Storie di persone Archives - La Storia di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/category/storie-di-persone/ Tue, 24 Dec 2024 16:23:25 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.7.2 Giovanna Caroli, l’ultima custode dello Scodellino https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/giovanna-caroli-lultima-custode-dello-scodellino/ https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/giovanna-caroli-lultima-custode-dello-scodellino/#respond Tue, 24 Dec 2024 15:02:10 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12164 (introduzione) Il 23 dicembre 2024 è scomparsa a 91 anni Giovanna Caroli. La ricordiamo con questa intervista che risale al 2022. Un grazie a Lorenzo Raccagna per aver messo cortesemente a disposizione il testo che pubblichiamo per ricordare Giovanna. Alcune fotografie che illustrano il testo sono tratte dalla pagina Facebook …

The post Giovanna Caroli, l’ultima custode dello Scodellino appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
(introduzione) Il 23 dicembre 2024 è scomparsa a 91 anni Giovanna Caroli. La ricordiamo con questa intervista che risale al 2022. Un grazie a Lorenzo Raccagna per aver messo cortesemente a disposizione il testo che pubblichiamo per ricordare Giovanna. Alcune fotografie che illustrano il testo sono tratte dalla pagina Facebook del Mulino Scodellino. (A.S.)

di Lorenzo Raccagna
(tratto da Il Nuovo Diario Messaggero, 10 marzo 2022)

La storia dimora nei luoghi, ma a farla sono sempre le persone che quei luoghi li hanno animati. E la storia della castellana Giovanna Caroli è indissolubilmente legata a quella del mulino Scodellino, e viceversa. Per 60 anni, infatti, la sua famiglia ha custodito uno dei luoghi più importanti e simbolici di Castel Bolognese. Sei decenni durante i quali il mulino è stato la loro casa, la loro fonte di reddito, il centro di tutta la loro vita. Ce lo ha raccontato direttamente la signora Giovanna accogliendoci in casa sua assieme a Rosanna Pasi, presidente dell’associazione Amici del Mulino Scodellino, che forte dell’amicizia con la Caroli e delle conoscenze sulla vita di una volta nei mulini ci ha gentilmente accompagnato.
Classe 1933, con una memoria ancora lucidissima, Giovanna racconta che la sua famiglia arrivò al mulino nel 1938, quando lei doveva compiere ancora cinque anni. «Siccome io sono figlia unica, eravamo in tre: io, mio babbo Enrico (Piraja per tutti i castellani) e mia mamma Ninetta. Prima abitavamo a Brisighella, dove mio padre lavorava già in un mulino. Poi decise di scendere in pianura e di prendere in affitto il mulino Scodellino».

Nemmeno l’acqua potabile

I primi tempi furono molto duri, Giovanna non lo nasconde. «Non avevamo nemmeno l’acqua da bere, perché qualcuno per dispetto aveva buttato del letame nel pozzo e quindi non si poteva usare. Domandammo tante volte al Comune di bonificarlo ma non vennero mai. C’era l’acqua del canale, ma quella non era potabile, la usavamo soltanto per lavare. Alla fine l’acqua che ci serviva per bere e cucinare ce l’hanno sempre data i vicini. Il fatto è che i precedenti proprietari erano andati via “alla chetichella”, senza avvisare nessuno, e quando arrivammo noi il mulino era messo male. Mio padre dovette lavorare parecchio per renderlo di nuovo funzionante.
Un altro problema erano i ratti e le tope d’acqua (al tupadûr); babbo ci tirava con il fucile e metteva di continuo delle trappole. Freddo e umidità? Nei mesi freddi compravamo la legna e facevamo sempre andare le stufe della casa a pieno regime, perciò anche se avevamo il canale praticamente sotto i piedi un gran freddo non l’abbiamo mai sofferto».

La guerra vista dal mulino

Nel 1944 il fronte bellico si fermò sul Senio e Castel Bolognese fu investita in pieno dal turbine della guerra. Un comando di soldati si stabilì proprio a poca distanza dal mulino, senza però gravi conseguenze. «I tedeschi con noi si sono sempre comportati abbastanza bene. C’era un sergente maggiore dell’esercito che aveva fatto amicizia con babbo e ci trattava con un occhio di riguardo. E infatti finché ci fu il comando vicino a casa, grossi problemi non ne abbiamo mai avuti. C’era sempre un reciproco rispetto». Una notte però alle due fu proprio il sergente che li andò a svegliare all’improvviso. «Noi ci spaventammo, ma in realtà voleva soltanto salutarci. Ci spiegò che con la ritirata del fronte li facevano partire. Volle il nostro indirizzo e disse a mio padre: “Se mi salvo, torno”. Ma non ritornò mai. Qualche giorno dopo ci fu un grande combattimento sul Po, chissà che non sia caduto lì» ipotizza Giovanna.
Anche durante gli anni del conflitto il mulino non cessò mai di funzionare, se non per un breve periodo. «Lo chiusero perché dissero che dovevano lavorare soltanto i mulini grandi – racconta Giovanna –, ma il vero motivo era che mio babbo non aveva la tessera di partito. Così vennero le guardie a piombare le macine. Per un po’ mio padre andò a lavorare da alcuni contadini e dal mulino di Ezio Giovannini. In seguito gli fecero riprendere l’attività».

Il lavoro fino alla chiusura

Grano, granturco, fave e orzo erano le principali colture che i contadini della zona portavano dai Caroli a macinare. Due erano invece le macine: una per il granturco (e formintön) e una per il grano. La pietra per il grano era infatti più tenera, mentre per il granturco si usava una pietra più dura. «Era faticoso – sottolinea – allora non c’erano macchine e si faceva tutto a mano. Il grano doveva essere portato nella tramoggia in spalla tutte le volte». La macinazione era fatta unicamente con l’ausilio dell’acqua del canale, e richiedeva tempo: «quasi un’ora per un quintale di grano – ricorda – e spesso i contadini di quintali ce ne portavano anche tre alla volta. Per questo si vedevano soprattutto dei vecchi. I giovani restavano nel campo a lavorare, non potevano permettersi di perdere mezza giornata al mulino. Ad alcuni il macinato lo portava direttamente mio padre con un cavallo, che poi in seguito rimpiazzammo con una somarina».
Nel 1964 Giovanna si sposò e lasciò il mulino per andare a vivere a Lugo, ma due anni più tardi un grave incidente d’auto le portò via il marito. Rimasta vedova, decise di tornare a vivere al mulino con il figlio Giacomo. Nel 1982, la malattia di Piraja da una parte e il calo del lavoro dall’altra (con i grandi mulini
industriali che stavano gradualmente buttando fuori dal mercato i piccoli artigiani) spinsero i Caroli a cessare l’attività molitoria. Continuarono ad abitare il mulino pagando l’affitto al Comune fino al 1998, anno in cui «ci costrinsero ad andare via – sospira Giovanna -. Dicevano che l’edificio non era più abitabile, e ce ne siamo dovuti fare una ragione».
Il Comune le propose un appartamento in via I Maggio sopra l’officina comunale, ma lei rifiutò la proposta. Rimase a vivere in campagna a Casalecchio e comprò una piccola casa lungo via Lughese (dove abita tuttora insieme al figlio), a poche centinaia di metri di distanza dal suo amato mulino. «Sì, il mulino mi manca. Ci ho vissuto una buona parte della mia esistenza e i miei ricordi sono lì. La casa era brutta, e non era certo una vita agiata – conclude -, ma io ci sono sempre stata bene».

The post Giovanna Caroli, l’ultima custode dello Scodellino appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/giovanna-caroli-lultima-custode-dello-scodellino/feed/ 0
Le carte di Paola https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/le-carte-di-paola/ https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/le-carte-di-paola/#respond Sat, 14 Dec 2024 15:33:55 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12155 (introduzione) Il 13 dicembre 2024 è mancata Paolina Pini. Era nota anche come “Paolina formaggiaia”, perché i genitori, Evaristo e Leontina, per lungo tempo, furono commercianti in formaggi. Cresciuta nelle Cortacce, vi ha abitato per lungo tempo prima di trasferirsi in via 1° Maggio. Nel suo soggiorno ha esercitato, per …

The post Le carte di Paola appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
(introduzione) Il 13 dicembre 2024 è mancata Paolina Pini. Era nota anche come “Paolina formaggiaia”, perché i genitori, Evaristo e Leontina, per lungo tempo, furono commercianti in formaggi. Cresciuta nelle Cortacce, vi ha abitato per lungo tempo prima di trasferirsi in via 1° Maggio. Nel suo soggiorno ha esercitato, per moltissimi decenni, l’attività di cartomante, ereditata dalla suocera Domenica, per la quale era notissima non solo a Castel Bolognese, ma anche nei dintorni, e tanti si rivolgevano a lei per trovare nelle carte una risposta ai propri problemi esistenziali. A questa attività è dedicato l’articolo di Oda De Sisti, pubblicato su “Qui” del 6 maggio 1993, che vi proponiamo qui di seguito.
Tanti la ricorderanno in giro per il paese sulla sua “Graziella”. Qualcuno la ricorda anche “radioamatrice”, con il nome in codice di “Palla di neve”, assieme al marito Carlo Cortecchia “Camoscio”. Chioma rossa e grintosa pari alla sua graffiante ironia, applicata anche su sé stessa (come nel caso del suo nome radioamatoriale), Paolina era una donna molto forte che aveva superato prove difficili nella sua vita, costellata da gravi lutti.
Paolina aveva sempre avuto interesse per la scrittura e negli ultimi anni, uscendo poco, aveva riordinato tanti vecchi quaderni di ricordi e aveva scritto anche altre cose, sia ricordi che poesie. Aveva partecipato ad alcuni concorsi ricevendo anche premi, come la menzione speciale della giuria al 5. concorso nazionale di poesia online “Dino Campana” del 2018 per la la poesia “La farfalla bianca”. Pubblichiamo il testo di quella poesia e la riproduzione dell’attestato di merito, che mostrava con orgoglio a tutti coloro che le facevano visita. Sul nostro sito è già presente un suo scritto con i ricordi del tempo di guerra dove Paolina riviveva quel periodo con gli occhi della bambina di allora: vengono descritti i primi bombardamenti, lo sfollamento in campagna, la vita in cantina, i soprusi tedeschi, la ricostruzione.
Paolina aveva 88 anni. Ricordava sempre con ironia la diagnosi terribile di un medico di fama che, tanti anni fa, parlando dei suoi problemi di salute, le aveva pronosticato una vita molto breve, al massimo di 40 anni. E invece fino a un paio di anni fa ha vissuto da sola (dopo la scomparsa del marito Carlo), convivendo con tenacia con gli antichi problemi che aveva alle gambe. Curiosamente è morta a due anni esatti di distanza dalla caduta che le ha minato definitivamente la salute. Siamo certi che Paolina avrebbe ricavato da questa circostanza degli ottimi numeri da giocare al lotto, altra passione in cui era piuttosto abile.
Un grazie alla sorella Giovanna e alla nipote Elisa Marzocchi per aver messo gentilmente a disposizione le numerose fotografie con la quale ricordiamo Paolina. Un grazie anche a Maurizio Strappaveccia per un’ulteriore fotografia. (Andrea Soglia)

Le carte di Paola
Interroga il destino più per vocazione che per mestiere, guarda i problemi della gente con occhi saggi, ama la cucina e i colori vivaci. Ecco il ritratto inedito di una “veggente” di Castel Bolognese

di Oda De Sisti

Castel Bolognese. Cartomanzia, astrologia, numerologia, rune, i-ching, chiromanzia e altro ancora: le millenarie arti mantiche sono sempre attuali. Che cosa spinge moltissime persone a consultare coloro che le esercitano? Desiderio o ansia di conoscere il futuro? Bisogno di speranze o di rassicurazione? E poi, esiste un destino inevitabile e inesorabile o possiamo modificare e scegliere la nostra esistenza? Gli eventi ci cadono addosso o sono la conseguenza delle nostre predisposizioni caratteriali e genetiche? A queste domande non c’è mai risposta certa e così ognuno può credere, alla fine, a ciò che vuole.
Paola di Castel Bolognese legge, anzi come dice lei, “dialoga” con le carte da diciotto anni. Le carte che usa sono dei primi del secolo, piccole e strette, i colori ormai sbiaditi, appartenevano a sua suocera ed è da lei che ha imparato a interpretarle, ereditandole alla sua morte.
Sono nell’insolito numero di quarantacinque, “scelte” dall’antica cartomante tra gli arcani maggiori (tarocchi) e gli arcani minori (“le bolognesi”) e rappresentano la vita nei suoi molteplici, anche se invariati, aspetti. Ci sono i vari personaggi, le quattro coppie “regolari” e “irregolari”, i rivali, la malinconia, le lacrime, la speranza, la giustizia e gli atti legali, le invidie, i “diavoleri”, i viaggi, le malattie e la morte, gli interessi, la fortuna, le “fioriture” e gli “incagli”. Paola, piccola e grassa (“Mi piace mangiare, nella mia famiglia si è sempre guardato con sospetto alla magrezza!”), capelli rossi, bel viso, abiti colorati, lavora nel soggiorno di casa sua. E’ un ambiente per niente esoterico, dove non c’è nessun oggetto simbolico caro ai chiaroveggenti. Non ci sono che quadri dai colori vivaci, molti libri, una cyclette e, in un angolo, un’asse da stiro (ridendo dice: “E’ il mio altare!”) con una pila di panni appena stirati. Nell’adiacente cucina qualcosa bolle sul fuoco, spandendo gustosi aromi, che promettono una cena saporosa. Paola dialoga con la stesa delle carte dall’alto al basso e dal basso all’alto, la carta scoperta dal taglio del mazzo effettuato dal consultante, darà la prima indicazione sul filo da seguire durante il colloquio. Paola fa questo lavoro con disponibilità, senza pregiudizi nei confronti della natura umana e senza nessuna venalità. Si ritiene solo un tramite, il gioco – dice – lo conduce il consultante. A volte può capitare che le carte restino mute e allora vuol dire che la situazione è immobile, non c’è nessun evento. Altre volte compare una carta “forte”, così forte da condurre da sola il gioco, oscurando e trascinando tutte le altre. I clienti sono in maggioranza donne, ma gli uomini sono in aumento; i problemi sono sempre gli stessi: amore, affari, salute, lavoro, figli, molto richiesti i numeri del lotto e relative ruote. Paola trova che le donne sono molto cambiate, sono diventate molto competitive, mentre gli uomini sono sempre gli stessi: “dei bambini con i pantaloni lunghi. Mi sento molto materna con loro”. Durante le consultazioni, si parla molto d’amore, ma, secondo Paola, in giro ce n’è poco, l’uomo e la donna non si comprendono, si usano e la prova è che l’argomento amore è molto richiesto d’estate: “Quante volte, in quella stagione, mi chiedono: avrò un’avventura?”. Comunque pare che l’amore, nella lettura delle carte, sia spesso difficile da interpretare, è un argomento sfuggente e fragile, è molto più facile indovinare i problemi di salute. Anche il sesso di un nascituro è a volte difficile da prevedere, perché la madre che desidera molto o un maschio o una femmina, secondo Paola, interferisce con il pensiero. “Paola, ci sono momenti durante la lettura delle carte, in cui lei prova difficoltà nel comunicare ciò che le carte dicono?” “Quando compare la carta della “persona tradita”, che significa malattia grave, è un momento difficile, ma spesso so che può essere solo un avvertimento che può aiutare la persona. Una bella carta è “l’uomo che porta malinconia”, perché potrò dire alla cliente che “lui” la porta sempre nel cuore”. Paola non crede al malocchio: “ai clienti che ci credono, dico che il male è nelle loro menti”. “E al destino ci crede?” “In parte sì, penso, come altri, che la vita sia paragonabile a un gioco d’azzardo, in cui vengono distribuite carte buone e carte cattive. Bisogna imparare a giocare bene le proprie carte!”.

La farfalla

di Paolina Pini

Bianca farfalla
che voli felice
godendo nel vento
ma cosa ti dice?
ti parla forse
di prati fioriti
di cieli sereni
di risa di bimbi?
Sembri una stella
di neve smarrita
sopra la terra
ormai rifiorita.
Bianca farfalla
tu sei il fiore del cielo
senza profumo
e senza stelo
Bianca sei la messaggera
della primavera

 

The post Le carte di Paola appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/le-carte-di-paola/feed/ 0
La tomba artistica del calzolaio https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/la-tomba-artistica-del-calzolaio/ https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/la-tomba-artistica-del-calzolaio/#respond Mon, 30 Oct 2023 20:50:27 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11112 di Andrea Soglia Per quanto lo abbia girato in lungo e in largo, il nostro cimitero mi riserva sempre nuove sorprese storiche ed artistiche. Di tanto in tanto l’occhio cade su particolari mai notati prima, e con un po’ di fortuna si riesce sempre a scoprire qualcosa di nuovo. In …

The post La tomba artistica del calzolaio appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
di Andrea Soglia

Per quanto lo abbia girato in lungo e in largo, il nostro cimitero mi riserva sempre nuove sorprese storiche ed artistiche. Di tanto in tanto l’occhio cade su particolari mai notati prima, e con un po’ di fortuna si riesce sempre a scoprire qualcosa di nuovo. In occasione della Commemorazione dei Defunti 2023 c’è stata una sorpresa artistica inattesa, in una zona “povera” del cimitero e dire che in occasione delle visite guidate che ho preparato con Stefano Zaniboni, che quelle visite le ha condotte, di dettagli artistici misconosciuti ne avevamo scovati non pochi.
In un’ala laterale del cimitero, subito sotto la tomba di “Tac”, ho notato un loculo che non presentava la solita lapide, ma un bel pannello di ceramica con una Crocifissione su sfondo nero. Le lettere metalliche applicate, nel corso dei decenni, sono andate quasi tutte perdute e si leggeva solamente “MA ZO”, senza alcuna data. Chi era dunque la persona sepolta lì? L’unico indizio lo forniva la fotografia, incorniciata, che mostrava un calzolaio intento al lavoro nella sua bottega.
La ceramica poteva far pensare ad un’ennesima opera di Anzulè Biancini o di un suo allievo. Cesare Biancini, interpellato al proposito, ha subito sentenziato che il viso del Cristo non era tipico della produzione di suo babbo, e che quindi per lui il bel pannello era opera di un allievo di Biancini.
L’unica era provare a fare una ricerca nell’archivio del cimitero, almeno per scoprire l’identità del defunto. Approfittando della presenza e della disponibilità del nuovo custode Walter, e ricordando tutti gli insegnamenti che mi aveva impartito il vecchio custode Davide, ho snidato un registro topografico di quell’ala del cimitero, e con il numero d’ordine, ben presto ho scoperto che in quella tomba è sepolto Luigi Mazzolani (MA ZO quindi erano lettere residue del cognome), nato a Castel Bolognese nel 1902 e morto nel 1969. La ricerca si è rivelata ancora più proficua perché nelle note a margine era possibile leggere che di quella tomba si era occupato direttamente il nostro artista Sergio Gioghi, di cui vi invitiamo a riscoprire l’opera visitando il sito https://sergiogioghi.wordpress.com/ a lui dedicato dal figlio Giovanni o anche ad ammirare le grandi opere conservate all’interno dello storico ristorante Caminetto d’oro “Badò”.
Una bella opera che merita rilievo nel percorso artistico all’interno del nostro cimitero. In attesa di scoprire magari qualcosa di più sulla storia di Luigi Mazzolani, il semplice calzolaio omaggiato da un’opera artistica che di solito era appannaggio di personaggi più importanti o abbienti.
Chiudo con l’auspicio che la presenza del nuovo custode possa arrestare il declino pluriennale del nostro cimitero, luogo che a tutti dovrebbe essere caro e che più di tutti gli altri è custode della nostra civiltà.

The post La tomba artistica del calzolaio appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/la-tomba-artistica-del-calzolaio/feed/ 0
Primo Garofani, Fani https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/primo-garofani-fani/ https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/primo-garofani-fani/#comments Sat, 07 Oct 2023 21:17:20 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11082 Un ricordo in occasione del centenario della nascita di Lodovico Santandrea Primo Garofani nacque nel 1923 ed ereditò da suo padre Sante il soprannome: Bòcia. Questi svolgeva la sua attività di venditore ambulante di frutta e verdura girando con un carretto tirato da un cavallo sul quale trasportava i suoi …

The post Primo Garofani, Fani appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
Un ricordo in occasione del centenario della nascita

di Lodovico Santandrea

Primo Garofani nacque nel 1923 ed ereditò da suo padre Sante il soprannome: Bòcia. Questi svolgeva la sua attività di venditore ambulante di frutta e verdura girando con un carretto tirato da un cavallo sul quale trasportava i suoi prodotti e di lui Primo amava ripetere un aneddoto di quando, inviato in Libia a combattere la guerra italo- turca, si fece fotografare insieme ad altri commilitoni, poi spedì ai famigliari la foto sotto cui scrisse: “Sorvegliami che sono nel mezzo”.
Fin da giovine Primo si appassionò allo sport, ed in particolare al ciclismo ed al calcio, divenendo grande tifoso sia di Bartali che della Juventus.
Chiamato sotto le armi fu arruolato negli alpini, e più precisamente nell’artiglieria da montagna, rimanendo, da buon alpino, legato a quel corpo che tanto ha dato alla nostra Patria e, quando per la prima volta tornò a casa dalla licenza suo cugino Franco Budini che prestava servizio militare nella gloriosa Brigata Julia, lo aspettò in piazza, gli fece posare a terra il cappello con la penna nera e gli ordinò: “Fà un saltìn pel vecio”.
Terminato il servizio militare tornò a casa e sposò una delle più belle ragazze di Castello, Maria Zanelli, la prima donna in paese che ebbe il coraggio di indossare i calzoni e dal matrimonio sono nati quattro figli: Sergio, Velella, Sante e Arnaldo. Iniziò allora a dare una mano in negozio ai suoi genitori in quanto Bocia era riuscito ad aprire una bottega di frutta e verdura e non doveva più arrabattarsi a vendere i suoi prodotti trasportati sul carrettino.
Coltivando le sue passioni sportive praticò, ma solo amatorialmente, il ciclismo, con una bicicletta da corsa Legnano, la marca di Bartali, della quale era gelosissimo e che teneva in ordine perfetto, ed a livello agonistico il calcio giocando nel ruolo che allora si chiamava centr’half, sfruttando il suo fisico per quei tempi poderoso, tanto che ne ha sempre fatto un’unità di misura in quanto vedendo un giocatore sentenziava: “Quèl e cress do dida da mè”, oppure: “Quèl e cala un dì da mè”.
Evidentemente era ben dotato tanto che, dopo aver giocato a lungo nel Castel Bolognese, fu acquistato dalla squadra dell’Imolese che militava in una categoria superiore. Terminata, per ragioni anagrafiche, l’attività agonistica iniziò quella di allenatore del Castello, ritirandosi in bellezza dopo aver vinto nel 1954-1955 il campionato emiliano di I^ Divisione portando la squadra in Promozione, ma da appassionato quale era non rinunciava mai a dare consigli ai giocatori castellani sgridandoli se il sabato sera prima della partita andavano a ballare o suggerendo, quando c’era una domenica elettorale, ad andare a votare la mattina nel caso in cui si fossero infortunati gravemente. Inoltre quando Bruno Capra, ottimo portiere di Castello, fu chiamato nelle giovanili della Juventus, prima che partisse per Torino lo chiamò a rapporto raccomandandogli di attenersi a quanto era scritto nella lettera di convocazione: non farsi crescere troppo i capelli, essere rispettoso e comportarsi educatamente. Ricordo poi che durante un torneo di Biancanigo ad un giocatore (che per delicatezza non nomino) aveva predisposto il “calendario” dei rapporti sessuali, ma questi gli fece presente che non poteva dire di no alle richieste della moglie e tutto si concluse con una risata.
All’inizio degli anni 50 ebbe un periodo di sfortuna nera: la Juventus perdeva e Bartali non vinceva, così si buttò sul motociclismo con la Gilera, ma in quel momento vinceva la Guzzi e allora ripiegò sui camion sostenendo che il migliore era l’OM, ma risultò che era migliore il Super Orione e così Sergio Zurlo, che aveva una buona predisposizione per il disegno, preparò un cartello disegnato a mò di vignetta satirica dedicato a “Nunzio Fanografo”, scimmiottando il nome dell’allora presentatore di Sanremo Nunzio Filogamo.
Il soprannome con cui tutti l’abbiamo conosciuto gli fu cucito addosso dal suo buon amico Pippo Cani, che gestiva il Bar Sport, con una specie di filastrocca: Garofani, Garofàni, Fàni e così gli è rimasto appiccicato addosso ed è stato un distintivo marchio di fabbrica. Inoltre, per il suo fisico imponente, gli fu affibbiato anche il soprannome di Lanterna, perché a Castello con i soprannomi non abbiamo mai fatto economia.
Grazie alla sua passione sportiva è stato un grande amico dei giocatori castellani che militavano nelle serie superiori, ed alcuni in serie A: fra questi Tugnì Budini, Camillo Fabbri, ma soprattutto Mundì Fabbri, un’amicizia vera che per Primo era anche motivo di orgoglio.
Quando Mundì, che a fine carriera era stato a Parma con l’incarico di giocatore-allenatore, fu ingaggiato come allenatore dal Mantova che militava in serie D, il primo anno ottenne la promozione in C dove lottava con il Siena per la vittoria nel campionato e all’ultima giornata, siccome allora per conoscere i risultati delle serie minori bisognava attendere i giornali del lunedì, Fani nel bar organizzò una colletta per il costo della telefonata allo stadio di Siena per conoscere il risultato della squadra rivale ed esultammo tutti quando scoprimmo che il Siena aveva pareggiato mentre da Mantova avevano comunicato la vittoria con conseguente promozione in B e l’anno successivo il Mantova fece il definitiva salto in serie A dove, anche grazie alle ottime intuizioni dell’allenatore, specie nell’acquisto dei giocatori, ottenne degli ottimi risultati.
In quella città Mundì aveva lasciato un buon ricordo di sé perché nel 1994, ritornando con lui da Brescia dove eravamo andati per una questione di lavoro, ci fermammo a Mantova in un ristorante dove, ancora dopo più di trent’anni, fu accolto con tutti gli onori.
La chiamata poi ad allenare la Nazionale riempì Primo di orgoglio, anche se poi la fatal Corea gli creò un dispiacere che temo si sia portato dietro fino alla morte e di quella notte infausta è rimasta famosa la sua uscita a pochi minuti dal termine della partita quando si alzò in piedi commentando: “La realtà romanzesca” (il titolo di una famosa rubrica della Domenica del Corriere), poi crollò sulla sedia. In quell’estate del 1966 sui giornali cominciò a girare la voce che il medico della Nazionale, Fino Fini, avesse drogato i giocatori al contrario per far perdere la squadra, ma nel Bar Commercio, culla per decenni di battute al vetriolo, si diceva che la rovina di Mundì fossero state le tre F: Fini, Fani e Falignam.
Fra i ciclisti fu buon amico di Pipaza, di Ortelli, di Luciano Pezzi e amico e tifoso di Diego Ronchini che lui aveva battezzato “e lutador”. Un anno che il Giro d’Italia aveva fatto tappa nelle vicinanze con Ronchini in maglia rosa, insieme ad altri tifosi andò a salutarlo in albergo e mentre Ronchini riposava sul letto indicò con la coda dell’occhio a Primo, e solo a lui, la maglia rosa, un gesto che Fani interpretò come segno di amicizia e confidenza.
Era lui che in estate la domenica pomeriggio organizzava la gita in bicicletta al Confine per andare a rilassarci con una merenda in compagnia; partivamo in una decina e quando ci raggiungeva in macchina Sante Bellosi a tenere allegra la compagnia con la sua verve era una festa, poi al ritorno ogni tanto iniziava qualche scatto per potersene vantare nel bar ed anche se oggi può sembrare una piccola cosa, specialmente per noi ragazzi, erano occasioni di sano divertimento.
Nel 1961 io e mia sorella Fortunata andammo in Svizzera dove si svolgevano i mondiali di ciclismo (e ricordo ancora quando nel velodromo di Zurigo Maspes, all’ombra, tenne per quasi un’ora Rousseau al sole in un interminabile surplace) e, sapendo di fargli cosa gradita, spedimmo una cartolina con il logo dei mondiali indirizzata “Allo sportivissimo Fani”. La mattina in cui la ricevette Primo aspettò in piazza mio padre per mostrargliela tutto orgoglioso: “Guardì cosa ch’i m’ha mandè i burdèll”.
Quando come allenatore della Nazionale, dopo Mundì, fu promosso il suo vice Valcareggi, Fani lo ribattezzò “Il sacrestano” e fu accusato, quando giocava l’Italia, di tifare contro ma nel 1968, la sera della prima finale degli europei, con l’Italia che arrancava contro la Jugoslavia, per pulirsi la coscienza, mentre eravamo affannosamente arroccati in difesa, cominciò a cantare: “Il Piave mormorò non passa lo straniero” non mancando di farlo notare nel bar la mattina dopo a tutti quelli che gli rinfacciavano che sarebbe stato contento se la Nazionale fosse stata sconfitta.
Con il suo grande amico Ricagni si è sempre conteso il titolo di più grande tifoso della Juventus a suon di discussioni e battute reciproche e nel campionato 57-58, quello della prima stella, Richì stravedeva per Sivori, mentre Primo aveva preso in simpatia il diciassettenne Nicolè, che però aveva l’abitudine di passare indietro la palla, eresia a quei tempi, così Richì ogni volta che vedeva un giocatore passare indietro il pallone commentava: “Dai indrì c’ui è Nicòla” e Fani beccava in silenzio.
Oltre a dare una mano in negozio Primo lavorava dal suo grande amico Gidio Bosi e aiutava Palì pustè, specialmente quando moriva una persona importante a Castello e c’era da consegnare alla famiglia tutti i biglietti di condoglianze, così, a quei tempi la burocrazia non era asfissiante, fu assunto alle Poste e gli furono assegnate prima la zona della Serra poi quella del Borello con la, per lui famigerata, Via Biasotta de Cane ed era un siparietto divertente quando con Richì, che con l’autotreno percorreva più di 200.000 chilometri all’anno, si lamentava della fatica che gli costava guidare: “Mett in moto, zò la friziò, mett la prema, so la friziò”, il tutto senza cattiveria ma con la sana ironia sotto la quale albergava una profonda amicizia.
Fra le vecchie famiglie castellane l’amicizia si è sempre mantenuta da una generazione all’altra e così, come mio padre era amico di Bocia io lo sono stato di Primo, poi dei suoi figli, anche se è stata l’unica persona nel bar, a parte i vecchi (e Gnes, Gnazò, il Dott. Bolognini, Giacomino d’Pòr), alla quale ho sempre dato del voi e del lei, pur permettendomi di scherzare e, se necessario, di battibeccare quando si parlava di sport.
Ho però compiuto due gesti che mi sono stati perdonati con difficoltà: il primo quando, dopo la Corea, ho ideato il telegramma indirizzato a “Fani Falegname Rag. Bar Commercio Italy: Vengo a casa per i coppi. Mondo” e la seconda un mercoledì sera quando in televisione c’era una partita di Coppa dei Campioni. Avevo mangiato a casa un boccone in fretta e furia perché, se volevi prendere il tuo posto in prima fila nel forrnino, dovevi essere là ben prima delle otto e così alla fine del primo tempo andai al banco per mangiare un toast, ma quando tornai Balestrazzi si era seduto al mio posto e non ne voleva saperne di alzarsi, allora, proprio quando iniziava il secondo tempo, mi misi in piedi dinnanzi al trespolo su cui era sistemato il televisore dicendo che se io non potevo vedere la partita allora non l’avrebbe vista nessuno; a quei tempi frequentavo l’università e Primo, con il suo vocione, commentò: “Dmà a vegh a dscorer mé cun e Rettore ….Magnifico” suscitando una risata generale.
“Ronzio di un’ape dentro il bugno vuoto” come descriveva magistralmente storie piccole di studenti universitari il nostro illustre concittadino Avv. Francesco Serantini in un elzeviro in cui riviveva il beato tempo della sua gioventù goliardica (1).
Quando la mattina Primo arrivava al bar si ripeteva l’immancabile rituale di lui che prendeva i giornali spiegazzati sparpagliati qua e là fra i tavolini e, con cura, ripiegava le pagine cosicché, dopo il suo intervento, sembrava che fossero appena usciti dall’edicola ed un’altra sua caratteristica era quella di tenere nel portafoglio ritagli di articoli, fotografie e appunti vari da tirare fuori, dopo un’accesa discussione, al momento opportuno per zittire l’interlocutore.
Quando poi iniziò (credo) ad avere problemi di prostata commise un errore imperdonabile: fermò in piazza il Dott. Bagnaresi per chiedergli un consiglio dicendogli: “Dutòr um scapa semper d’pisé, cs’hoia da fé? E Carlo, in tono severo, senza fermarsi gli rispose “Pessa”.
Dopo un onorato servizio presso le Poste Primo cominciò a godersi la meritata pensione continuando a dibattere degli sport a cui era maggiormente legato e, nel 1999 se non ricordo male, in uno di quei pomeriggi sotto le feste di Natale in cui Cesare organizzava una bisboccia al Bar Commercio, gli fu consegnato il premio “Sportivo del secolo”, riconoscimento che lo riempì d’orgoglio, e, a parere di tutti, ampiamente meritato.
Quando fu colpito da una grave malattia mi faceva una immensa tristezza vederlo seduto in carrozzina, lui che era stato un atleta e, soprattutto, un uomo pieno di vitalità.
Poi anche per lui arrivò la Giacomina e ricordo che sulla cassa erano posati il cappello alpino e la maglia rossoblu del Castel Bolognese F.C.
Poiché la morte induce ai ricordi, all’uscita dalla chiesa gli amici rimasti immaginarono che ad accoglierlo nell’aldilà ci fossero i suoi grandi amici che l’avevano preceduto: Gidio e Richì che gli andavano incontro chiamandolo: “Ven Lanterna ch’a t’insignè nò la strè”.
E quando sarà il momento immagino che, essendo tutti raccolti in un fazzoletto di terra, ci ritroveremo io, lui, Ricagni e Peppino d’Zré a discutere di calcio, ma così non vale: tre juventini contro un interista.

Con affetto da vecchio castellano a vecchio castellano
Lodovico

(1) Francesco Serantini: “Da Santinone a Decio Raggi” – I quaderni della famiglia Romagnola – Bologna 1956

Album fotografico (dall’archivio di famiglia di Sante Garofani)

The post Primo Garofani, Fani appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/primo-garofani-fani/feed/ 1
Rino Gionchetta (1941-2022), cantante milanese-romagnolo https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/rino-gionchetta-1941-2022-cantante-milanese-romagnolo/ https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/rino-gionchetta-1941-2022-cantante-milanese-romagnolo/#comments Tue, 15 Aug 2023 16:44:50 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=10962 di Andrea Soglia con testimonianze, materiale fotografico e d’archivio messi gentilmente a disposizione da Gianfranco Gionchetta Tanti lo ricorderanno per la sua presenza assidua alle feste e sagre castellane, specialmente dove c’era un angolo dedicato alla musica dal vivo, e per le sue esibizioni canore o le comparsate in spettacoli …

The post Rino Gionchetta (1941-2022), cantante milanese-romagnolo appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
di Andrea Soglia

con testimonianze, materiale fotografico e d’archivio messi gentilmente a disposizione da Gianfranco Gionchetta

Tanti lo ricorderanno per la sua presenza assidua alle feste e sagre castellane, specialmente dove c’era un angolo dedicato alla musica dal vivo, e per le sue esibizioni canore o le comparsate in spettacoli degli amici, fra cui Primo Galeati, a cui lo legava una profonda amicizia. E tanti l’avranno notato per la sua cravatta texana e la sua somiglianza con il più famoso Maurizio Vandelli. Ci riferiamo al cantante milanese Rino Gionchetta, di cui molti ignoreranno la storia e il cui legame con Castel Bolognese e la Romagna era molto più forte di quanto si potesse immaginare.
Rino Gionchetta è scomparso il 16 settembre 2022 a pochi giorni dagli 81 anni e sembra giusto ricordarlo in quella che era la sua seconda città, nella quale trascorreva molti mesi all’anno soggiornando nella sua casa di campagna sita in via Ghinotta.
Rino, all’anagrafe Lazzaro, era nato a Milano il 27 ottobre 1941. I primi passi nel mondo dello spettacolo, fra il 1947 e il 1952, li aveva mossi ancora bambino nella zona di San Lorenzo alle Colonne esibendosi in teatro assieme ad altri bambini, ribattezzati “I fioeu de la Piazzetta”, dove la Piazzetta è la piazza antistante la grande Basilica di San Lorenzo, caratterizzata dalla presenza di un’antica costruzione di epoca tardo romana, le 16 colonne di San Lorenzo.
Memorabile è una fotografia di gruppo scattata nel 1950, che ritrae i “fioeu” in occasione di uno spettacolo, nella quale sono riconoscibili Rino Gionchetta e suo fratello Gianni, a stretto contatto di gomito con altri due bambini della Piazzetta destinati a diventare famosi, ed uno noto addirittura a livello mondiale con la sua canzone “Quando quando quando”. Ci riferiamo ad Elio Cesari, che, da cantante, assumerà lo pseudonimo di Tony Renis, e a Roberto Marelli, attore e conduttore televisivo, noto soprattutto per il personaggio di Arturo in Casa Vianello. Le amicizie di quel periodo accompagneranno Rino per tutta la vita, e Gianfranco, figlio di Rino, ci ha raccontato di aver ricevuto una telefonata di condoglianze anche da Tony Renis in occasione della scomparsa del padre.
Dotato di una bella voce da crooner, Rino entra nel mondo dello spettacolo e fa parte del “Quintetto Angelo Camis”, esibendosi in tanti locali lombardi e della vicina Svizzera italiana e partendo per qualche tournée estiva, andando all’avventura financo in Grecia. Intraprende anche la carriera di solista, e nel 1962, dopo un concorso di selezione, partecipa ad un Festival di voci nuove che si tiene al Teatro Sociale di Brescia, di cui uno degli ospiti d’onore è il già famoso Adriano Celentano.
Fra le prime incisioni di Rino si ricordano alcuni 45 giri usciti nel 1965 allegati al periodico “Nuova enigmistica tascabile”. Le registrazioni erano effettuate appositamente e spesso si trattava di cover di canzoni note, infatti Rino reinterpreta, ad esempio, “Io che non vivo”, “Ho capito che ti amo”, “El purtava i scarp del tennis” e tante altre. Poco tempo dopo assume anche lo pseudonimo di Rino D’Angiò e viene scritturato per il programma RAI “Settevoci” condotto da Pippo Baudo, al suo primo grande successo televisivo. La trasmissione, come ci ricorda Wikipedia, “era un quiz a carattere musicale dove in ogni puntata intervenivano, come ospiti, sette cantanti (da cui il titolo): due di essi erano agli inizi della carriera musicale e venivano giudicati dall’applausometro (un apparecchio che misurava l’intensità dei battiti delle mani, quantificandola da 1 a 100), quattro erano affermati e uno era celeberrimo (e non gareggiava)”. Rino si esibì nella puntata del 16 aprile 1966 cantando “Sto’ calo'”, frase greca che significa “Stai bene” e che aveva imparato durante la tournèè con il suo vecchio gruppo. Il brano, di Vignali-Medini, viene pubblicato su 45 giri con, sul lato B, “Secondo te”, di Gisel-Mellier-Medini.
Ne seguono un periodo di buona fama e di numerose serate e la pubblicazione di alcuni 45 giri, oltre alla partecipazione ad altri due festival. Sempre nel 1966, in giugno, concorre a “Un jolly al lido di Jesolo”, incontro tra i due concorsi “Miss cinema Europa” e “Voci e canzoni per l’Europa”. L’organizzazione è del “mitico” Enzo Mirigliani, storico organizzatore di Miss Italia, e i concorsi vengono presentati da Nunzio Filogamo e Corrado. Rino canta “Davanti a te” con testo di Medilou e musica di Lou Gird. Nel marzo del 1969 Rino Gionchetta partecipa al festival “I Trii dì de Milan”, tenuto al Teatro dell’Arte e condotto nientemeno che da Mike Bongiorno.
La lunga “onda canora” degli anni ’60 perde vigore e per tanti cantanti non arriva il grande successo tanto sperato. Gli anni ’70 sono avari di soddisfazioni per tanti gruppi e cantanti, che spariscono dalla grande scena anche se continuano a fare serate e cominciano ad apparire sulle nascenti TV locali.
Questo succede anche a Rino, che ha comunque un ottimo paracadute costituito dal suo impiego come bancario in CARIPLO, che conserverà fino al pensionamento. Nel frattempo Rino si è sposato con Maria Elena Willim che gli dà il figlio Gianfranco. E qui dobbiamo svelare la seconda parte della storia che, passando attraverso l’Ungheria, lega Rino a Castel Bolognese.
Siamo all’inizio degli anni ’40 e a Castel Bolognese approda una compagnia itinerante che fa spettacoli utilizzando cavalli. Una compagnia che è reduce anche da tournée in America. Ne fa parte anche Giovanni Willim, nato in Ungheria, che si era aggregato anni prima alla compagnia, e diviene molto esperto di cavalli. Durante il periodo trascorso a Castel Bolognese conosce Ernestina Scardovi, una delle tre sorelle note in paese come “Cacareni” (figlie del calzolaio anarchico Pietro Scardovi, detto Mariano, noto come “Cacher”) e se ne innamora. Giovanni lascia così la compagnia, sposa Ernestina, detta Tina, e gestisce con lei una tabaccheria sita sotto i portici della via Emilia, non lontano dalla farmacia Bolognini. Nell’inverno 1944-45, durante il periodo del Fronte, sfolla con la famiglia a Biancanigo, nella casa in via Ghinotta che appartiene a sua cognata Cesarina “Rina” Scardovi, moglie di Giovanni Dari (detto Gianì). Immancabilmente anche in quella casa si insedia qualche soldato tedesco che ignora il fatto che Giovanni Willim, proveniente dall’Est Europa e giramondo, capisce piuttosto bene la lingua tedesca. Giovanni riesce così a carpire preziose informazioni soprattutto sui progetti di retate da fare nelle case castellane e riesce ad allertare i diretti interessati in modo che possano mettersi in sicurezza. Nel difficile Dopoguerra Giovanni Willim riceve aiuti dalla sorella Helen, che, dal lontano Ohio dove era emigrata, spedisce a Castel Bolognese abiti ed altro, usando come contenitore alcune federe sulle quali scriveva a mano indirizzi del destinatario e del mittente. Queste federe sono stato conservate da Tina Scardovi e trasmesse al nipote Gianfranco.
Dal matrimonio fra Giovanni e Tina nascono tre figli: Maria Elena (Mary), Vittorio e Anna Willim. Le vecchie conoscenze sui cavalli acquisite da Giovanni tornano utili per far cambiare vita alla famiglia Willim: infatti Giovanni trova lavoro all’ippodromo di San Siro a Milano e tutti si trasferiscono nella grande città lombarda.
E così si spiega come Maria Elena Willim da Castel Bolognese possa aver conosciuto Rino Gionchetta.
Rino comincia così a frequentare la Romagna, soggiornando nella vecchia casa di via Ghinotta.
Già dalla fine degli anni ’70, e soprattutto negli anni ’80, prende piede il revival dei favolosi anni ’60 e Rino Gionchetta ci si tuffa a capofitto. Incide numerose compilations pubblicate in musicassetta dalla Fonola (alcune con il complesso Battaini) e, grazie alla “contaminazione romagnola” anche compilations di liscio. Non manca qualche canzone “a doppio senso” che incide come Duo Padano.
Dopo la pensione Rino, rimasto vedovo per la prematura scomparsa di Mary, allunga sempre di più i suoi soggiorni romagnoli e le serate canore si moltiplicano, non disdegnando, ovviamente, la vicina riviera adriatica.
Nel settembre 1999 Rino si toglie una grande soddisfazione nella sua Milano. Partecipa alla 19° edizione di “Milanocanta”, kermesse organizzata da Radio Meneghina, e la vince, cantando la canzone in dialetto milanese “I fioeu de la Piazzetta”, scritta dal suo antico amico Roberto Marelli, con un testo che rammenta gli anni giovanili trascorsi da entrambi nella piazza di San Lorenzo alle Colonne. La giuria del pubblico in sala apprezza molto il tuffo nella nostalgia e premia la canzone con 376 voti, contro i soli 81 della seconda classificata.
Negli anni duemila procedono numerosissime le esibizioni musicali, alcune anche a Castel Bolognese, con un recital al Centro Sociale Castellano, la partecipazione alla serata in memoria di Leo Ceroni e l’animazione dell’inaugurazione della piscina comunale nel giugno del 2008. Il pubblico apprezza ovunque la bella voce di Rino, che sa coinvolgere gli spettatori con la sua simpatia e la presenza scenica.
Personalmente lo ricordiamo ancora a dar man forte a Primo e Marco Galeati anche nel loro spettacolo di pianobar alla Festa del Brazadèl e del vino novello nel novembre del 2021. E siamo certi che non sarebbe mancato alle prime feste di Castel Bolognese post-alluvione.

 

 

 

 

 

The post Rino Gionchetta (1941-2022), cantante milanese-romagnolo appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/rino-gionchetta-1941-2022-cantante-milanese-romagnolo/feed/ 6
Domenica (Ghina) Solaroli farmacista https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/domenica-ghina-solaroli-farmacista/ https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/domenica-ghina-solaroli-farmacista/#respond Thu, 10 Aug 2023 21:19:27 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=10891 di Lodovico Santandrea Nell’ottobre del 1878 nacque Carlo Solaroli e, come succedeva all’epoca, fu la levatrice dopo tre o quattro giorni ad andare in comune per denunciarne la nascita, ma, forse aveva fatto confusione, forse si era dimenticata del nome che le avevano indicato i genitori, fatto sta che all’anagrafe …

The post Domenica (Ghina) Solaroli farmacista appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
di Lodovico Santandrea

Nell’ottobre del 1878 nacque Carlo Solaroli e, come succedeva all’epoca, fu la levatrice dopo tre o quattro giorni ad andare in comune per denunciarne la nascita, ma, forse aveva fatto confusione, forse si era dimenticata del nome che le avevano indicato i genitori, fatto sta che all’anagrafe lo denunciò come Tommaso. Comunque è sempre stato per tutti Carlò e, come ogni castellano, ebbe il suo soprannome: Carlò d’Manarèba, a cui si aggiunse “Quel che sfaseva i nod senza curtléna”.
Fin da giovane abbracciò la fede anarchica e, quando doveva sposarsi con Santina Utili, poiché all’epoca ci si sposava sia in chiesa che in comune, lei, cattolica credente, pretese che il matrimonio fosse celebrato prima in chiesa perché sapeva che se si fossero sposati prima in comune poi non sarebbe più riuscita a farlo andare in chiesa.
Dal matrimonio nacquero nel 1901 Domenica (per tutti Ghina) e nel 1904 Vincenzo (per tutti Cencio).
Forse perché il paese era povero, forse per le sue simpatie anarchiche, malviste dal governo specialmente dopo l’attentato di Bresci, nel 1904 Carlò decise di emigrare in Argentina, partendo in nave da Genova, dove trovò occupazione nelle ferrovie ed evidentemente si dimostrò persona capace tanto che fu promosso a capostazione, un impiego ben remunerato che lo convinse a chiamare la famiglia a raggiungerlo. Predispose tutto per il viaggio ma una notte sognò la Torre e, vinto dalla nostalgia, annullò tutto e ritornò a Castello.
Tornato a casa iniziò l’attività di salumaio, ardaròl, producendo la miglior mortadella di Castello e tutti i salumi che si consumavano allora, nonché la barlenga, un piatto esclusivamente castellano, forse ancor più tipico dei bracciatelli da la croce, fatto con sangue di maiale, farina gialla e sale, ricetta che Ghina aveva conservato e leccornia che io ho avuto la fortuna di mangiare. Mamma la preparava in una grande teglia poi la mandava al forno per farla cuocere e, appena arrivava in casa, ne veniva tagliata una grande porzione che, deposta su un piatto e coperta da un tovagliolo, io ero incaricato di portare al Dott. Bagnaresi: quando Carlo mi vedeva entrare gli si illuminavano gli occhi e penso non la dividesse con nessuno della sua famiglia.
L’altro ardaròl di Castello era Giacomino d’Por con il quale, nonostante i due negozi fossero vicini, non c’era concorrenza, ma amicizia vera. Giacomino è stato un personaggio a Castello, famoso per i suoi detti pieni di saggezza, come quando, leggendo sul giornale che era caduto un aereo che aveva provocato la morte di centinaia di persone, sentenziò: “L’ha da vulé i usell”, mentre sul letto di morte con i suoi quattro figli intorno, tutti uomini fatti, due veterinari ed un notaio, si rivolse a loro dicendo: “A v’ho insignè a ster a e mond, adess a v’insegn a murì”.
Evidentemente il lavoro di pizzicagnolo stava andando bene e dava una buona resa tanto che con atto del notaio Nanno Nanni di Bologna del 17 ottobre del 1917 Santina Utili acquistò al prezzo di Lire 6.000 una casa sita in Corso Garibaldi e Via Gottarelli che fu adibita sia ad abitazione sia a negozio dove il marito svolgeva l’attività di salumeria.
Successivamente, con atto del Notaio Giuseppe Calderoni di Faenza del 28 Settembre 1918, Carlò acquistò, per accorparla a quella comprata dalla moglie, dai cugini Vincenzo e Gabriele Tassinari al prezzo di Lire 32.000 una casa sita in Corso Garibaldi unitamente al diritto privilegiato di farmacia. Infatti in tale immobile era stata svolta l’attività di farmacista dal Dott. Giacomo Tassinari (padre di Gabriele).
Ghina allora frequentava a Bologna il Pier Crescenzi ed essendo la maggiore, per poter sfruttare il diritto di farmacia, si iscrisse alla facoltà di Chimica e Farmacia dove si laureò brillantemente nel 1925, mentre Cencio si laureò in Agraria divenendo apprezzato consulente per la grande tenuta agricola dei conti Marzotto da cui non volle mai essere pagato in quanto riceveva lo stipendio in qualità di direttore del Consorzio Agrario di Ferrara.
Con sacrifici, tanta voglia di lavorare e onestà Carlò e Santina erano riusciti, in tempi non certo di benessere dilagante, ad acquistare una casa ed a far laureare due figli.
Per dimostrare la differenza abissale che divideva allora Castello da Bologna mamma mi raccontava che una sera, ritornando alla stanza dove viveva a Bologna, insieme ad una compagna di università si incamminarono lungo Via Indipendenza, poi svoltarono in Via Goito e, quando si fermarono dinnanzi alla porta della casa, scoprirono che pur abitando nel medesimo immobile non si erano mai incontrate. Storie di altri tempi.
Nel 1925, per sfruttare il diritto di farmacia acquistato, Carlò e Santina si fecero prestare Lire 100.000 per avviare l’attività fornendo al mutuante come garanzia un’ipoteca sui loro immobili, impegnandosi a restituire la somma in 10 rate semestrali comprensive degli interessi, così Ghina poté iniziare quella professione che per quasi sessant’anni è stata la sua vita e le ha regalato immense soddisfazioni.
Allora non esistevano i medicinali già pronti e confezionati come li conosciamo oggi, ma dovevano essere preparati con cura dal farmacista secondo quanto aveva imparato all’università e richiedevano attenzione e precisione in quanto un dosaggio non perfetto ne avrebbe alterato l’efficacia. Non per nulla esiste il detto: “Misurare con il bilancino del farmacista”.
Ghina iniziò la professione con il massimo impegno ed, evidentemente, con cura ed abilità, tanto che i risultati furono da subito soddisfacenti e le procurarono una clientela affezionata che nutriva in lei una fiducia illimitata e, impegnandosi nel seguire i propri clienti quando erano ammalati, arrivò a dare consigli a chi le si rivolgeva perché all’epoca, non esistendo le mutue, in paese erano tante le persone che non si potevano permettere la spesa di pagare il dottore, fermandosi però laddove si rendeva conto che le sue conoscenze non potevano supplire al parere del medico.
Il suo carattere forte e determinato le consentì di riscuotere la fiducia di chi era diventato suo cliente e, come succedeva a quei tempi ai farmacisti, divenne un personaggio influente e riconosciuto da tutta la comunità castellana.
Siccome era dotata di carisma unito ad una forte personalità fu una delle poche persone di Castello che non si iscrisse mai al PNF senza essere soggetta a persecuzioni, benché figlia di un anarchico le cui idee erano note a tutti, tanto che in occasione di una delle elezioni che si svolgevano in quegli anni dove era presente un’unica lista, alcuni fascisti vennero a prelevare da casa Carlò, che non aveva mai votato, per sfregio lo condussero fin sulla porta del seggio elettorale e, rivolti al presidente, annunciarono: “Carlò l’ha vutè”.
Proprio perché si era dimostrata un personaggio influente e ben considerato nel paese le furono rivolti solo alcuni piccoli sgarbi, come quella volta che il podestà le portò in farmacia un teschio chiedendole di pulirlo; lei non sollevò obiezioni, anzi, con le sue preparazioni, lo lucidò, poi avvisò il podestà che quello che le aveva portato era pronto e che sarebbe potuto passare in farmacia a ritirarlo.
In un’altra occasione, a ridosso del 28 ottobre, il podestà, tramite un suo incaricato, le fece sapere che era meravigliato del fatto che lei, un personaggio importante della comunità, non avesse mai partecipato a quella celebrazione, così quella mattina chiuse la farmacia, che si trovava proprio sotto l’edificio in cui aveva sede il municipio, e, con il grembiule bianco da farmacista, entrò bel bella nella sala del consiglio dove evidentemente il suo abbigliamento non convenzionale fu notato da tutti e questo comportamento fece in cinque minuti il giro del paese.
Poi successe un fatto molto grave: essendo venuto a sapere che i fascisti stavano cercando Machì, un calzolaio anarchico suo amico, per picchiarlo, Carlò passò davanti alla sua bottega avvisandolo: “Machì scapa ch’it zerca i fascesta” evitandogli una bastonatura. La cosa si venne a risapere e iniziò a correre voce che Carlò era stato proposto per il confino. Così Ghina, preoccupatissima, una sera si recò presso la sede locale del fascio in quanto sapeva che in quell’occasione sarebbe stato presente l’avvocato De Cinque, all’epoca un importante gerarca, per perorare la causa di suo padre e, anche grazie alla stima di cui godeva in paese ed alla sua forte personalità, fu talmente convincente che riuscì ad evitare che fossero prese misure punitive nei confronti di suo padre.
Dopo la metà degli anni venti si fidanzò con Cecchino Santandrea, ma il rapporto era alquanto singolare perché Cecchino era legatissimo alla sua famiglia e le sue sorelle che vivevano in casa, ambedue signorine, ne erano particolarmente gelose per cui il fidanzamento era anomalo per quei tempi in quanto Ghina non era accettata in casa del fidanzato, mentre lui aveva buoni rapporti con Carlò e Santina, tanto che quando venne a Castello, proprio a casa di Carlò, Errico Malatesta per parlare con gli anarchici castellani, lui era presente, pur non essendo un anarchico ma un libero pensatore libertario.
Verso la metà degli anni trenta giunse a Castello una compagnia di commedianti che faceva onore al detto “Avè una fà da cumigient” perché versavano nella miseria più nera. Il capo della compagnia aveva con sé un bimbo di sette otto anni, Sergio, che si doveva trascinare dietro perché la mamma lo aveva abbandonato appena nato e, il paese è piccolo, fu preso a benvolere sia da Ghina che dai suoi genitori così quando la compagnia se ne dovette andare il padre lasciò il bambino, temporaneamente disse, alla famiglia Solaroli dove, dopo tanto tempo iniziò a mangiare per quanta fame aveva. Era inverno e, quando si trattò la prima notte di metterlo a letto, per tranquillizzarlo gli dissero che nel letto gli avrebbero messo il prete e la suora, ma lui si mise a piangere disperatamente senza capire che si trattava degli arnesi che da noi si usavano per scaldare il letto, raccontando che, alla fine di uno spettacolo, lo avevano fatto dormire dentro una bara di scena perché nessuno poteva permettersi il costo di una stanza in una locanda.
Ci fu per un po’ di tempo uno scambio di lettere ed il padre credette che la cosa migliore per Sergio fosse rimanere a Castello e così il bambino entrò a far parte della famiglia dove non chiamò mai Ghina mamma, ma invece chiamò sempre nonno e nonna Carlo e Santina.
Per il suo carattere scoppiettante ebbe, da buon castellano, il suo soprannome: “Zinever” e completò gli studi diventando maestro, dando nel contempo una mano in farmacia dove si comportava con molta diligenza.
Quando nel 1937 morirono Lodovico e Fortunata Santandrea le sorelle di Cecchino gli si attaccarono ancora di più e lui si sentiva impegnato dall’ultimo biglietto che gli aveva affidato sua madre: “Cecchino ti raccomando le tue sorelle”.
Siccome di queste cose in casa se ne è sempre parlato con parsimonia faccio una ricostruzione personale basata solo sulla conoscenza dei miei genitori: penso che mia madre, dopo più di dieci anni di fidanzamento, abbia deciso di dare una svolta al rapporto, così nel 1938 una mattina, mentre era in farmacia con la sua grande amica Tina beglia, arrivò a prenderla Cecchino e Ghina chiese a Tina di prestarle il cappello che indossava e quando lei, curiosa come non mai, le chiese a che cosa le servisse le rispose “A vegh a maridem” ma naturalmente Tina, che sapeva vita morte e miracoli di tutto Castello, non le credette, invece Cecchino e Ghina si recarono a Imola dove fu il vescovo a celebrare il matrimonio.
Fecero poi un viaggio che a quell’epoca aveva dell’incredibile, andarono a Parigi dove Cecchino aveva un amico e una sera stavano per entrare nell’abitazione di un italiano che viveva là da rifugiato politico, ma l’amico li convinse a non andare perché quell’abitazione era sorvegliata e, ritornati in Italia, avrebbero certamente incontrato dei grossi problemi con le autorità fasciste.
Nonostante fossero sposati rimasero ambedue a vivere ognuno a casa propria, poi nel 1939 nacque Fortunata e, per festeggiare l’evento, fu stampato un biglietto che dava l’annuncio del lieto evento. Fortunata continuò a vivere con la mamma e con i nonni materni.
Cecchino però desiderava un figlio maschio e nel 1942 Ghina restò incinta ma, essendo una donna che non si risparmiava nessuna fatica, nel fare uno sforzo e si accorse di avere una perdita di sangue, così il bambino il 20 dicembre del 1942 nacque morto, ma gli fu comunque imposto il nome di Lodovico.
Si era in tempo di guerra ma, visto che lei aveva già 43 anni e Cecchino 51, concepirono un altro figlio, poi arrivò il fronte sul Senio e vi si arrestò, così tutta la famiglia Santandrea con la fedele domestica Gilda Piancastelli, compresa Ghina, sfollò nella casa della Serra dove io sono nato alle tre di pomeriggio del 10 ottobre del 1944. Cecchino allora inforcò la bicicletta, una Taunus, bianca, e, sotto le bombe, andò a Imola dal fioraio Mazzini per comprare alla moglie un mazzo di fiori.
Nella casa si erano attestati i tedeschi e, in generale, ci trattavano bene anche se mi è stato raccontato che una sera un tedesco ubriaco, fra il terrore dei miei genitori e delle mia zie, si avvicinò alla culla puntando una pistola, evidentemente senza usarla se sono qui a raccontarlo.
Mia mamma però dopo il parto ebbe dei gravi problemi di salute tanto che fu necessario che fosse ricoverata al Sant’Orsola dove le fu fatta una puntura lombare che deve essere stata dolorosissima se è vero che ogni volta che lo ricordava lo faceva con ancora il terrore negli occhi. D’altronde in tutta la mia vita l’ho vista piangere solo due volte: una domenica mattina in Via Venezian a Bologna quando uscì da una seduta dal dentista ed una notte quando molto sofferente venne a svegliarmi dicendo che aveva un infarto e chiedendomi di andare in farmacia a prenderle un medicinale; fortunatamente non era un infarto ma il “Fuoco di Sant’Antonio” che l’aveva colpita in maniera dolorosissima.
Durante il periodo in cui il fronte si era arrestato sul Senio a far la guardia alla farmacia con i nonni era rimasto Sergio che forniva a chi ne aveva bisogno i pochi medicinali rimasti perché l’edificio era stato quasi completamente distrutto dai bombardamenti. Ghina però era in possesso di una pistola che, avvolta nella carta oleata, aveva nascosto in un vaso di vetro che conteneva polvere di potassio e, quando in farmacia si presentò un ufficiale tedesco a chiedere del potassio, Sergio provò a dire che non ne aveva, ma questi, indicando il vaso, fece notare che era proprio lì davanti, così, usando una paletta con la massima circospezione, Sergio gliene preparò un sacchetto sapendo che, se avesse scoperto l’arma, ci sarebbe stata la fucilazione sia per lui che per la proprietaria della farmacia.
Per la Pasqua del 1945, quando ormai i tedeschi si stavano ritirando, dalla Serra facemmo tutti ritorno a Castello e, in quell’occasione, era venuto nonno Carlo che si avviò tenendo in braccio Fortunata, ma improvvisamente arrivò un aereo a mitragliare e Carlò, per proteggersi, si gettò con la bimba in un fosso e, solo dopo che il pericolo era passato, si rese conto che quel fosso era un deposito di bombe ed esplosivi che, fortunatamente, non era stato colpito.
Il giorno della liberazione i tedeschi, prima di ritirarsi, minarono tutte le colonne del portico, dalla piazza fino alla fine del portico verso Faenza, ma Sergio corse a strappare la miccia, salvando tutti gli edifici che, anche se colpiti dalle bombe e danneggiati gravemente, erano restati in piedi. Solo successivamente arrivarono in piazza i “liberatori”.
La guerra, oltre a morte e distruzione, portò nuovi sviluppi in tutti i campi, tanto che una delle invenzioni che maggiormente ebbero un beneficio per l’umanità fu la scoperta della penicillina che modificò radicalmente la scienza medica, così dai preparati dei farmacisti si passò a quelle che vennero chiamate “specialità”, cioè medicinali già pronti e confezionati, ma per un lungo periodo i vecchi farmacisti continuarono ad esercitare la loro professione di speziali, tanto che ricordo che per la febbre venivano confezionate le cosiddette “cartine” che consistevano in una miscela di polveri medicinali racchiuse in una carta sottilissima che doveva essere immersa nell’acqua per poi venire inghiottita dal malato, così come venivano preparate le mucillagini e tanti altri prodotti, ma piano piano questi preparati vennero sostituiti da medicinali già pronti venduti dietro la presentazione della ricetta medica.
Quando incominciò la ricostruzione del paese casa Santandrea fu ricostruita e per far sì che la mia famiglia vi si trasferisse, finalmente al completo, mentre la vecchia abitazione fu rifatta più o meno come era prima della guerra, nella parte di Via Camerini verso la casa del Dott. Bagnaresi fu predisposto un appartamento a sé stante in cui avrebbe dovuto andare ad abitare tutta la mia famiglia, ma invece ci trasferimmo tutti nella casa dove abitavano mio zio e le mie zie e mamma entrò in punta di piedi all’interno di una delle famiglie più in vista di Castello ed a poco a poco, grazie alla sua forte personalità, non solo fu ben accetta ma, dopo mio padre, diventò il punto di riferimento di tutta la famiglia, nonostante babbo amasse ripetere scherzosamente con la sua arguzia: “In casa mia comanda la Francia”
Il paese, dopo tante tribolazioni e lutti, ricominciò a prendere vita e arrivarono le grandi novità: le mutue, per cui i medici ed i medicinali non si pagavano più e i malati potevano averli gratis e questo ne incrementò la vendita a favore dei farmacisti il cui lavoro aumentò esponenzialmente, ma Ghina rimase per tutti i suoi clienti la confidente anche se, per rispetto verso i medici, con i quali aveva ottimi rapporti e reciproco rispetto, quando pensava che i suoi consigli potessero confliggere con le diagnosi mediche, rimandava al medico curante la risoluzione dei quesiti che ormai i pazienti erano da sempre abituati a sottoporle.
Pur essendo una persona che incuteva soggezione nessuno dei suoi clienti la chiamava dottoressa, ma per tutti loro era semplicemente Ghina.
Quando fu ricostruita la casa la farmacia si trovava sotto il portico vicino alla macelleria di Badiali, ma i locali erano troppo piccoli per l’attività che andava sempre più espandendosi, così Ghina, che ha sempre sofferto del cosiddetto “mal della pietra”, rivoluzionò sia la casa sia la farmacia che spostò nell’angolo fra la Via Emilia e la piazza, ingrandendola e ricavando locali più spaziosi sia per la farmacia che per i magazzeni.
L’attività prosperava tanto che ogni tanto il venerdì, giorno di mercato, poteva dire con soddisfazione che l’incasso era di ben 50.000 lire, cifra ragguardevole all’epoca.
A me piaceva stare in farmacia ed avevo incominciato ad imparare cosa c’era nei cassetti del banco ed a 6-7 anni feci la prima esperienza di farmacista in erba: una mattina mamma mi disse che doveva salire in casa, raccomandandomi di non abbandonare la farmacia per nessun motivo, ma poco dopo entrò Bagiola, grande amico di nonno Carlo, dicendo che aveva mal di testa, allora presi dal cassetto una bustina di Saridon (che allora costava 40 lire) poi, per sicurezza, salii in casa chiedendo se potevo darglielo e mi presi una bella sfuriata perché mi ero allontanato dalla farmacia nonostante mamma mi avesse ordinato di non farlo, ma, come sapevo, il Saridon andava bene per il mal di testa e conclusi la vendita.
Con la farmacia Bolognini i rapporti sono sempre ottimi, con i turni domenicali ed il servizio notturno alternati ogni settimana e, per una regola non scritta, Gino Bolognini teneva aperto il giorno di Natale e Ghina il primo dell’anno.
Poiché il lavoro aumentava sempre di più Ghina assunse in tempi diversi due farmaciste appena laureate, Valeria Zanelli prima, poi Maria Ballardini, ma evidentemente non era sufficiente la loro collaborazione per far fronte al lavoro nonostante anche Sergio desse una mano, così cominciò a “corteggiare” Tino Biancini, per tutti Tinè d’Olga, che aveva già svolto il lavoro di commesso di farmacia, ma lui all’epoca lavorava nella bottega di Pagnoca e, benché lo stipendio propostogli fosse superiore, promise che sarebbe andato a lavorare in farmacia solo dopo che Pagnoca avesse cessato l’attività: altri tempi e altre persone.
Quando Pagnoca chiuse il negozio Tino venne a lavorare in farmacia, rimanendoci per più di trent’anni fino al momento della pensione.
Dopo la metà degli anni 50 gli italiani cominciarono ad andare in ferie, specialmente al mare, in particolare a Rimini, e le domeniche pomeriggio d’estate, quando la farmacia era aperta per turno, Carlò si sedeva sotto il portico su un banzolino di fianco alla porta e alla sera riferiva il numero esatto delle automobili che erano passate lungo la Via Emilia, sia verso Rimini che di ritorno dal mare ed era una sua caratteristica questa precisione che gli veniva riconosciuta da Cecchino che si fidava completamente dei suoi numeri.
Nel 1956 Carlò, che anni prima era stato colpito da un ictus che la aveva costretto a girare con il bastone, che lui, quando mi minacciava scherzosamente, non so perché chiamava Pediani, si aggravò e la prognosi era decisamente negativa, e di quei giorni mi sono stati raccontati due episodi che mi sono rimasti impressi nella mente: una sera era presente zio Cencio, venuto appositamente da Ferrara, che si offrì di assisterlo lui per tutta la notte per dare sollievo a Ghina che si era assunta quel compito, ma lei rimase lo stesso e, durante la notte, Carlò si svegliò e, vedendo Cencio appoggiato al letto che dormiva, si rivolse a mamma dicendole: “E l’era lò ch’um aveva da badé”, mentre qualche giorno dopo, quando sembrava che fosse alla fine, al capezzale c’era anche Cecchino che però venne via commentando: “Carlò l’ha amulè una biastema garnida. Par sta nott un s’mor”.
Carlò morì in agosto, i suoi compagni anarchici affissero un commovente manifesto funebre e, siccome allora si moriva in casa, il funerale, rigorosamente civile, attraversò la piazza e, per andare al cimitero, passò davanti a San Petronio e fu l’ultima volta che che accadde perché Don Sermasi, l’arciprete, se ne lamentò con il sindaco che da allora in poi vietò che i funerali civili transitassero davanti alla chiesa. Per la verità nel 1968 quando morì Armando Borghi, che aveva espresso il desiderio di passare per il suo ultimo viaggio sotto la Torre, il corteo doveva proseguire lungo Via Ginnasi, ma gli anarchici bloccarono tutto pretendendo che si proseguisse lungo Via Garavini e fu il buon senso del sindaco Nicodemo Montanari a dare il via libera evitando spiacevoli incidenti in occasione del funerale dell’illustre concittadino.
Allora le farmacie non chiudevano per ferie e noi andavamo un mese al mare a Rimini accompagnati o da mia zia, o da Sergio o da una delle dottoresse e il sabato sera venivano babbo, e mamma quando non era di turno, ma un pomeriggio mamma arrivò con due belle notizie: Sergio era entrato di ruolo come maestro e lei e Bolognini, avevano deciso di iniziare a chiudere per quindici giorni d’estate perché, disse, “An voi fè i suld par la cassa”.
Poiché nella scala dei valori di Ghina, subito dopo la famiglia, veniva la farmacia, la sua vita, che le aveva dato enormi soddisfazioni, per paura che l’attività andasse perduta, decise che Fortunata, in quanto figlia maggiore, si iscrivesse a Farmacia poiché all’epoca la legge prevedeva che il figlio di un farmacista, purché iscritto a tale facoltà, avesse il diritto, una volta laureato, di subentrare nell’attività anche nel caso in cui nel frattempo fosse morto il titolare.
Il banco era un massiccio mobile del 600, forse appartenuto a monaci speziali, che aveva nella parte anteriore 21 cassetti, uno per ogni lettera dell’alfabeto, in cui venivano tenute le erbe e gli altri prodotti medicinali che usavano all’epoca, dietro il banco c’erano due scansie con i tipici vasi da farmacia anch’essi del 600 contenenti i prodotti che servivano per le preparazioni manuali e, in alto, chiuso a chiave, un mobiletto con il teschio ove erano custoditi i veleni e gli oppiacei, mobiletto a cui aveva accesso solo Ghina e di cui peraltro nessuno sapeva dove tenesse la chiave, mentre nell’ampio retro della farmacia c’era il magazzeno con gli alti scaffali in cui si trovavano tutti i medicinali in ordine alfabetico.
A fianco del magazzeno c’era un ampio corridoio, il regno di Ghina, perché lì sapeva solo lei come muoversi, dove su un mobile c’erano i medicinali del Dott. Budini, il Dottore dei fiori, che ai pazienti prescriveva 2 fiale, 15 compresse, mezza bottiglia di sciroppo, ma mai una confezione intera ed in fondo lo scaffale dei prodotti per la veterinaria, messi non in ordine alfabetico, ma secondo un suo personale criterio che metteva in difficoltà nel reperirli tutti quelli che dovevano accedervi. Era infatti lei che, quando non serviva il veterinario, prescriveva le cure per gli animali, specie quelli da cortile e le arzdore le si affidavano ciecamente, ma una volta che una contadina le chiese aiuto perché: “Um mor tott i pisè c’sa putegna fè?”, le rispose :”Un bèl funerel”.
Le famiglie contadine, Taramot, Madòna, Santa Catarena e tante altre si rivolgevano a lei con fiducia, “segnavano” e alla fine dell’anno si presentava l’arzdor per pagare cercando di ottenere uno sconticino. Appassionata di calcio riforniva del necessario la squadra del Castello e, a campionato finito, come si usa dire, stracciava la lista.
Nicola Utili, non so in quale occasione, le aveva confidato gli ingredienti e le dosi per un preparato di cui lui si serviva nella sua arte di liutaio e che poteva avere un uso anche medico, penso per le emorroidi, raccomandandosi di non rivelarne a nessuno la composizione e lei quel segreto se l’è portato nella tomba.
Ghina conosceva i problemi sanitari di tutti i suoi clienti ma, da professionista seria e scrupolosa quale era, non ne parlava mai, neppure in famiglia, ed era molto attenta alla riservatezza dei suoi clienti, come accadde una mattina quando una ragazza ebbe una crisi epilettica in farmacia: mandò fuori i clienti, chiuse la saracinesca e non riaprì finché la ragazza non si fu ripresa.
Le piaceva invece raccontare episodi divertenti, come quando i clienti, inglesizzando la pronuncia, le chiedevano un litro di alcùl, o quando una mattina Edgardo Contarini, che lavorava come garzone da Zuffa, venne con una ricetta per un medicinale che lei non aveva e, siccome veniva spesso per conto di Zuffa, lei gli disse di andare a chiedere al padrone se andava bene lo stesso che il medicinale arrivasse nel pomeriggio; poco dopo Contarini ritornò dicendole: “Zuffa l’ha dett c’us infrega” e allora gli chiese: “Ma la midgena l’ha n’è par lò?” e la risposta fu; “Nò l’è par mì mé”.
Poco dopo che Fortunata si laureò le intestò la farmacia, pur continuando lei ad essere il deus ex machina, a fare i turni di notte alternandosi con Tino (Sergio nel frattempo si era sposato) ed a fare gli ordini ai magazzini all’ingrosso.
Poi, per dare maggiore impulso all’attività, visto che le esigenze della clientela si erano affinate, dotò la farmacia di un ampio scaffale per farne un reparto di cosmetici e profumeria, una novità per le farmacie, ma d’altronde il fiuto per lo sviluppo della sua professione, che ha sempre svolto con amore e passione, la aveva accompagnata fin da quell’ oramai lontano 1925.
Nei primi anni 80 fu colpita da un infarto di estrema gravità che la costrinse, anche dopo che si era ripresa, ad abbandonare quella professione che era stato tutta la sua vita e Fortunata decise che la professione di farmacista non faceva per lei, d’altronde con mamma non ne aveva mai fatto mistero, e così la “Farmacia Solaroli, Antica Farmacia Tassinari” come era impresso nel suo timbro, fu venduta.
Il contraccolpo fu forte ma Ghina, con il suo carattere di ferro, riuscì a superarlo finché fu colpita da un grave problema di salute: superò anche quello, ma quando si ripresentò venne ricoverata a Faenza nella clinica Stacchini dove io, anche trascurando la mia professione, cercavo di andarla a trovare ogni giorno per ricompensare, sia pure in minima parte, l’immenso amore che lei mi aveva donato per 41 anni.
Il 19 aprile del 1985 dovevo essere alle 10 in Tribunale a Ravenna per un interrogatorio penale e mi alzai presto per potermi fermare in clinica a salutarla e dove la trovai bene, poi alle 9 e mezzo la salutai dicendo che andavo a Ravenna e che, quando avessi finito, sarei ripassato. Lei mi disse: “Va piano” e quelle sono state le ultime parole che ho sentito da lei perché, quando tornai, era entrata in coma. Rimasi al suo capezzale tutto il pomeriggio e tutta la notte, stando bene attendo a non addormentarmi, memore di quanto era accaduto quando mio zio Cencio voleva fare la notte a Carlò.
La mattina andai a casa a dormire e nel pomeriggio tornai a Faenza dove alle sette e un quarto si spense davanti ai suoi figli a cui aveva donato amore e inculcato l’insegnamento dei valori che l’avevano accompagnata per una vita che, ne sono certo, la aveva resa degna di essere vissuta.

The post Domenica (Ghina) Solaroli farmacista appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/domenica-ghina-solaroli-farmacista/feed/ 0
Lino Pasotti, un’amicizia lunga quasi sessant’anni https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/lino-pasotti-unamicizia-lunga-quasi-sessantanni/ https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/lino-pasotti-unamicizia-lunga-quasi-sessantanni/#comments Sat, 18 Feb 2023 21:39:03 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=10356 di Paolo Grandi 17 febbraio 2023 Ci eravamo conosciuti nelle aule della scuola elementare; lui scolaro di mio padre Tristano frequentava la quinta elementare, io la prima. Tuttavia mio padre aveva coinvolto i suoi alunni e me in una raccolta di figurine, se non ricordo male a carattere storico relative …

The post Lino Pasotti, un’amicizia lunga quasi sessant’anni appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
di Paolo Grandi
17 febbraio 2023

Ci eravamo conosciuti nelle aule della scuola elementare; lui scolaro di mio padre Tristano frequentava la quinta elementare, io la prima. Tuttavia mio padre aveva coinvolto i suoi alunni e me in una raccolta di figurine, se non ricordo male a carattere storico relative all’Impero Romano ed a ricreazione o alla fine delle lezioni salivo nella grande aula d’angolo di levante per fare gli scambi: non solo con lui ma con i suoi compagni, tra i quali Jader Dardi, Oreste Diversi, Ennio Nonni, Ubaldo Bagnaresi, Michele Pisotti, Roberto Muccinelli ed altri.
Fuori da scuola, negli anni successivi, lo incontravo in Parrocchia, ma anche a casa sua ove mi recavo con la mia mamma in quanto la mamma di Lino aveva la macchina plissettatrice, per operare le pieghe sulle gonne dell’epoca. Poi nell’adolescenza alle riunioni della Gioventù Studentesca dove piano piano mi riavvicinai a lui per la curiosità di saperne di più sulla storia della nostra chiesa. Ancora, un amico comune, il Professor Stefano Borghesi, volle invitarmi a presenziare alle riunioni della Democrazia Cristiana soprattutto per collaborare al periodico “Vita Castellana” e lì lo incontrai di nuovo: il suo corpo robusto, la non eccessiva altezza, il viso tondo e la sigaretta perennemente accesa; seguirà per anni il borsello sotto il braccio. Lino, ottenuto il diploma di ragioniere, lavorava già alla COFRA ma la sua frequentazione con personaggi di alto spessore come il dottor Antonio Corbara ed i sacerdoti don Antonio Garavini e don Alessandro Pompignoli, oltre al duo Giovanni Scardovi, Cavurì e Tino Biancini lo avevano plasmato quale profondo conoscitore dell’arte e della storia delle chiese di Castel Bolognese nonché alla conoscenza delle liturgie legate alle festività maggiori del paese. Ma il suo impegno per Castel Bolognese non si fermava qui. Su suggerimento dell’allora assessore Giampietro Brunetti fu nominato rappresentante del Sindaco all’interno del Consiglio dell’Associazione Pro Loco, incarico che lasciò col cambiamento politico della Giunta nel 1975. Lino però non lasciò la Pro Loco divenendone Segretario e su sua indicazione quel Consiglio mi chiamò l’anno successivo per ricoprire quell’incarico rimanendo Lino quale Cassiere dell’Associazione. Cresciuto, sul lavoro, in una cooperativa, ne respirò lo spirito e fu tra i soci fondatori della Cooperativa “la Famiglia” di cui fu per lungo tempo Consigliere poi Presidente. Lasciato il lavoro alla COFRA, entrò alla CARMI a fianco di Severino Sangiorgi e qui, appassionato di sistemi meccanografici, i “nonni” dei computer e poi di informatica che all’epoca muoveva i primi passi, la introdusse sia alla CARMI che alla Cooperativa “La Famiglia” ove assieme tenevamo la contabilità anche della Associazione Pro Loco.
Era questo il periodo nel quale, ricostituito il Circolo Parrocchiale, ne eravamo tra i più assidui frequentatori ed organizzavamo spesso gite domenicali a quattro: lui, Valerio Brunetti, Stefano Borghesi ed io, a cui successivamente si aggiunse la fidanzata poi moglie di Valerio Nadia Ragazzini ed altri amici, ove al di là delle visite culturali l’obiettivo era di trovare la “bettolaccia” ove avessimo mangiato bene ed il giudizio sul pranzo era dato soprattutto, dalla quantità di dolce servito! E ciò nonostante Lino era anche tra i più assidui donatori AVIS! Mi sovviene a questo punto un ricordo: con la “banda dei quattro” eravamo andati in gita a Palmanova, città anche piena di caserme e di una scuola della Guardia di Finanza. A pranzo Lino, che era espertissimo fiscalista e tributarista, ci illustrava una novità sull’IVA introdotta nei giorni precedenti. Chissà, forse il ristoratore sentendo quei discorsi ci scambiò per funzionari della Tributaria o per allievi della Finanza, fatto sta che ci cascò lo sconto e l’ammazza caffè gratis a fine pranzo! Indimenticabili anche le domeniche passate assieme alle famiglie Sangiorgi e Brunetti, sempre con Stefano Borghesi presente nella casa sopra Casola Valsenio per la strada di Settefonti.
Come Presidente della Cooperativa “La famiglia” acquistò ed aprì la nuova e più decorosa sede di Via Contoli. Indimenticabile la frase di Paolo Bassi, funzionario dell’allora Cassa Rurale il giorno dell’inaugurazione: “Tu pé ut geva semper: Fatt una Fameja, fatt una Fameja; t’at tla sì pù fata nòva….”
Negli anni ’90 del secolo scorso Lino raggiunse l’apice lavorativo diventando amministratore delegato della “Nuova Pesci” poi della “Nuova Copma”, tuttavia senza il successo sperato.
Seguirono alcuni anni nei quali Lino, alla ricerca di un nuovo lavoro, rimase alquanto isolato e, attraverso il nascente mondo di Internet, riuscì finalmente a trovare non solo il nuovo impiego ma anche una relazione affettiva stabile della quale forse aveva sentito la necessità dopo aver per anni dedicato la sua vita agli altri senza averne avuto sufficiente riscontro, specie dopo le disavventure lavorative. Il costo di questa nuova vita però fu quello di lasciare definitivamente Castel Bolognese e fu sicuramente sofferto. Tuttavia nella nuova realtà lavorativa di Roma ed in quella affettiva di Bracciano aveva ritrovato la sua precedente serenità. Il cordone ombelicale con Castello non venne reciso del tutto: finché fu in vita la mamma furono frequenti i suoi viaggi, poi anche la salute iniziò a presentargli il conto e si fecero frequenti le visite mediche, non fidandosi lui della alquanto sgangherata sanità laziale, ed in queste occasioni non trascurando di far visita agli amici, gli stessi che poi ne ricambiavano un saluto a Bracciano o a Roma. Ma il legame più forte con Castel Bolognese è rimasto negli anni questo sito di cui è stato uno dei primi estimatori ed uno dei più assidui lettori.
Oggi di lui non ci resta che il ricordo, nella speranza che tra i più abbia ritrovato quei maestri che gli insegnarono l’amore all’arte e al bello per il quale è rimasto fedele tutta la vita.
Una curiosità: mentre Lino frequentava le scuole medie, padre Albino Varotti, allora professore di musica, organizzò un pullman di scolari, tra i più intonati e li portò ad Assisi per registrare “Il coprifuoco”, inno comunale di Assisi. Anni fa ne trovai un disco proprio nella città di San Francesco e lo comprai, ma fu Lino a dirmi che tra quelle voci vi era anche la sua! Da oggi quel disco lo ascolterò con ancora maggior affetto.

The post Lino Pasotti, un’amicizia lunga quasi sessant’anni appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/lino-pasotti-unamicizia-lunga-quasi-sessantanni/feed/ 3
Ricordo di Severino Bellini, “Maré” il gommista https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/ricordo-di-severino-bellini-mare-il-gommista/ https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/ricordo-di-severino-bellini-mare-il-gommista/#respond Sun, 05 Feb 2023 16:51:03 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=10284 di Andrea Soglia Per tutti era Severino o “Maré” o “e gumesta”, ma all’anagrafe si chiamava Saverio Bellini. Per quasi 70 anni è stato il gommista di fiducia di tante generazioni di castellani e universalmente conosciuto come persona perbene, buona, disponibile e gentile con i suoi numerosi clienti, che accoglieva …

The post Ricordo di Severino Bellini, “Maré” il gommista appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
di Andrea Soglia

Per tutti era Severino o “Maré” o “e gumesta”, ma all’anagrafe si chiamava Saverio Bellini. Per quasi 70 anni è stato il gommista di fiducia di tante generazioni di castellani e universalmente conosciuto come persona perbene, buona, disponibile e gentile con i suoi numerosi clienti, che accoglieva allegramente (e, se più in confidenza, ironicamente) nella sua officina non facendo mai mancare una battuta di spirito. La disponibilità verso gli amici, poi, era infinita, tant’è che, come ricorda Cesare Biancini, non esitava ad assisterli anche in piena notte in caso di problemi alle loro auto. Paolo Menzolini, uno dei suoi migliori amici, racconta che Severino gli diceva “Se rimani a piedi, ti vengo a prendere io, anche se tu fossi a Milano”.
Severino è scomparso improvvisamente il pomeriggio di sabato 21 gennaio 2023, a seguito di un malore che l’ha colpito mentre puliva la sua officina nonostante il figlio Fabio si fosse raccomandato che rimanesse in casa al caldo. Si può dire che abbia lavorato fino all’ultimo istante della sua vita, nella sua amata officina mentre era impegnato in quella che è stata la sua principale passione, corredata comunque da tanti altri hobbies, fra cui spiccava il ciclismo. Proprio perché lo si vedeva sempre in officina e sempre in buona forma, sembrava quasi intramontabile, indistruttibile e la sua morte ha suscitato sorpresa e incredulità fra i tanti amici e conoscenti, nonostante Severino fosse prossimo ai 90 anni e nonostante, nell’ultimo periodo, molti l’avessero visto incupito per la scomparsa dell’amata moglie Lilia, madre dei suoi 4 figli (Severina, Antonella, Claudio e Fabio).
Severino era nato a Marradi (e questo spiega il soprannome “Maré”) il 13 maggio 1933 da Emilio e Maria Valtancoli. Severino iniziò ben presto a lavorare, dapprima a Marradi, garzone in un allevamento di suini e già a 9 anni, nel 1942, era garzone presso gli zii Valtancoli nelle campagne di Bagnacavallo; successivamente, a Faenza, entrò alle dipendenze dell’officina ciclistica della famiglia Ortelli e poi della famosa fabbrica di serrature CISA. Di quest’ultima esperienza gli rimarrà sempre l’abilità di riuscire a duplicarsi da sè, con un utensile che aveva sempre conservato, le chiavi di cui aveva bisogno.
Nel 1954 Severino si trasferì a Castel Bolognese dove, nel 1955, aprì la sua attività di gommista. Si era messo in proprio grazie all’aiuto del cognato Vincenzo Rava (marito di sua sorella Vanda) che, già attivo come gommista a Faenza, gli aveva insegnato velocemente il mestiere. La prima sede dell’officina era in via Emilia interna, probabilmente all’attuale civico 206 (dove è situata La bottega del pianoforte e dove, in precedenza, vi era l’esposizione del mobilificio di Ubaldo Capirossi), poco lontano dalla sua prima abitazione castellana, al civico 200 (sopra all’attuale Pizza e Pizza). Nel 1968 il primo significativo cambiamento, con il trasferimento dell’attività nell’edificio appena costruito poco metri più in là, in direzione Imola. Quell’edificio, che attualmente ospita la caserma dei Carabinieri, fu anche la nuova dimora della famiglia Bellini, che traslocò in un appartamento ubicato sopra l’officina. Nel 1982 il trasferimento dell’officina (e della sua abitazione) nell’attuale sede di via Alberazzo 30 in un edificio di cui aveva seguito personalmente la costruzione sin dal 1980. I nuovi spazi erano assai maggiori e consentirono di ingrandire l’attività, ma per Severino costituirono un notevole sforzo che lo portò ad intensificare il suo lavoro anche a discapito dei suoi hobbies. Severino, ma soltanto sulla carta, andò in pensione nel 2000, ma proseguì regolarmente l’attività fino al 2006, quando ci fu l’effettivo passaggio di testimone al figlio Fabio a cui fu intestata la ditta, di cui Severino rimase comunque collaboratore in regola. Ci pare giusto ricordare anche i tre principali dipendenti dell’officina Bellini: Davide Bandini (prematuramente scomparso diversi anni fa), Graziano Baldassarri e Tonino Ferri.
Abbiamo già accennato ai numerosi hobbies di Severino che, soprattutto negli anni ’70, gli tenevano occupato tutto il tempo libero e tutti i fine settimana, con la malcelata disperazione della moglie Lilia che, di tanto in tanto, si ritrovava il marito sotto infortunio e che la spuntò solo una volta, quando riuscì almeno a farlo smettere di andare sulla pista di pattinaggio a rotelle di Riolo Terme, allora divenuta di gran moda. L’hobby principale di Severino è stato il ciclismo, praticato soprattutto a partire dal periodo dell’austerity del 1973. Da tesserato dell’Unione Ciclistica Castel Bolognese, partecipò, almeno fino al 1984 a numemorissime gare amatoriali, vincendone una quarantina, fra cui ben tre campionati provinciali e conseguendo addirittura un secondo posto, a pochi centimetri dal vincitore, in un campionato nazionale disputato ad Imola. Dopo il 1984 si era dedicato solo a numerosi cicloraduni assieme agli amici castellani e ha continuato ad uscire per le sgambate in bicicletta fino a pochi anni fa, quando smise su consiglio medico e accontentandosi di vestire la divisa da ciclista solo per raggiungere la piazza del paese. La sua postura in bici da corsa e il suo viso portavano a farlo somigliare molto a Fausto Coppi, di cui è stato, assieme a Saronni, grandissimo tifoso come confermano i poster appesi in varie parti della sua officina, vicino ad alcune mensole piene zeppe delle tante coppe, medaglie e trofei vinti nelle numerose gare a cui aveva partecipato. E non solo di ciclismo, ma anche di biliardo (boccette e stecca), tennis, calcio amatoriale UISP, briscola, bocce. In tutto questo non poteva mancare anche la caccia, la cui passione, oltre a quella del ciclismo, l’accomunava a tanti amici il cui principale ritrovo, oltre naturalmente ai numerosi bar castellani, era il salone del barbiere Paolo Menzolini in cui teneva banco anche Severino con la sua proverbiale voglia di scherzare e nel quale si fermava a leggere il giornale in un modo del tutto caratteristico, inginocchiato vicino al tavolino anziché seduto sulle comode poltrone.
In un italiano più forbito il mestiere di Severino viene definito “vulcanizzatore”. Viene facile il gioco di parole che ci porta a dire che Severino era “vulcanico”, mai domo e sempre attivo, fino all’ultimo respiro, conscio di poter dare qualcosa anche da “vecchio artigiano”, definizione che prendiamo dal titolo di una poesia che gli piaceva particolarmente e che aveva letto su un giornale, il cui ritaglio lo aveva appeso nel suo ufficio e il cui testo vi proponiamo in chiusura di questo ricordo.

L’artigiano anziano

Una figura che viene dal passato,
sacrificando tutta la sua vita,
oggi si sente solo e abbandonato.
In questa società così svanita
nel suo lavoro sempre s’è impegnato
ma questa società non l’ha capito.
Si parta tanto di democrazia,
abbandonare l’anziano è una pazzia.

E’ una vera ignoranza e ipocrisia
l’abbandono di pregevoli persone
che con il talento e la fantasia
han dato al mondo questa evoluzione.
Si deve a loro rispetto e simpatia,
con onestà han servito la nazione.
Vanno trattati nel modo più corretto
con cortesia e il massimo rispetto.

Anche oggi l’anziano ha del talento,
può dare tanto con la sua cultura,
anche se è passato il suo momento
non si può dimenticar questa figura.
Dentro di loro c’è cuore e sentimento
se ora è anziano, è questa la natura,
vanno trattati con rispetto e cortesia.
Prima l’hai usati, non puoi gettarli via.

(A.B. di 85 anni, Fonteblanda-Grosseto)

Ove non diversamente specificato le fotografie provengono dall’archivio della famiglia Bellini
Si ringraziano per la collaborazione Severina e Fabio Bellini e Sante Garofani

Alcune maglie “storiche” del ciclismo castellano appartenute a Severino (fronte e retro)

The post Ricordo di Severino Bellini, “Maré” il gommista appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/ricordo-di-severino-bellini-mare-il-gommista/feed/ 0
Ricordo di Elsa Benelli, l’edicolante della piazza https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/ricordo-di-elsa-benelli-ledicolante-della-piazza/ https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/ricordo-di-elsa-benelli-ledicolante-della-piazza/#respond Tue, 13 Sep 2022 17:17:52 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=9963 di Paolo Grandi Se n’è andata in punta di piedi, quasi come non volesse disturbare, alla bella età di 101 anni lo scorso 21 agosto 2022, Elsa Benelli per i castellani Elsa d’Oddo, storica commerciante con attività proprio in Piazza Bernardi di fronte alla facciata secondaria della chiesa di San …

The post Ricordo di Elsa Benelli, l’edicolante della piazza appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
di Paolo Grandi

Se n’è andata in punta di piedi, quasi come non volesse disturbare, alla bella età di 101 anni lo scorso 21 agosto 2022, Elsa Benelli per i castellani Elsa d’Oddo, storica commerciante con attività proprio in Piazza Bernardi di fronte alla facciata secondaria della chiesa di San Francesco.
Era nata a Russi il 1 dicembre 1920; il fratello Sergio, maggiore di due anni, militò nei partigiani della 7a brigata GAP Garibaldi di Bologna con nome di “Romagnino” e restò ferito a Castagnolo Minore (Bentivoglio) il 13 settembre 1944; ricoverato all’ospedale di Bentivoglio, morì il 20 novembre 1944. L’amore tra Elsa ed il futuro marito Oddo Diversi, impiegato comunale poi capo della Polizia Municipale sbocciò presto, nonostante la differenza d’età tra loro (Oddo aveva 12 anni di più) ed a 17 anni, il 20 agosto 1938 Elsa e Oddo convolarono a nozze: un matrimonio solido e riuscito, allietato dalla nascita di tre figli.
Ma Elsa non si accontentò solo di fare la moglie e la madre: la suocera Luigia Forbicini, Gigina ‘d Piulèn in quanto vedova di guerra aveva ottenuto la licenza di vendita dei giornali sotto i portici del vecchio comune; un piccola attività che le permetteva il sostentamento della famiglia ed alla quale partecipava pure il compagno Ugo Costa, (Ugo ‘d Badoja) il quale distribuiva i quotidiani in bicicletta. Demolito nel dopoguerra il Palazzo Comunale, la Gigina ottenne dall’Arciprete Sermasi l’andito della scala che porta alla cantoria della chiesa di San Francesco e che si apre sul portico della Via Emilia per continuare provvisoriamente il suo commercio e lì iniziò la collaborazione con Elsa che successivamente ne avrebbe rilevato l’attività.
Nel dopoguerra, Elsa e Oddo comprano dalla farmacista Domenica Solaroli un lotto, per lo più ridotto in macerie, che dà su Piazza Bernardi e vi costruiscono il loro palazzo aperto sulla piazza con quattro vetrine e lì Elsa trasferirà non solo l’edicola, ma aprirà una moderna e fornitissima cartoleria, libreria e vendita di giocattoli. Ritorno un attimo ai miei ricordi di bambino: al di là del banco Elsa era sempre presente e vestita sempre elegantemente; io andavo da lei per fornirmi dei libri della scuola. A volte con il babbo o, piuttosto, con la zia Virginia che assecondava ogni mia richiesta, andavamo a comprare qualche fumetto, in particolare “Braccobaldo”; mi pareva così grande quel negozio! Però Elsa non ha mai venduto i trenini e per questi dovevo per forza andare da Etna Muccinelli, dall’altra parte della piazza, che li teneva anche in bella mostra….
Il lavoro di Elsa era impegnativo: per molti anni infatti fu l’unica edicola di Castel Bolognese ed una delle due cartolerie presenti in città. L’apertura della seconda edicola avvenne tardi, ormai quando Elsa stava per lasciare, e soprattutto, trattandosi della stazione ferroviaria, lei rimase comunque l’unica del centro. Quindi, come dicevo, ogni mattina il primo treno proveniente da Bologna, ad ore antelucane, verso le 4 circa, l’attendeva assieme al Procaccia postale. Da questo Elsa scaricava il pacco dei quotidiani e delle riviste, il Procaccia postale i sacchi della posta diretta a Castel Bolognese, Riolo e Casola Valsenio. Inforcata la bicicletta con i pacchi della stampa Elsa arrivava all’edicola con già qualche avventore in attesa ed apriva l’attività che sospendeva per l’ora di pranzo per riprenderla nel pomeriggio fino all’ora di chiusura, salvo il giovedì pomeriggio e la domenica pomeriggio, quando tuttavia non rimaneva con le mani in mano e, se non raggiungeva la “Ca’ d’Oddo” alla Serra, restava in bottega a riordinare e rifare la mostra.
Un ritmo di vita così concitato non poteva durare a lungo e così nel 1977 Elsa divise e cedette le attività: a terzi, che si insediarono all’inizio nel quarto locale con vetrina del suo palazzo, fu venduta l’edicola mentre la figlia Mara rilevò la cartolibreria e i giocattoli e tuttora ne porta avanti l’attività in quei locali che ben poco sono cambiati dall’epoca di Elsa.
Questa seconda parte della vita di Elsa trascorse assieme al marito Oddo che la lasciò purtroppo prematuramente nel 1984. Oddo Diversi fu uno studioso della storia di Castel Bolognese in un momento in cui il parlare di cose del passato lasciava un po’ indifferenti, ma era anche un cultore del vernacolo romagnolo e buon poeta in dialetto, tanto che con Fausto Ferlini e Ubaldo Galli era spesso invitato a trebbi e a riunioni che gravitavano sotto l’auspicio della rivista “la Pié”. Spesso a questi incontri partecipava anche Elsa che apprezzava il lavoro del marito e gradiva la compagnia dei “piadaioli”. Occorre ricordare che Oddo dedicò una sua lirica anche ad Elsa. Ma vi era un altro luogo caro ad entrambi: “Ca’ d’Oddo”. Si tratta di una casa sotto il Monte Querzola, alla Serra, su quel segmento di via Serra, ormai lì ridotta a tratturo, che collega la Villa Zauli-Naldi alla Querciola. Quella casa, che per Oddo rappresentava un pensatoio ove coltivare studi e poesia era per Elsa un luogo di svago da passare tra gli animali da cortile da accudire, il vino da seguire ed i tanti lavori che una casa in campagna necessita. Ma “Ca’ d’Oddo” era anche un luogo di festa per i loro amici che qui Elsa riceveva da vero anfitrione. E sull’ospitalità di Elsa non si può discutere: nel 1973 attrazione della domenica sera della Sagra di Pentecoste fu la cantante Ombretta Colli, allora all’apice della carriera. Dai miei ricordi esce una bella serata di fine primavera, con la Colli che, a metà spettacolo, si rivolse a Elsa che col marito Oddo seguiva il concerto dal balcone di casa, praticamente di fianco al palco, dicendole “Signora, a fine serata vengo a prendere il caffè da Lei!”. Ed Elsa non fece attendere l’invito.
Un’altra passione di Elsa furono i viaggi, a volte anche senza l’amato Oddo. E proprio durante alcuni viaggi organizzati dal compianto Battista Casadio oppure da Anna Ragazzini ho ritrovato Elsa, e mia moglie l’ha conosciuta ed assieme abbiamo trascorso momenti stupendi, specie in quelle ore di sosta che erano dedicate alla conversazione o al gioco delle carte. Ho così scoperto una Elsa diversa: la ricordavo un po’ severa nel suo ruolo di commerciante dai miei ricordi di bambino, avevo ritrovato una donna simpaticissima e allegra che ha condiviso con mia moglie e con me momenti di vera allegria.
Gli ultimi anni sono da lei stati trascorsi alla Casa di Riposo ove tuttavia non l’è mai mancato l’affetto di figli, nipoti e pronipoti che assieme alle Autorità le avevano organizzato la festa per il traguardo dei cento anni. L’avevo rivista prima del COVID un giorno di Carnevale quando con la Corale andammo a rallegrare un pomeriggio gli ospiti della “Camerini”. Mi riconobbe e volle notizie su mia moglie e sulla famiglia. L’ho rivista per l’ultima tornata referendaria quando sono andato a raccogliere i voti alla Casa di Riposo, le ho parlato ma dubito mi abbia riconosciuto. La cosa mi è dispiaciuta così come, ripensando ai bei momenti assieme, la malinconia m’è venuta leggendo il manifesto della dipartita. Ma la cosa bella è che il suo ricordo in me come in tanti castellani rimarrà imperituro per la sua attività, la sua famiglia, la sua figura di donna, commerciante e compagna di viaggi e di amicizia.

 

Contributo originale per “La storia di Castel Bolognese”.
Per citare questo articolo:
Paolo Grandi, Ricordo di Elsa Benelli, l’edicolante della piazza, in https://www.castelbolognese.org

The post Ricordo di Elsa Benelli, l’edicolante della piazza appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/ricordo-di-elsa-benelli-ledicolante-della-piazza/feed/ 0
Umberto Rontini (1931-1952) minatore castellano caduto sul lavoro in Belgio https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/umberto-rontini-1931-1952-minatore-castellano-caduto-sul-lavoro-in-belgio/ https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/umberto-rontini-1931-1952-minatore-castellano-caduto-sul-lavoro-in-belgio/#respond Tue, 09 Aug 2022 13:57:42 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=9831 Le case le pietre ed il carbone dipingeva di nero il mondo Il sole nasceva ma io non lo vedevo mai laggiù era buio Nessuno parlava solo il rumore di una pala che scava che scava Le mani la fronte hanno il sudore di chi muore Negli occhi nel cuore …

The post Umberto Rontini (1931-1952) minatore castellano caduto sul lavoro in Belgio appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>

Le case le pietre ed il carbone dipingeva di nero il mondo
Il sole nasceva ma io non lo vedevo mai laggiù era buio
Nessuno parlava solo il rumore di una pala che scava che scava
Le mani la fronte hanno il sudore di chi muore
Negli occhi nel cuore c’è un vuoto grande più del mare
(New Trolls, Una miniera)

di Andrea Soglia

Ogni anno, l’8 di agosto, viene puntualmente ricordato l’anniversario del disastro avvenuto nel 1956 nella miniera belga di Marcinelle dove morirono contemporaneamente 262 minatori, di cui 136 italiani. Fu l’apice di una tragedia umana durata, in realtà, oltre un decennio, che vide morire, tra il 1946 ed il 1963, in tantissimi incidenti avvenuti nelle diverse miniere belghe, ben 867 minatori italiani e in totale 1126 minatori di varie nazionalità: tra le cause dei decessi figuravano in primo luogo le frane (59,2%), i trasporti (14,3%), il grisù (9,4%), le esplosioni (4,7%) e le cadute nei pozzi (4%).
Uno degli oltre mille caduti fu il castellano Umberto Rontini, di 21 anni.
Umberto Rontini era nato a Castel Bolognese il 14 giugno 1931 da Domenico e Maria Martoni. Era il figlio terzogenito dopo Elisa ed Elio (classe 1926), che fu partigiano durante la Resistenza con il nome di battaglia “Pepe”, militò nella 36ª brigata Bianconcini Garibaldi e operò sull’Appennino tosco-emiliano.
La famiglia Rontini viveva in un casolare di campagna più o meno nella zona dove fu poi costruita la discoteca “Le Cupole”. Terminata la scuola dell’obbligo, Umberto Rontini andò a lavorare come apprendista muratore, dimostrando un’ottima predisposizione a quel mestiere, al punto che maturò il sogno di mettere in piedi una sua impresa edile, assieme al fratello e al padre. Per fare ciò era necessario mettere da parte un po’ di risparmi e trovare un lavoro temporaneo più redditizio economicamente e Umberto prese la decisione di raggiungere il fratello Elio che era emigrato in Belgio da circa un anno per lavorare come minatore. Il lavoro di estrazione era pagato a cottimo e, a prezzo di un lavoro durissimo e pericoloso, era comunque possibile guadagnare abbastanza bene.
A poco più di vent’anni Umberto partì: era il settembre 1951.

L’esodo italiano verso il Belgio era cominciato dopo il 23 giugno 1946, giorno in cui era stato firmato a Roma il protocollo italo-belga per il trasferimento di 50.000 minatori italiani in Belgio. In cambio il governo belga si impegnava a vendere mensilmente all’Italia un minimo di 2.500 tonnellate di carbone ogni 1.000 minatori immigrati. La manodopera non doveva avere più di 35 anni e gli invii riguardavano 2.000 persone alla volta (per settimana). Il contratto prevedeva 5 anni di miniera, con l’obbligo tassativo, pena l’arresto, di farne almeno uno. Gli italiani andavano così a sostituire i belgi nel duro lavoro della miniera, ignari di quello che realmente li attendeva e con pochissime garanzie relativamente ai loro diritti, alla loro salute e sicurezza.
Tra il 1946 e il 1957 gli italiani espatriati verso quel presunto El Dorado sono stati 223.972, a fronte di 51.674 rimpatri. Anche da Castel Bolognese partirono non pochi ragazzi in cerca di fortuna in Belgio. Fra essi, oltre ai fratelli Rontini, Gigetto Minardi, Giulio Brusa e i “libici” Giovanni Bottega e Bruno Vartesi.

L’arrivo in miniera, soprattutto nei primi anni di validità del “protocollo”, era traumatico, e non pochi recedevano dal contratto, pure col rischio dell’arresto. Eccone una breve descrizione, tratta dal sito https://laricerca.loescher.it/uomini-per-carbone-l-emigrazione-dall-italia-al-belgio-nel-dopoguerra/

“Soprattutto dallo choc della prima «discesa al fondo» per molti che erano partiti senza aver mai conosciuto la vita di miniera: l’impreparazione e l’incomprensione linguistica si proiettano nello sfondo cupo di ciminiere, altiforni, castelletti in ferro, colline nere di detriti. Segue il «vuuuu» terrifico dell’ascensore che scende a velocità altissima, poi il buio spaesante e caldissimo delle taglie. L’impatto diventa per molti un momento di insuperabile rifiuto che provoca la rottura del contratto e la prigionia nel Petit Chateau di Bruxelles in attesa del rimpatrio forzato. Solo a partire dai primi anni ’50 le trattative tra i due governi avrebbero cominciato a considerare la necessità di un approccio più morbido alla taglia, per attenuare il trauma”.

Le “taglie” non erano altro che le vene o i filoni di carbone, alte dai 50 cm in su, e spesso i minatori-estrattori, armati di martello pneumatico, erano costretti a lavorarvi coricati e a strisciarvi come serpenti, con temperature altissime (che li costringevano a lavorare in mutande) e una polvere terribile, contro la quale poco serviva la maschera di cui erano dotati e che rovinerà irrimediabilmente l’apparato respiratorio di moltissimi minatori. Ogni vena comunicava a monte con una galleria dove venivano convogliati tutti i materiali necessari per l’armatura di valle che doveva esserci per la sicurezza: da lì partivano i carrelli che venivano mandati in superficie.
In un secondo tempo, quindi, venne disposto che almeno i primi due giorni di lavoro fossero impiegati esclusivamente per conoscere la miniera e che ci fosse l’obbligo di fare pratica come manovale per almeno sei mesi prima di passare a lavori più impegnativi come quelli dell’estrazione del carbone dalle taglie. Il lavoro si svolgeva su tre turni: dalle 06.00 alle 14.00, dalle 14.00 alle 22.00 e dalle 22.00 alle 6.00, per sei giorni alla settimana.
Umberto Rontini fu assegnato alla miniera di Gosson La Haye et Horloz Réunis a Tilleur, dove già lavorava Elio, ed ebbe le mansioni di “armatore-disarmatore”, che era “l’operaio incaricato alla costruzione delle armature di sostegno delle gallerie. Queste erano costruite con puntelli e quadri di legno. L’armatore–disarmatore doveva provvedere anche al recupero (disarmo) delle armature dei cantieri esauriti dove, per ragioni di sicurezza, è bene provocare la frana delle solette per evitare così pericolose pressioni di carico dei terreni sovrastanti”.
E’ immaginabile che Umberto fosse partito per il Belgio abbastanza consapevole di quanto l’avrebbe atteso, senz’altro ragguagliato dal fratello Elio, ma è altrettanto facile immaginare che l’impatto con la realtà non fosse stato per nulla facile. Ma c’era tanta determinazione per realizzare il suo progetto di mettersi in proprio nel mondo dell’impresa edilizia.
A distrarre dalle enormi fatiche del lavoro era arrivato un evento calcistico molto importante e assai sentito dagli italiani immigrati: la partita amichevole fra Belgio e Italia allo stadio (poi tristemente noto) Heysel di Bruxelles. Elio ed Umberto non persero l’occasione e andarono a tifare per gli azzurri, facendosi anche scattare una fotografia ricordo all’esterno dello stadio, fotografia poi inviata a Castel Bolognese con la dedica “Ai nostri cari genitori con affetto sincero che mai si spegnerà”.
Era il 24 febbraio 1952. La Nazionale perse 2 a 0 con una squadra tutt’altro che irresistibile, deludendo i tanti minatori accorsi a vederla. La sconfitta degli azzurri fu biasimata, sulle colonne de La Stampa del 29 gennaio successivo, nientemeno che da Vittorio Pozzo, che era stato il commissario tecnico della Nazionale campione del mondo nel 1934 e 1938: “Il risultato di Bruxelles ha fatto male al cuore di tutti gli italiani … Ha fatto male, particolarmente, a quelli fra gli italiani, che erano già sul posto, e sul posto, per ragioni di lavoro, sono rimasti. Un male speciale, per comprendere profondamente il quale, bisogna aver visto e compreso la gioia che una vittoria nostra irradia nell’ambiente dei connazionali all’estero, e le ripercussioni che essa ha nel loro spirito. L’italiano che vive in terra straniera vede l’incontro internazionale con occhi suoi: occhi che il cuore illumina e rende acuti. All’estero, la Patria la si ama tutti, vivamente, ed alle grandi partite si dà un significato che va al di là, e di parecchio, di quello puramente tecnico. Quei minatori nostri venuti dai villaggi dei dintorni: hanno imparato a contenersi, e quel loro dolore muto, trattenuto, compresso, impressionò tutti coloro che con essi si intrattennero. Colpisce di più il dolore contegnoso, quello che quasi bisogna indovinare, che quello rumoroso ed incontrollato”.

Ritornato al suo lavoro in miniera, il 22 maggio 1952 Umberto Rontini rimase vittima di un grave incidente: fu travolto da una frana di pietre mentre stava “disarmando” una taglia, riportando “la frattura del terzo medio facciale e la frattura delle branche montanti della mascella inferiore e frattura delle apofisi”. Subito soccorso, fu ricoverato d’urgenza all’ospedale Bavière di Liegi dove spirò il 31 maggio successivo: troppo gravi erano le ferite riportate. Mancavano pochi giorni al suo 21° compleanno.
Il 3 giugno 1952 si svolsero i funerali, alla presenza di Elio Rontini, dei dirigenti della miniera, di una larga rappresentanta degli operai, del delegato per i minatori del bacino di Liegi, del missionario padre Faggion e del console S. Ceva.
Fu quest’ultimo ad informare ufficialmente il Comune di Castel Bolognese e, di conseguenza, la famiglia che, naturalmente, era già stata avvisata della tragedia direttamente da Elio.
La salma fu sepolta provvisoriamente in un loculo nel cimitero di Robermont in attesa del rimpatrio, come espressamente richiesto dai genitori. Occorsero vari mesi perché ciò avvenisse, anche per capire se fosse stato possibile agevolare la famiglia Rontini, tutt’altro che benestante, nella spesa da sostenere. Il Ministero del Lavoro non si fece carico di nulla e l’unico modo che fu trovato per aiutare la famiglia Rontini, e non solo essa, fu quello di programmare un trasporto contemporaneo di più salme sopra il medesimo mezzo di trasporto, al costo di circa 10-12 mila franchi per famiglia. Era il 14 ottobre 1952 quando partì da Liegi un auto-furgone della ditta di pompe funebri “Germay”, contenente le salme di 5 italiani morti in Belgio. Il 16 ottobre il furgone fece tappa a Brogliano (Vicenza) per deporre la salma di Alfredo Mecenero e poi a Castel Bolognese per la consegna della salma di Umberto Rontini; proseguì poi per Cannara (Perugia) dove il 17 ottobre depositò la salma di Remo Bizzarri; il 18 sera giunse a Castelbottaccio (Campobasso) per deporre la salma di Mario Mastroberardino ed infine il 20 ottobre, sulla via del ritorno, fece tappa a Monticelli d’Ongina (Piacenza) per consegnare la salma di Marianna Cavallari in Donelli.
La salma di Umberto Rontini riposa tuttora nel cimitero di Castel Bolognese. Nel 2022, a distanza di 70 anni, ricordiamo il ragazzo di 21 anni, il suo sacrificio e i suoi sogni spezzati “laggiù nel buio” dove “il carbone dipingeva di nero il mondo”.

Si ringrazia Umberto Rontini (figlio di Elio e nipote del minatore Umberto) per le fotografie e le informazioni fornite; si ringrazia Maria La Torre per la collaborazione

Fonti:
-Archivio storico comunale di Castel Bolognese, busta n. 245, carteggio amministrativo 1952, categoria XIII
-Archivio famiglia Rontini
-La Stampa, 29 febbraio 1952

Sitografia:
-https://www.storiaememoriadibologna.it/rontini-elio-508912-persona
-http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/1066/Armano%20Linda.pdf?sequence=1
-https://www.aspbologna.it/la-scrittura-del-ricordo-i-ricordi-fanno-bene-a-chi-li-scrive-e-a-chi-li-legge/servizi-erogati/sostegno-agli-anziani/la-scrittura-del-ricordo/mio-padre-egisto-salsi-racconta-di-sonia-salsi-tratto-da-la-scrittura-del-ricordo
-https://www.collettiva.it/copertine/internazionale/2021/06/23/news/uomini_carbone_lo_scambio_mortale_tra_italia_e_belgio-1243802/
-https://reportage.corriere.it/esteri/2016/la-memoria-dei-minatori-italiani-in-belgio/
-https://storicamente.org/emigrazione-italiana-in-belgio_link8
-https://laricerca.loescher.it/uomini-per-carbone-l-emigrazione-dall-italia-al-belgio-nel-dopoguerra/
-https://www.progetto-radici.it/2021/06/26/belgio-6-il-primo-giorno-in-miniera/

Contributo originale per “La storia di Castel Bolognese”.
Per citare questo articolo:
Andrea Soglia, Umberto Rontini (1931-1952) minatore castellano caduto sul lavoro in Belgio, in https://www.castelbolognese.org

The post Umberto Rontini (1931-1952) minatore castellano caduto sul lavoro in Belgio appeared first on La Storia di Castel Bolognese.

]]>
https://www.castelbolognese.org/storie-di-persone/umberto-rontini-1931-1952-minatore-castellano-caduto-sul-lavoro-in-belgio/feed/ 0