietra”, suoni di campane richiamano i castellani entro le mura, mentre il faccione rosso di una luna agostana sale all’orizzonte.

Voltata l’ultima pagina e chiuso il libro vale la pena alzarsi e fare quattro chiacchiere in compagnia di tanti amici e conoscenti incontrati dopo un’eternità. L’arrivo della primavera ci invita fuori porta e a volgere i nostri passi verso: “Un viél d’arziprèss ch’l’è armast quel ch’l’era / trama e’ su verd e’ va a pulèr i uslèn / che ciacarend i ciama i vecc castlèn / e i diss a tott: durmè, durmè ch’l’è sera”.

Castêll

Dov che cunfêna e’ bulgnés cun e’ ravgnân,
mo sèmper in teritori rumagnol,
a la distanza d’una pissêda d’can,
cun atoren e’ paisên d’Ariôl,
la tèra faintêna cun Tibân
e a mèzanott la gran zitê d’Slarôl,
u i è una burghêda o mei paes
che porta e nô’ glurios d’Castèlbulgnes.

L’è famos in tott e mond pr’i brazadèll,
par la Tôr ch’i à fatt la schela nôva,
pr’al birichinêd d’i su burdêll
e pr’e’ bèl sôn d’i viulên d’Nicôla.

Castêll l’è e’ mi paes ! E aquè cuntent
a camp cun la mi dôna e i mi burdêll,
a zerch e d’ster in pês cun tota la zent
fèna a ch’è dè ch’us dis : adio, fradêll !

L’è bèl e’ mi’ paes ! Al degh cun tott e’ cor,
cun al su stesi d’grân e la campagna in fior.

‘T’e’ fond l’a Mont Mavôr,
in elta, piò luntana,
la spèca incontr’ e’ zil
la gran crôs e d’Runtâna.
E’ fiôn e corr a val e us snoda cumè un sarpent,
stramèz a toti al cann
cum che sburdèla e’ vent.

Dal mura, quatter turiôn
e d’verd incurnisê,
e i tiglio che i udôra
par totta la cuntrê.

L’Emiglia l’al trapassa
cumè una speda intiga
e la porta a Fenza e a Iomla
e’ frutt dla su fadiga.

Dal stradlìni pini d’sol.
Ai chent dal su burdèli
l’arspond d’int al piantè
una vulê d’sturnèli.

‘T la pés d’i dop mazdè
us sent cantê i usèll,
e’ strider d’una bròza,
e’ sbatter d’i martèll.

E pre’ i è tott fiurì
e ui corr insò i babên,
al mami, ch’al lavora,
al rid cun i piò pznên.

La Tôr avstida d’or
dai rèzz d’e’ sol ch’va zò,
i zugh d’i rundon ch’vola
i invida guardê sò.

Campân ch’al ciama a ca’
la zent incora fura :
us liva sò la lona
int’l’aria ch’la s’imbura.

Castello – Dove confina il bolognese con il ravegnano,/ ma sempre in territorio romagnolo,/ alla distanza di una pisciata di cane,/ con attorno il paesino di Riolo,/ la terra faentina con Tebano/ e a mezzanotte la gran città di Solarolo,/ c’è una borgata o meglio paese/ che porta il nome glorioso di Castel Bolognese.// E’ famoso in tutto il mondo per i bracciatelli,/ per la Torre a cui hanno fatto la scala nuova,/ per le birichinate dei suoi ragazzi/ e per il bel suono dei violini di Nicola.// Castello è il mio paese ! E qui contento/ vivo con la mia donna e i miei ragazzi,/ cerco di stare in pace con tutta la gente/ fino a quel giorno in cui si dice : Addio fratelli !// E’ bello il mio paese ! lo dico con tutto il cuore,/ con le sue distese di grano e la campagna in fiore.// Là in fondo c’è Monte Mauro,/ in alto, più lontana,/ spicca verso il cielo/ la grande croce di Rontana.// Il fiume corre a valle/ e si snoda come un serpente,/ in mezzo a tutte le canne/ come sdondola il vento.// Delle mura, quattro torrioni/ di verde incorniciati,/ e i tigli che odorano/ per tutta la contrada.// La via Emilia lo trapassa/ come una spada antica/ e porta a Faenza e a Imola/ il frutto della sua fatica.// Dalle stradine piene di sole./ Ai canti delle loro ragazze/ risponde dai vitigni/ una volata di stornelli.// Nella pace del pomeriggio/ si sentono cantare gli uccelli,/ lo stridio di un birroccio,/ lo sbattere dei martelli.// I prati sono tutti fioriti/ e ci corrono sopra i bimbi,/ le mamme, che lavorano,/ ridono con i più piccini.// La Torre vestita d’oro/ dai raggi del sole che va giù,/ i giochi dei rondoni che volano/ invitano a guardare in alto.// Campane che chiamano a casa/ la gente ancora fuori :/ si leva su la luna/ nell’aria che si oscura.//


Fausto Ferlini

Campan de mi paes

Cunzeért int l’aria int’un bèl dé d’abril
u s’asculteva e’ dé de Sabet Sânt,
che cunzert ch’u s pardéva so int’e zil
che me burdèl, oh! u m piaseva tânt!

Int’agli urécc aj’ho tot cvent chi sòn
al campân’d San Patrogni e’d San Frazchèn
e’ Sufragi, al surén,e’ campanòn
che adès l’è ataché ‘t’un pilastrèn.

L’era al campân di temp dla zuvantò,
l’era l’eté di sogn e dl’aligrea
l’era cl’eté ch’l’an turnarà mai piò.

Sol di bot chi sa tânt’d malincuneia
i sunarà da un campanil là so
cvand t’faré l’ultum viaz, par l’ultma veia

Campane del mio paese – Concerto nell’aria in un bel giorno di aprile/ si ascoltava il giorno di sabato santo/ quel concerto che si perdeva sù nel cielo/ che a me, ragazzo, oh ! piaceva tanto !// Nelle orecchie ho ancora tutti quanti quei suoni/ le campane di San Petronio e di San Francesco/ quelle del Suffragio, delle suorine e il campanone/ che adesso è appeso a un pilastrino.// Erano le campane del tempo della gioventù,/era l’età dei sogni e dell’allegria/ era quell’età che non tornerà mai più.// Solo dei rintocchi che san tanto di malinconia/ suoneranno lassù da un campanile/ quando farai l’ultimo viaggio, per l’ultima via. 

Le campane “e’d San Frazchèn”: un tempo suonavano dall’alto del campanile, oggi invece suonano da terra…

…dopo i recenti lavori suonano da un po’ più in alto, ma speriamo che un giorno possano suonare nuovamente dalla cima di un campanile.

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Maria Landi

Un mattino fummo scossi da un grande tremore e da un botto tremendo. Un ordine infame aveva decretato la fine della torre civica, che troneggiava in fondo alla piazza. Qual era il vantaggio che l’esercito tedesco poteva trarre da questo gesto ignobile ? Quale fastidio poteva dare la torre, ferita, sbrecciata, ad un esercito male in arnese, in attesa soltanto che gli alleati varcassero il fiume e li spedissero via, a gambe levate ? Quali fossero state le cause che avevano decretato la morte della torre, ormai non importavano più. Non si poteva certo rimetterla in piedi.

Guardando verso i monti, ora vi era un grande vuoto, una grande luce, un grande spazio aperto fra due ali di case semidiroccate, un cumulo di macerie, come un tumulo funerario, dove prima stava il simbolo gioioso del nostro paese.

La torre era sorta quasi contemporaneamente alla nascita di questo Castello. Era nata per un atto d’amore e di difesa dei primi castellani, nei tempi bui del Basso Medioevo. Dopo tanti secoli, dopo tanti progressi, in un periodo più buio dell’antico Medioevo, qualcuno ne aveva decretato la morte, insieme al suo Castello.

Tratto dal libro “Un’infanzia nella bufera”, 1995


Tristano Grandi

La mattina del 4 febbraio 1945 i guastatori tedeschi ci avvertirono che, nel primo pomeriggio, avrebbero fatto saltare la Torre. Ci sembrava impossibile che quello che era stato il simbolo del nostro Paese, quella Torre che fu innalzata per difendere i cittadini dalle offese nemiche, perchè si ergeva al di sopra delle mura e permetteva alle scolte di scrutare il vasto orizzonte e dare l’allarme in caso di pericolo, dovesse essere abbattuta.

Ma la guerra nulla risparmia alle sue esigenze distruggitrici; i Tedeschi ne avevano decretato la fine. Nella mattinata ne minarono la base, poi avvertirono la popolazione affinchè fosse evacuata la zona circostante considerata pericolosa. Vennero anche all’Ospedale ad avvertirci, non perchè lo evacuassimo, ma perchè, uscendo, non ci esponessimo al pericolo della caduta di macerie o di proiettili lanciati lontano dalla esplosione.

Considerai che, rimanendo sotto il pronao dell’Ospedale, sarei stato al sicuro e, nello stesso tempo, avrei potuto vivere gli ultimi istanti dell’agonia della nostra amata Torre dalla quale, in tempi normali, uscivano i tocchi del campanone che, la mattina, chiamava i fanciulli alla scuola. Dall’ingresso dell’Ospedale vedevo, di fronte, la Torre ergersi al di sopra dei resti della Chiesa del Suffragio a un centinaio di metri di distanza.

Ero con un’altra persona la cui identità non ricordo. La Torre era, come sempre, maestosa; aveva sfidato e resistito alle insidie dei secoli ed ai recenti bombardamenti alleati; possibile che dovesse sparire? Sì, anche quella volta i Tedeschi vollero dar prova della loro capacità distruttiva.

Un sordo boato si espanse nell’aria. Mi sembrò che la Torre si afflosciasse su se stessa, poi si piegò. La sua cima, ancora illuminata dal sole, precipitava, dapprima con lentezza, poi sempre più velocemente, inclinata verso la montagna, mentre dalla base un immenso nuvolo di polvere saliva, quale onda immane, avvolgendo nel nulla i resti della vetta che precipitavano con fragore. Tutto rimase nascosto alla nostra vista dall’immenso polverone che si era innalzato. Quando quella cortina si dissolse, ci appervero i resti del lato destro del Palazzo Mengoni e, dove erano la Torre ed il Suffragio, si notava un alto cumulo di macerie che aveva ostruito la Piazza.

Tratto dal libro “Il servizio di pronto soccorso a Castelbolognese 1944-1945”

4 febbraio 1945, crollo della Torre (ricostruzione inedita a cura di Lorenzo Presutti; cliccare sull'immagine per ingrandire)

4 febbraio 1945, crollo della Torre
(ricostruzione inedita a cura di Lorenzo Presutti;
cliccare sull’immagine per ingrandire)

Domenico Minardi

Castèl vècc

La Tor l’an i è piò
u’ i amanca al fosci e i pisadùr
e teater u l’ha distròtt al bomb.
T’la vèia còva i’ha fat un merciapì,
Bascìanita de Gob un fa piò al cas
Neo d’Clodio un fêra piò i cavêl
i bruzèi in biastèma long e fiòm.
I Bagiùla i’ha finì al zardiniri,
Ceschi l’è sparì cun e landò
i burdèl i s’è invciè, i zuven i è vnù so,
ma in zuga piò a l’ombra dla su tor!
Se fos pusèbel fe averë un sogn,
avrèb truvë Castêl quand che babèn
aspitèma l’influêza par la crema
la Dmènga par cumprë n’a caramèla
Nadël al meliranz in t’la calzeta
Carnuvël prin’ baruslëz la faza:
e la voia la voia ed tot gni cösa
e la speranza d’arrivë un dè!
Ma… l’è un sogn ca l’ho da tnì par me!!

Castello vecchio. La Torre non c’è più/ mancano la fossa e i vespasiani,/ il teatro l’hanno distrutto le bombe./ Sulla via cupa hanno fatto un marciapiede,/ Bascìanita del Gobbo non fabbrica più le bare,/ Neo di Clodio non ferra più i cavalli/ e i birrocciai non bestemmiano lungo il fiume./ I Bagiòla hanno cessato con le giardiniere,/ Ceschi è scomparso con i landò./ I bimbi sono diventati vecchi e i nuovi sono cresciuti,/ ma non giocano più all’ombra della loro torre./ Se fosse possibile fare avverare un sogno,/ vorrei ritrovare Castello quando bambino,/ aspettavo l’influenza per mangiare la crema,/ la Domenica per comprare una caramella,/ Natale per le arance nella calzetta,/ Carnevale per dipingersi la faccia./ E… la gran voglia di tutte le cose/ e la speranza di poterci arrivare un giorno./ Ma…è un sogno che devo tenere per me!


Carlo Pirazzini

La Tor d’Castel

Dop ch’jèt fat una bastèja,
par suldé e cavalerèja,
la roca, e palaz pretori,
quâlca cà, un uratori
a atorn’atorna, in se d’fura,
al port, al fòsa e al mura;
ui manchéva incora un quèl,
a fel guinté un ver Castèl:
una tor par mèt’in vèta
i suldé a f’é da vedèta.

E fò acsè che in dò e dò quatar,
te mèl tarsènt nuvânta quatar,
e fò tolt la decisiô,
d’tiré sò, sta custruziô.

Trènt’èn dop, i l’alzè ‘cora,
pâr fé in mod che da là sora,
us’avdès se da là fura
i tintès, d’saltê al mura,
intré detr’a e paes
a fé sol dal bròt’impres.

Té mèl sèt zent utântasi,
par f’é un lavor ciumpì,
i mité al mâ te portafòi
a mètar sò un bèl arlòi,
cul campân e, e mutôr
da suné tot quant agl’ôr.
Acsè finì, l’era guèt
una perla d’monumèt
e pri zitadé d’Castél,
aprezé cum’è un giujèl.

L’èra èlta, forta e drèta,
finida be’ fen’in sla vèta;
l’era fata d’na struttura,
cugn’era gnìt c’ai fès paura;
l’as salvè dai fèt piò bròt,
intempéri e târamot,
e pareva che la gès:
“Sol al bomb a mal finès!”

INFATTI

De quarânta zech, che brot invéran
cun Castèl te mèz dl’inféran,
e dè di quàtar ed fabrer
la mâ vigliaca de stranier
de tedesch, in ritirata
ormai prosum a la sfata,
vers agl’ot ed la maténa
ui fasè scupiè na ména,
e che grand bèl monumèt
l’è crule’ in t’un mumèt.

Mò ac se sor’i là distròta,
sot’a tèra, la jè tòta;
al su radis al viv incora,
ed de fur’a n’al ved l’ora
al cheica da sot’a l’asfêlt,
par turné ancor’in êlt,
cun sperâza e tânta stèma,
d’turné grânda cum’è prèma.

La Torre di Castel Bolognese. Dopo aver fatto una bastia,/ per i soldati e la cavalleria,/ la rocca, il palazzo pretorio,/ qualche casa, un oratorio/ e attorno sull’esterno,/ le porte, i fossati e le mura,/ ci mancava ancora un qualcosa/ per farlo diventare un vero castello:/ una torre perché ci stessero in cima/ i soldati a fare la guardia.// Fu così che in due e due quattro nel milletrecentonovantaquattro,/ fu presa la decisione/ di erigere la costruzione.// Trent’anni dopo l’alzarono ancora/ perché dalla sua cima/ si vedesse se dall’esterno/ tentassero di saltare le mura,/ entrare dentro al paese/ e compiere delle brutte imprese.// Nel millesettecentottantasei,/ per fare un lavoro compiuto/ sobbarcandosi la spesa relativa/ applicarono alla torre l’orologio/ con le campane e il motore/ per farle suonare tutte le ore./ Così finita, era diventata/ una perla di monumento/ che dai cittadini di Castello/ era apprezzata come un gioiello.// Era alta, forte e dritta/ finita bene fino alla cima/ era fatta di una struttura/ che non c’era niente che le facesse paura;/ si era salvata dagli eventi più brutti/ intemperie e terremoti,/ e sembrava che dicesse:/ Solo le bombe mi possono finire.// INFATTI// Nel quarantacinque, in quel brutto inverno/ con Castello in mezzo all’inferno// il giorno quattro di febbraio,/ la mano vigliacca dello straniero/ del tedesco in ritirata,/ ormai prossimo alla disfatta/ verso le otto del mattino/ fece scoppiare una grossa mina/ e quel gran bel monumento/ crollò in un momento.// Ma anche se sopra è stata distrutta,/ sotto terra c’è ancora tutta;/ le sue radici vivono ancora/ e di venir fuori non vedono l’ora,/ e spingono da sotto l’asfalto/ per tornare ancora in alto/ con speranza e tanta stima/ di farla tornare grande come prima.

E Pass dal Caden

Cun puch mìtar d’difarèza,
a mitê strê, fra Joml’e Fêza,
sla via Emilia uj’è un paes
denuminê: CastèlBulgnes.
L’è e nô che ui dasè,
i bulgnis, quat ch’il fundé.
Dov cus ved pasènd adès,
un paes cl’armasta imprès,
l’era zirca ot-zent èn fà,
sol campâgna seza cà.
U’jera sol e pur cunfe’
fra imulis e fajnte’,
fat da do caden slà strê,
una gareta e un suldê
a badê e stê atèt
che i ledar e i brighèt,
i passes da e pòst ed blòc
e nò paghê gnac un bajòc,
ed che dazi ubligatori,
par intrê in te teritôri.
E fò quèl che par tent èn,
il ciamè: E pass dal cadèn.

Quat che par intrê a Castèl
us smitè d’paghê e balzèl,
d’cal cadèn d’travers dal strê,
i nà fat una gulpê,
i gl’à purtedi sò in cumô
atravers dé gunfalô.

Il Passo delle Catene. Con pochi metri di differenza,/ a metà strada fra Imola e Faenza,/ sulla via Emilia c’è un paese/ denominato: Castel Bolognese./ Questo è il nome che gli fu dato/ dai bolognesi quando lo fondarono./ Dove si vede, passando adesso,/ un paese che rimane impresso,/ c’era circa ottocento anni fa/ solo campagna e neanche una casa./ C’era solo il puro confine/ fra imolesi e faentini/ fatto da due catene poste sulla strada,/ una garitta e un soldato/ che guardava e stava attento/ che i ladri e i briganti/ non passassero da quel posto di blocco/ senza neanche pagare un soldo/ di quel dazio obbligatorio/ per entrare nel territorio./ Fu per quello che per tanti anni/ lo chiamarono: il Passo delle Catene.// Quando per entrare a Castello/ si cessò di pagare quel balzello/ di quelle catene che erano in mezzo alla strada/ ne hanno fatto una bracciata/ le hanno portate su in Comune/ e le hanno messe di traverso sul gonfalone.

PASSO DELLE CATENE, dove i Bolognesi fondarono Castel Bolognese (disegno del prof. Fausto Ferlini)

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Scritti e memorie sulla Torre Civica di Castel Bolognese 4 https://www.castelbolognese.org/torre/scritti-sulla-torre/scritti-e-memorie-sulla-torre-civica-di-castel-bolognese-4/ https://www.castelbolognese.org/torre/scritti-sulla-torre/scritti-e-memorie-sulla-torre-civica-di-castel-bolognese-4/#respond Tue, 10 Sep 2013 17:54:56 +0000 https://www.castelbolognese.org/uncategorized/scritti-e-memorie-sulla-torre-civica-di-castel-bolognese-6/ Nelle pagine precedenti sono riportate liriche, prose e zirudelle sulla Torre, scritte quando la Torre oramai non c’era più e son quindi tutte venate di malinconia, son tutti ricordi del tempo che fu. Ma quando la Torre c’era ancora, cosa si scriveva su di essa? Nella lirica che segue, apparsa …

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Nelle pagine precedenti sono riportate liriche, prose e zirudelle sulla Torre, scritte quando la Torre oramai non c’era più e son quindi tutte venate di malinconia, son tutti ricordi del tempo che fu. Ma quando la Torre c’era ancora, cosa si scriveva su di essa? Nella lirica che segue, apparsa sul giornale La Tor nel 1928, la Torre è protagonista, insieme al campanile di San Petronio, di un immaginario dialogo notturno sentito da un ubriaco che si era attardato in piazza dopo una serata di bagordi. E in questo dialogo la Torre critica i castellani perchè non sono più quelli di un tempo, sono cambiati e non sono più uniti fra di loro.

E Campanil e la Tor
(Rappôrt sôra e Castèll)

La sbornia l’era grànda e i macarôn
i’ avneva sô armisclê cun tôtt e vên
an l’aveva mo mèi ciap acsé un tupô,
gnac che foss stê la sera d’san Martèn.
A i’ eva fatt baraca da Badôn,
e pu piê frêta, vên sant e barzamên,
e par ciumpir e cont in tl’aspitê
am sera zughê tott i quatrên a taiê.

Al dô dla nôtt che un sintéva un zett,
a sera armêst sol me dai pél dla Tôr,
un fêva cumpagnèia i strid dal zvett
e un pés c’aveva aquè d’acant e côr.
Quànd cus èl cos an èl d’int al dô vett
de campanil d’san Petrògni e da la Tör
e partè dal vôs. Me am ciapè paura
e um passè d’böta l’imbariagadura.

E Campanil

“L’era un bèl pó c’an ciacarèva d’nött,
mo cusa vutt, im éva tott asrë
e tott e dê smartêla e sciocc e bött
che al campân agl’i’era d’amasë.
Ma dim un po’, esa fai i nost zuvnött,
agn’ i èl piò inció di nuv di fidanzë,
parchè adèss cum’è turnë la vós,
t’an cardarè, aiò voia d’fëm e spós.

L’è pu un bèl avdé tott sti zuvnë
aviess dint’ e cafè, d’in méz ai vëzi,
e chi a la stazion, int’e cors dai capuzén,
i va a surbiss una lezión d’giudézi.
E paréva ch’in avlèss der e còll sti milurdén
mo i’ à truvé chi ch’i à cavé i caprézi,
e adèss i sta tott quênt sota e muciö
e par chi ch’sgara tçzi e scapazön”.

La Tor

“Tè t’sé una linguaza sporca e maledëta
e t’scôr sóra la zënt c’as mett a pôst,
e adèss chi t’à amasë, porca paletta,
t’vu fë e galett : tòtt fóm gnit aròst.
Làsumel dir a me ca so piò drëta
da e dè ch’im à cavé che brott gabiótt
e par quëst a ringraziarò mastro Nicöla
pr’al su fadigh e par l’intrëda nóva.

Me a voi aracmandëmi sol d’un quèll,
che tott al vólt che vën in qua i quaiòn
un stèga tiré zo e mi spurtèll
e féi di scurs, fiscéd e spiegazión.
A savé za da un pèzz clè’ un brév burdèll
cl’è on di gross, che manda in t’è Radón
che srébb che quèll, par chi c’an e savéss
d’araduné d’i’artésta pr’una magnéda d’péss”.

E Campanil

“Mo e muvimént piò grand e dla stasòn
l’è sté quand ch’i’à méss fura e giurnalén,
sé, che giurnalén cl’aveva e tu nòm
e c’ul cumpréva tott, féna i babén.
L’era ora cui foss un quelcadòn
che dèss una strigéda a sti castlen,
ch’is cred che i cunfén d’tota la tèra
i vega da Casalecc féna a la Sèra.

L’è sté una cosa cl’an spor immaziné,
riséd, musòn, e scurs da toti agl’i òr ;
chi difindeva i’autur incriminé,
chi ch’i’arébb cavè parsèna e còr.
E pu, t’arè za vest, is è nech bastunè
invezi d’tòla in risa e bonumòr,
zertòn i’ à ciapè e fugh cum’è un tric – trac
a voi di, la cmandânta de tabacc”.

La Tor

“Chi m’èva mèss in ball un um dispis,
parchè an ò vest incora dla piò fèna,
e da e dè cum tirè so i Bulgnis
a cmand sora e Castèll, par la matèna.
Aiò vest Napuleon cun i franzis,
e pu Zizarèn Borgia e Catarèna,
am arcòrd a Pèpa avnir in san Franzèsch
e quand che in piaza us acampè i tudèsch.

Da zintnèra d’ènn a fagh guèrgia a sta tèra
e in tott i ches ai so semper a la tèsta
e a fò me che e dè ch’finè la guèra
a scampanè par dè e signèl dla fèsta ;
e pu cun st’occ avert e cun s’asèra
a sègn l’andè de temp che mèi s’arèsta,
quindi i’ à fatt bèn’ e un um pè vera
cum’eva tòlt di zuven par bangèra”.

E Campanil

“E sè can can avè vèst dla zènt passè
e nascer e murì, què, intorn a nò,
um pè d’avdé Castèll di temp andè
che pareva una famèia no un cumon.
E fra tott quènt che straza d’lealté
e zènt ch’in fèva ciacher ma da bòn ;
adess… adess s’an so gvintè un allòcc
a sè cambie cum’è d’e dè a la nòtt.

Al dònn al s’tosa cagl’i um pe cagnì
e quèst lo al le ciama ziviltè ;
me a dsirèv cagl’i’à e zarvèll padì
sun foss ches d’fèss onzer d’bastunè.
La zènt l’è vera, i’è un po’ piò pulì
mo in tl’anmaza i è spurch da fe pietè
e una gran pèrt e d’quell chi i dis prugrèss
me al ciaparebb e al butarebb te cèss”.

La Tor

“Purtròpp chi cambia la mi ponta strètta,
fatt un’idea sol da e mòd d’balè.
Dai vecc fèna ai burdèll chi tò la tèta
e pè ch’in eva eter da pinsè.
Se pu òn un sa fè, addio Betta,
quell un è degn d’fé pert dla sucieté,
parche incudè che tott e va a mutor
sol chi c’sa balè l’e un om d’valor.

Te t’se semper in cisa e t’an pu savè
mo in bala miga piò e ball nustrân
e gnanc cum i’era i vecc di temp passè
i zuven in à piò e tipo dl’italiân.
Ma tott quênt i zerca d’imité
in t’al mosi e in t’i’êtt l’americân
e t’an vi piò manfrena ne trascòn
i selta cum’è i zempel e il ciama e ciarlestòn”.

E Campanil

“Me a so cun te, parchè te la rasòn
e paes us e mudè, un’e piò e nost Castell,
t’an vi gnaca la dmênga al squeder d’cumpagnòn
bess un squass ed liter e zughè al marell.
In cambi l’è carsù i ciacaròn
cun una lengua cl’è pez che de curtell,
(avrebb murì sat degh un fil d’buseia)
e a cred ch’is seia mess a fè la speia.

Me an te so dì al gaban ca sent taiè.
L’e un’iradiddio, roba da bastòn
i’amaza tott al vòlt la varitë
e il fa par fë de mél a un quelcadòn.
Is diverta a metter in zir dal falsitë
par cruver tott a quent i su pardòn
e a num maraviareb’ che un quelch dè
a sintess’ na fila d’ciacher sora te”.

La Tor

“Credum a me t’an t’pu fidë d’incion,
t’an atrov un amig gnac a pës d’òr,
e s’un foss di secul ca fë vita in cumon
am cunfidareb sol da par me a sunè agl’òr.
Ch’in la pensa cume lò i’è tott quaiòn,
parchè e cmànda l’invigia e melumòr,
sti sent parlê i chega tòtt la scìenza
e i pasa Salumon sti pozz d’sapienza.

Se pu t’cardess d’ave truvë i cumpëgn
t’att se arscaldê una besa in te tu tsên
che invezi d’fett difesa e da sustegn
it spuda adoss cun ch’iter tott e vlên.
Stasera ca so a moll a num trategn
a mett fura e magon e a stag pio bén
e se par ches e sent un quelch castlân
aio chëra c’ul ripeta fort e piân”.

Par paur chi sn’ adess ca sera a lè
a pu par no ciapé un copp tla têsta
lott, lott a ala svelta a mla svignè
senza arrivë fena alla fën dla festa.
E quand ca fö da e cumon am vultè
armulinend tott quent sti scurs tla testa
e um parè d’avdè chi sla rideva
e strichendes la mân is saluteva.

Me c’aiò semper rispeté i’ anziê
massimament pu quand ch’ ie fêtt ed prë
a voi fë cnoscer i scurs ai nost Castlën,
sgond l’ordin che la Tor l’aveva dë.
Chi seia ripetù mle quest al savé,
mo de rest vo a mi da parduné ;
che s’avlesva sintì i’ uriginél
truvëv al do dla nott d’acant i pêl..

L’omen saibédgh

Piazza Maggiore (ora Piazza Bernardi) nella prima metà dell’800 in un’incisione del Parboni

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