Vita Sociale Archives - La Storia di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/category/miscellanea/vita-sociale/ Sat, 14 Sep 2024 15:39:04 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.6.2 Le edicole di Castel Bolognese, un servizio essenziale in via di estinzione https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vita-sociale/le-edicole-di-castel-bolognese-un-servizio-essenziale-in-via-di-estinzione/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vita-sociale/le-edicole-di-castel-bolognese-un-servizio-essenziale-in-via-di-estinzione/#respond Wed, 29 May 2024 20:57:59 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11689 a cura di Andrea Soglia Il 31 maggio 2024 diventa una data a suo modo storica per Castel Bolognese, con la cessazione dell’attività dell’Edicola e Libreria Tommy. La titolare, Cinzia Ghirelli, in procinto di ritirarsi dal lavoro, ha tentato invano di vendere l’attività, ma nessuno si è fatto avanti. D’altronde, …

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a cura di Andrea Soglia

Il 31 maggio 2024 diventa una data a suo modo storica per Castel Bolognese, con la cessazione dell’attività dell’Edicola e Libreria Tommy. La titolare, Cinzia Ghirelli, in procinto di ritirarsi dal lavoro, ha tentato invano di vendere l’attività, ma nessuno si è fatto avanti. D’altronde, se un tempo il lavoro di edicolante aveva una certa attrattività, al giorno d’oggi è diventato così poco remunerativo che tantissime edicole, in Italia, stanno chiudendo. E dire che durante la pandemia erano state dichiarate un servizio essenziale! A rendere poco appetibile il lavoro di edicolante contribuisce non poco il fatto che esso costringe a levatacce ad ore antelucane per ricevere la fornitura dei quotidiani e delle riviste ed un notevole impazzimento nella gestione giornaliera dei resi.
L’Edicola Tommy era erede di un’attività storica che risaliva agli anni immediatamente seguenti alla Prima guerra mondiale. Luigia Forbicini, detta Gigina ‘d Piuvlèn, in quanto vedova di guerra aveva ottenuto la licenza di vendita dei giornali sotto i portici del vecchio comune, all’angolo fra la via Emilia e la Piazza Bernardi. A coadiuvarla il compagno Ugo Costa, (Ugo ‘d Badoja) il quale distribuiva i quotidiani in bicicletta. Riteniamo che questa possa essere stata la prima attività completamente dedicata ai giornali. In precedenza, come consta da una pubblicità del 1911, era possibile acquistare i “principali giornali della Penisola” presso il Caffè della Guerra gestito da Giovanni Tosi, detto E Mas-cì, garibaldino combattente a Domokos nel 1897.
Demolito nel dopoguerra il Palazzo Comunale, la Gigina ottenne dall’Arciprete Sermasi l’andito della scala che porta alla cantoria della chiesa di San Francesco e che si apre sul portico della Via Emilia per continuare provvisoriamente il suo commercio e lì iniziò la collaborazione con la nuora Elsa Benelli (1920-2022), moglie di Oddo Diversi (1908-1984), che successivamente ne avrebbe rilevato l’attività.
Nel dopoguerra, Elsa e Oddo comprarono dalla farmacista Domenica Solaroli un lotto, per lo più ridotto in macerie, che dà su Piazza Bernardi e vi costruirono il loro palazzo aperto sulla piazza con quattro vetrine e lì Elsa trasferirà non solo l’edicola, ma aprirà una moderna e fornitissima cartoleria, libreria e vendita di giocattoli.
Il lavoro di Elsa era impegnativo: per molti anni infatti fu l’unica edicola di Castel Bolognese ed una delle due cartolerie presenti in città. L’apertura della seconda edicola avvenne tardi, ormai quando Elsa stava per lasciare, e soprattutto, trattandosi della stazione ferroviaria (presso il bar di Carlo Nenni), lei rimase comunque l’unica del centro.
Un ritmo di vita così concitato non poteva durare a lungo e così nel 1977 Elsa divise e cedette le attività: la figlia Mara rilevò la cartolibreria e i giocattoli mentre l’edicola fu venduta a terzi e si insediò nel quarto locale con vetrina del suo palazzo, all’angolo con via Gottarelli.
Cerchiamo di seguire la storia dell’edicola dal 1977 in avanti, anche se non è stato possibile ricostruire tutti i passaggi proprietà. All’inizio del 1982 subentrò nella gestione Romano Dalla Malva, che tanti non dimenticano per la sua disponibilità a soddisfare qualsiasi richiesta. Era sportivissimo (storico tifoso della Fiorentina) e quindi l’edicola era diventata un notevole centro di aggregazione. Ad aiutarlo in edicola tutta la famiglia, in particolare i genitori Giovanni e Maria. La sua attività cessò nel gennaio del 1991. Negli ultimi giorni del 1997 Romano scomparve improvvisamente, a soli 47 anni.
Nel 1993 la gestione passò a Maria Fiorentini. Gli spazi dell’edicola erano abbastanza angusti, per cui qualche tempo dopo Maria trasferì l’edicola pochi metri più in là, al civico 14 di Piazza Bernardi, dove attualmente ha sede una Assicurazione.
Nell’ottobre 2001 l’attività fu rilevata Massimo Minganti e Mirna Oboldi, che la denominarono “Edicola Reddy”. Furono Massimo e Mirna, nel 2007, a trasferire l’edicola nei locali di Piazza Fanti 8. Il 28 febbraio 2008 subentrò Cinzia Ghirelli, che cambiò anche la denominazione in “Edicola e libreria Tommy”: d’altronde gli spazi di Piazza Fanti consentivano anche una bella esposizione di libri, fra cui, immancabili, quelli locali.
All’edicola della piazza, in un paese in piena espansione, si affiancò, dall’agosto del 1994, una seconda edicola in via Contoli 29. Ad aprirla, dopo non pochi problemi burocratici, fu Celestina Zaccarini, che nell’agosto del 2003 la cedette a Stefano Lotti, morto prematuramente a 36 anni il 7 dicembre 2006 lasciando un largo rimpianto. Dopo alcuni mesi di chiusura e un breve periodo di gestione di Silvia Monti (da giugno 2007) è subentrato nella proprietà Agostino Rossi, che vende giornali ininterrottamente dal 5 ottobre 2008.
Con la chiusura dell’Edicola Tommy, l’Edicola Sole e Luna rimane sostanzialmente l’unica edicola in attività in tutto il nostro paese, dato che, progressivamente, l’edicola della stazione ha dismesso quasi tutto conservando la vendita di poche testate quotidiane.
L’edicola di Agostino sarà quindi sovraccaricata di lavoro, ereditando gli storici clienti di Cinzia. Fra qualche anno anche per Agostino arriverà la meritata pensione. Speriamo vivamente che la sua attività possa trovare un erede, altrimenti il nostro paese rimarrebbe senza il servizio essenziale dell’edicola. La politica, anche quella locale, dovrà necessariamente trovare delle forme di sostegno alle edicole onde evitarne la completa estinzione.
Pubblichiamo questo testo come saluto a Cinzia e come ringraziamento per il suo lungo servizio ai castellani. E anche come augurio di buon superlavoro ad Agostino.
Ci riserviamo di arricchirlo di informazioni e fotografie storiche mano mano che emergeranno.

Testo pubblicato il 30 maggio 2024. Ultimo aggiornamento 4 giugno 2024
Si ringraziano per la collaborazione Cinzia Ghirelli, Agostino Rossi e Marzia Zama

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L’asilo nido comunale compie cinquant’anni https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vita-sociale/lasilo-nido-comunale-compie-cinquantanni/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vita-sociale/lasilo-nido-comunale-compie-cinquantanni/#comments Sun, 25 Feb 2024 22:22:28 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11434 (introduzione, 26/2/2024) Sul principio del 1974 iniziò la sua attività l’Asilo Nido. Fu realizzato dall’Amministrazione guidata dal sindaco Nicodemo Montanari. Ricordiamo l’importante anniversario proponendovi notizie storiche tratte dal bel libro di Carmela Di Paola “Dalla carta carbone alla posta elettronica certificata: quarant’anni di lavoro nel Comune di Castel Bolognese”, alcune …

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(introduzione, 26/2/2024) Sul principio del 1974 iniziò la sua attività l’Asilo Nido. Fu realizzato dall’Amministrazione guidata dal sindaco Nicodemo Montanari. Ricordiamo l’importante anniversario proponendovi notizie storiche tratte dal bel libro di Carmela Di Paola “Dalla carta carbone alla posta elettronica certificata: quarant’anni di lavoro nel Comune di Castel Bolognese”, alcune fotografie fornite da Enrico Dalmonte, Rossella Calonici ed Agostino Rossi e le riproduzioni di alcune delibere consiliari del 1963 (che non sappiamo se si siano salvate dall’alluvione) rinvenute da Paolo Grandi nel corso delle sue ricerche in archivio comunale negli anni passati.
Cogliamo anche l’occasione per rammentare che con la delibera di Giunta n. 30 del 30 marzo 2011, l’Asilo Nido comunale è stato intitolato alla memoria di Ofelia Gamberini. Il giorno 24 settembre 2011, in occasione di una inaugurazione degli spazi interni dell’Asilo nido riorganizzati per ospitare più bimbi, è stata scoperta una targa commemorativa alla presenza del sindaco Daniele Bambi e di Adalia Ciamei, figlia di Ofelia Gamberini. E’ uno dei pochi luoghi pubblici di Castel Bolognese intitolato ad una donna ed è un peccato che questa denominazione dell’Asilo sia scarsamente usata. (A.S.)

L’industrializzazione e l’occupazione femminile portarono, nei primi anni Settanta, alla costruzione dell’asilo nido “La Casa della Madre e del Bambino”.
L’Amministrazione comunale già da tempo aveva espresso la volontà di riunire in un unico edificio tutti i servizi assistenziali dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia.
Solo nel 1971, tuttavia, venne approvato il progetto per la costruzione della Casa della Madre e del Bambino.
L’opera, costata cento milioni di lire, oltre alla spesa per l’acquisizione del terreno, fu terminata nel 1972. La moderna struttura era destinata ad accogliere bambini da tre mesi a tre anni, con una capienza di 60 posti, nel rispetto della normativa sul rapporto tra spazio, disponibilità e capienza. Curiosa è la storia della nascita della struttura (che qui si riporta in sintesi), descritta in una pubblicazione curata dalla Cooperativa Sociale Zerocento e letta dall’Assessore alla Pubblica Istruzione Patrizia Marchi in occasione dei festeggiamenti dei 30 anni di attività dell’asilo:
“La notte del 30 dicembre 1960 qualche raro passante, alzando lo sguardo verso la sala della Giunta comunale di Castel Bolognese, avrebbe potuto vedere le luci ancora accese. Era la vigilia dell’ultimo giorno dell’anno. Fuori, qualche scarsa luminaria riverberava sui rami dell’albero trapiantato nella piazza di fronte alle finestre del Comune. Sei persone erano chiuse in quella sede fin dalle 20,30. Ormai era notte fonda e stavano arrivando al diciottesimo ed ultimo argomento su cui deliberare. Fino ad allora i cinque componenti, compresi il Sindaco con in più il Segretario comunale, erano riusciti ad arrivare in fondo lanciando ora un colpo ora un accidente, prendendosela con quella sciagurata scelta di riunirsi proprio quel giorno, proprio a quell’ora. Nessuno mancava. Si era trattato di deliberare su aumenti periodici di stipendio per i dipendenti comunali, di mutui per fognature ed acquedotti, piccoli contributi economici all’UNICEF, il sussidio ad uno degli alluvionati della piena del Senio del 1959. Aperto il fascicolo n. 18, venne data lettura dell’argomento all’ordine del giorno, pregustando il momento buono di infilare il cappotto e la soddisfazione per avercela fatta: “Richiesta di contributo statale per la costruzione della Casa della Madre e del Bambino”: la delibera venne adottata d’urgenza e poi ratificata dal Consiglio comunale quattro mesi dopo. Prevedeva l’approvazione, in via di massima, della costruzione di un edificio nel quale riunire i vari servizi assistenziali, dando mandato al Sindaco per una richiesta di un contributo presso la Cassa Depositi e Prestiti, accendendo un mutuo di 40 milioni di lire.
Cominciava così la storia che, attraverso alterne vicende, avrebbe portato alla costruzione dell’asilo nido, quello che oggi ci troviamo a festeggiare per i suoi 30 anni di attività.
Erano gli anni dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia e di altri innumerevoli enti, spesso sovrapposti l’uno all’altro, di cui si intrecciavano le competenze e le responsabilità; poi vennero la legge 1044 del 1971, lo scioglimento di quelli che vennero chiamati “enti inutili”, l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, le leggi regionali.
Piano piano la Casa della Madre e del Bambino diventava asilo nido: prima al piano ammezzato, poi al piano superiore, finché nel gennaio del 1974 l’asilo nido aprì le porte”.

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C’era una volta il Bar Sport… https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vita-sociale/cera-una-volta-il-bar-sport/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vita-sociale/cera-una-volta-il-bar-sport/#comments Sat, 24 Feb 2024 13:59:58 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11414 di Andrea Soglia ; con la collaborazione di Sante Garofani Un altro bar che ha fatto epoca a Castel Bolognese è stato il Bar Gelateria Sport, o più semplicemente Bar Sport. Covo di appassionati di ciclismo, calcio, bocce, biliardo, etc., si era anche occupato dell’organizzazione di gare e tornei. A …

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di Andrea Soglia ; con la collaborazione di Sante Garofani

Un altro bar che ha fatto epoca a Castel Bolognese è stato il Bar Gelateria Sport, o più semplicemente Bar Sport. Covo di appassionati di ciclismo, calcio, bocce, biliardo, etc., si era anche occupato dell’organizzazione di gare e tornei. A quasi quarant’anni della chiusura ne ricordiamo la storia, illustrandola con tante belle fotografie e notizie che sono state messe a disposizione da Lella Ragazzini e Nunzia e Gigi Morini.
Il Bar Sport svolgeva la sua attività nei locali di via Emilia Interna 86 (un tempo Corso Garibaldi 71-73), attualmente occupati dalla Pasticceria del Portico. Non sappiamo se fosse in attività, magari con un altro nome, già prima della guerra, ma nell’immediato Dopoguerra, come fanno fede una pubblicità comparsa su Il Castellano del 7 luglio 1946 e un’altra in un depliant della Coppa Valsenio del 1948, la “Gelateria dello Sport” era in piena attività anche se era meglio conosciuta, fra i castellani, come il Bar d’Gigiò d’Galas (Luigi Cani).
A gestirlo era la famiglia Cani (che abitava al civico n.106). Al banco il figlio d’Gigiò, Giuseppe (Pippo), sua moglie Gemma e saltuariamente il loro figlio Gigi che portava il nome del nonno Luigi.
Nel 1959 la famiglia Cani (successivamente emigrata a Milano) cedette il bar alla famiglia Ragazzini che proveniva dal comune di Solarolo dove lavorava un podere in mezzadria. Una nuova gestione familiare che vedeva impegnati Giuseppe Ragazzini detto Iusafì (classe 1914) e la moglie Paola Piancastelli detta Pia (classe 1921). Nelle pause scolastiche e al bisogno anche la figlia Leonella “Lella” dava il suo piccolo contributo.
Leonella Ragazzini ci ha raccontato alcune curiosità sul Bar Sport all’epoca della gestione Ragazzini. Il principale locale del bar era disposto com’è attualmente (Pasticceria del Portico), con un lungo bancone a sinistra dell’ingresso e tavolini e sedie a destra. Appena dopo l’ingresso principale la cabina del telefono pubblico. In seguito fu creato, lato via Pallantieri, un altro locale dove prese posto una delle prime tre TV del paese ed un calcio balilla. Successivamente fu creato anche un nuovo bagno. In seguito, con il trascorrere degli anni ci fu l’immancabile ricambio generazionale (diversi giovani, frequentatori del bar Circolo parrocchiale, migrarono al bar Sport, in quanto per vedere la tv non gli veniva chiesta nessuna quota (£10 a testa), come ricorda Antonio Cani, marito di Leonella, ndr) e arrivò anche un juke box prestato dal gestore del bar Stazione (Antonio Velluzzi detto Toniuccio). Pia, ricorda la figlia, utilizzava indumenti dedicati solo per il bar in quanto il fumo di sigaro e sigarette “impestava” ogni cosa. In estate venivano esposti tavolini e sedie, di colore rosso, sotto al portico antistante. Leonella conserva ancora la ricetta del gelato artigianale.
In quel periodo (ed anche sotto la gestione successiva), il bar sponsorizzò una squadra di calcio che partecipò ai primi Tornei (in notturna) dell’Allegria di Biancanigo. Fra gli avventori del bar, che come vedremo comprendeva numerosi personaggi, Leonella ricorda in particolar modo Alfredo Bagnaresi (1898-1969), Fredino Cetoni, ferroviere in pensione e artista autodidatta, che con un fiammifero usato disegnava al carboncino bellissime figure sugli specchi del bagno. Leonella rimaneva ammirata nel vederlo all’opera.
E proprio in quel periodo, nell’ottobre del 1965, su Il Resto del Carlino furono pubblicate due opere “naif” di Fredino, “Balletti alla scala” e “Gioconda danza delle ore”. C’è da immaginare che nel bar si sia parlato a lungo di questo avvenimento. E dobbiamo dire che è un peccato che non si conservi nessuna opera di Fredino nelle collezioni castellane di pittura.
L’atmosfera tipica del bar non era molto gradita a Giuseppe che in certi frangenti faticava a stare dietro al bancone, dato che odiava la confusione e le bestemmie. Forse anche per questo motivo nel 1966 Giuseppe e Pia, a loro volta, cedettero il bar alla famiglia Morini. Nella gestione subentrarono quindi Otello Morini e la moglie Assunta Valgimigli, a cui si affiancarono successivamente i figli Nunzia e Gigi. Nunzia e Gigi Morini ricordano i tanti clienti ed alcuni “personaggi” che frequentavano abitualmente il bar: Elio Bambi, Antonio Gentilini (Sghinlò), Otello Bertaccini (Pedro), Domenico Bertaccini (Campaner), Giuseppe Biondi, Gualtiero Alvisi (Marconi), Oreste Alvisi (Gnagni), Tac, Pagan, Mingò dla Turca, Fausto Montanari, Terenzio Monti e tanti altri. Numerosi erano anche i clienti che venivano dalla parrocchia di Casalecchio.
Il bar aveva il posto di telefono pubblico, con tanto di insegna esterna, e svolgeva attività di consegna di avviso di chiamata. All’epoca erano ancora tante le famiglie senza telefono fisso e quindi chi aveva bisogno di contattarle telefonava al bar fissando un appuntamento telefonico che veniva appuntato su un apposito blocchetto prestampato e il foglietto di promemoria veniva poi consegnato all’interessato che si presentava al bar all’orario stabilito per ricevere la telefonata. Nunzia ricorda i tanti avvisi recapitati, in bicicletta, soprattutto nelle case di via Ghinotta dove, all’epoca, iniziava già la campagna.
Il bar fu ampliato in un paio di occasioni (si veda la planimetria) con la demolizione di una scala e l’allargamento ad un negozio a fianco del bar. Comparve anche un flipper che andava ad affiancare la sala biliardi, dove si svolgevano numerosi tornei, soprattutto di boccette, come era nella bella tradizione castellana. Un’altra tradizione che veniva mantenuta dal bar Sport era quella del gioco del tarocco. E qui Nunzia e Gigi ricordano ancora in particolar modo Oriano Savelli, che tanti di noi hanno conosciuto durante il suo servizio alla stazione ecologica. Oriano era un campionissimo sia a biliardo sia a tarocchi; dopo il grave incidente che gli fece perdere il braccio destro, Oriano riuscì comunque a trovare il modo di giocare a tarocchi memorizzando e sfogliando le 15 carte appoggiate sul tavolo.
Nel 1983 la famiglia Morini acquisì la licenza dalla tabaccheria che era stata di Nullo Melandri. Per un po’ gestirono sia la tabaccheria che il bar, in attesa di trovare un acquirente. Qualche tempo dopo, nel 1984, la vendita andò in porto, e per un breve periodo il bar fu gestito da Carla Cavallari. Successivamente nei locali del Bar Sport si trasferì la Pasticceria Monaco (precedentemente gestita dalla famiglia Canella ed ubicata quasi di fronte al bar) poi diventata Pasticceria del Portico. Gli ambienti sono stati ulteriormente modernizzati ed ampliati, assumendo l’aspetto attuale a tutti ben noto.
La famiglia Morini ha gestito la tabaccheria per 40 anni, e Nunzia e Gigi solo recentemente l’hanno ceduta a Sergio.
Il nome del bar, invece, fu ripreso, diversi anni dopo, dal bar nei pressi del Palazzetto dello Sport, che per qualche anno si è chiamato Bar dello Sport ed attualmente ha assunto la denominazione de “Il Pala”.

Fotografie dall’archivio di Leonella Ragazzini

Fotografie dall’archivio di Nunzia e Gigi Morini

Momenti di vita del bar: gare di boccette e premiazioni sportive varie

Momenti di vita del bar: premiazione di Pirazol reduce dalla Firenze-Faenza in bicicletta

La squadra del Bar Sport al Torneo dell’Allegria di Biancanigo (Archivio Sante Garofani)

Squadre del Bar Sport in altri tornei (Archivio Sante Garofani)

Pagina pubblicata il 27 febbraio 2024 e aggiornata il 23 marzo 2024

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Le oche “abusiviste” della Fonda https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vita-sociale/le-oche-abusiviste-della-fonda/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vita-sociale/le-oche-abusiviste-della-fonda/#respond Sun, 04 Dec 2022 21:32:53 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=10128 di Andrea Soglia Un incontro fortunato, mentre si cercava altro, ci consente di affermare come il toponimo “La Fonda” e la “mitica” industria delle oche fossero fortemente consolidati a Castel Bolognese già nel lontano 1791. Gli atti consigliari di quell’anno, infatti, registrarono una curiosa vicenda: la costruzione abusiva, sul suolo …

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di Andrea Soglia

Un incontro fortunato, mentre si cercava altro, ci consente di affermare come il toponimo “La Fonda” e la “mitica” industria delle oche fossero fortemente consolidati a Castel Bolognese già nel lontano 1791.
Gli atti consigliari di quell’anno, infatti, registrarono una curiosa vicenda: la costruzione abusiva, sul suolo pubblico, di un “camerotto da ocche” addossato al Conservatorio di Santa Teresa che si affacciava appunto sulla Fonda, l’attuale piazzale Poggi.
L'”usurpatore”, a quanto pare, sollecitato più volte a demolire il “camerotto” abusivo, aveva opposto una certa resistenza, al punto che i consiglieri, per far valere le ragioni del Comune, si rivolsero all’Assunteria di Bologna. Non abbiamo trovato la conclusione della vicenda (poco importa) nè il nome del colpevole dell’usurpazione, ma non era il solo a Castel Bolognese ad aver occupato abusivamente il suolo pubblico: anche i padri di San Francesco e tal Giorgio Sangiorgi si attirarono, per i medesimi motivi, gli strali dei consiglieri nella seduta del 7 aprile 1791. La preoccupazione era che il Senato bolognese concedesse una “sanatoria” a tutti loro e il Consiglio voleva far valere le ragioni della Comunità.
In conclusione di questo curioso racconto, possiamo affermare anche che nel 1791 erano già ampiamente diffusi sia gli abusi che i condoni edilizi… della serie: certi fenomeni sono endemici come molte malattie infettive.
Meglio archiviare i furbetti, almeno quelli di allora. A noi piace immaginare quel “camerotto” dormitorio e la scena delle oche (abusiviste a loro insaputa!) che, al risveglio, correvano nella piazzetta e si tuffavano per sguazzare nella fossa fuori dalle mura della Fonda. Allo stesso modo delle oche, loro dirette discendenti, così magistralmente immortalate dall’antica fotografia di don Stefano Bosi e dall’opera pittorica eseguita da Stefano Zaniboni nel 2022.

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I Burdell d’la Pés d’prèma d’la Guèra https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vita-sociale/i-burdell-dla-pes-dprema-dla-guera/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vita-sociale/i-burdell-dla-pes-dprema-dla-guera/#respond Sat, 19 Nov 2022 18:43:58 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=10083 di Maria Landi Questa frase, che sembra un gioco di parole senza significato ricorda un evento capitato quasi per caso qualche tempo fa. Tenterò di spiegare il significato e il perché di questa frase nata per gioco. Era il martedì sera e si stavano concludendo le feste della Pentecoste 1986. …

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di Maria Landi

Questa frase, che sembra un gioco di parole senza significato ricorda un evento capitato quasi per caso qualche tempo fa. Tenterò di spiegare il significato e il perché di questa frase nata per gioco.
Era il martedì sera e si stavano concludendo le feste della Pentecoste 1986. Dopo l’ultima processione in notturna, che chiudeva anche quell’anno la festa e la sagra più importante del paese, si teneva in piazza un concerto della banda che aveva suonato durante le processioni. Come tanti altri ascoltavo i suonatori che si ingegnavano a far meglio che potevano per accontentare un pubblico poco esigente. A un tratto venni avvicinata da un’amica d’infanzia, Lina Castellari la quale mi parlò di un’idea che le frullava in mente da quando era morto suo padre poco tempo prima. Intendeva onorarne la memoria rintracciando coloro che avevano abitato al Ponte del Castello prima che la guerra cancellasse tutto, costringendoli ad emigrare altrove. Intendeva incontrare costoro per fare insieme una grande rimpatriata. Mi chiese se potevo aiutarla a realizzare questo suo sogno.
Pensai un po’ a quell’idea peregrina e aggiunsi il mio pensiero nato lì per lì. Noi due eravamo state bambine di un tempo, cresciute entrambe all’ombra del minuscolo campaniletto a vela di Santa Maria della Pace. Perché non allargare a tutti i parrocchiani di un tempo la sua strana idea di rimpatriata? Per esempio io non avevo conosciuto molti degli abitanti dei grandi caseggiati di via Gradasso e di quel tratto della via Emilia vicino al Ponte, che allora traboccavano di persone che ora sarebbe stato difficile ritrovare. Gli abitanti della campagna erano noti, li conoscevo tutti. Lina era elettrizzata da questa nuova idea e mi pregò di cominciare a far qualcosa. Avevo accettato senza pensarci troppo, salvo poi pentirmene quasi subito. Da dove si poteva cominciare? Pensai di chiamarla per rinunciare a quanto promesso. Ora non dovevo pensarci più. La settimana successiva avrei deciso cosa fare. Sotto l’ombrellone al mare, la domenica dopo, mentre mi annoiavo come al solito, presi carta e penna e cominciai la mia indagine e strada dopo strada, famiglia dopo famiglia percorsi tutta la parrocchia. Di ogni gruppo famigliare scelsi i nomi dei più giovani che avevano vissuto la prima parte della vita alla parrocchia della Pace. Quanti eravamo! Fui impressionata dalla quantità dei nomi che stavo scoprendo. Avevamo preso in considerazione i nati dal 1920 fino al 1940.
Portai il mio elenco a Lina, la quale era risalita a molti degli antichi abitanti spazzati via dalla tremenda bufera bellica. Aveva coinvolto nella vicenda alcuni ex-ragazzi interessati e che avevano approvato la proposta purché non dovessero partecipare all’organizzazione dell’evento.
Alla fine ci trovammo in sei, quattro uomini e noi due a rappresentare le donne. Pomposamente ci chiamammo “Comitato Organizzatore” e cominciammo a discutere, senza sapere da dove partire. L’entusiasmo della Lina era alle stelle, già immaginava il successo che avrebbe avuto questa rimpatriata. Ora avevamo molti nomi e indirizzi, ma nessuna delle persone lontane era stata interpellata. Parlandone con gli amici si capiva che la cosa poteva andare in porto. Si decise allora di contattare tutti per posta, per avvertirli dell’iniziativa e chiedendo un risposta, qualora fossero interessati. L’incarico naturalmente venne affidato a me che dovevo fungere da segretaria per ogni evenienza.
Lina era colei che rappresentava l’impresa mettendoci la faccia. Poi c’era il maestro Sauro Montevecchi che conosceva tipografi e stampatori e aveva dimestichezza con lo scrivere. Venivano poi Domenico Nenni, Carlo Pirazzini e Luciano Landi, i quali sarebbero stati pronti mano a mano si presentava il bisogno. In una prima riunione sconclusionata, tenuta a casa mia senza sapere minimamente se la cosa sarebbe andata avanti, venne coniato quel gioco di parole, quello slogan che si ricorda ancora adesso: “I Burdell d’la Pés d’prèma d’la Guèra”.
Partirono centinaia di lettere dirette in ogni angolo del paese, dove erano approdati i profughi della Pace nei lontani anni di guerra. Contattammo pure coloro che col crescere degli anni, col lavoro lontano e con la creazione di nuove famiglie avevano cambiato città. Molti risposero all’appello con entusiasmo, dando all’istante la loro disponibilità. La risposta più commovente arrivò da Isernia da Luigia Ancarani, un’ex casellante del ponte della ferrovia, trasferita colà per matrimonio. La “Gigina” con tanta emozione applaudiva all’iniziativa che riteneva eccezionale, ma si rammaricava amaramente di non poter partecipare. Le sue precarie condizioni fisiche non lo permettevano. Abbracciava tutti fra le lacrime e il rimpianto.
Il tempo frattanto trascorreva veloce. Arrivammo all’estate seguente. Qualcuno ogni tanto chiedeva notizie, facendoci fretta. Così la giornata tanto attesa e tanto paventata trovò la sua data.

Il 20 settembre 1987, in un radioso mattino di fine estate avvenne l’incontro tanto sognato. Il vasto piazzale di Santa Maria della Pace accolse una marea di gente festante che finalmente si ritrovava. Ci si cercava ansiosamente, qualcuno non riusciva a riconoscere qualcun altro. Grida, baci e abbracci, urla di gioia, forti emozioni, una felicità incontenibile che faceva scorrere lacrime di commozione. Quanti “a m’arcord, a t’arcurdat, quanti ricordi “scordati”, perduti nei risvolti del tempo. Persone che si conoscevano da bambini si ritrovavano oggi quasi alla soglia della terza età. Qualcuno dei più grandi aveva già settant’anni.
Una sorpresa insperata la fecero i due sacerdoti che si erano susseguiti nella conduzione della parrocchia, i quali avevano seguito i primi anni delle nostre giovani vite. Don Vincenzo Cimatti era stato con noi fino alla fine degli anni Trenta. Don Vincenzo Zannoni arrivò all’inizio del 1940 e rimase fino al 1959. Trascorse tutto il periodo della guerra sempre alla Pace. Assieme a Don Vittorio, l’attuale parroco, concelebrarono una Messa in ricordo e suffragio di tutti i Burdell che oggi non erano con noi a festeggiare, avendo già raggiunto il loro traguardo. L’elenco dei loro nomi venne letto, suscitando momenti di grande emozione.
La chiesa era gremita di persone, molte di più di quel centinaio che aveva aderito anche al pranzo che si sarebbe svolto dopo al Ponte del Castello, l’unico ristorante ubicato nel territorio della Pace. Vennero lette alcune considerazioni e ricordi scritti da Sauro per l’occasione. Sul sagrato ci attendeva il fotografo che immortalò il gruppo dei Burdell diventati grandi. La folla che aveva gremito la chiesa comprendeva amici e conoscenti, assai curiosi di assistere a questo fatto straordinario. Inoltre c’erano i nostri congiunti, non ammessi al pranzo per mancanza di spazio sufficiente nel ristorante. Allegria, ricordi e baccano tennero banco durante quest’agape fraterna. Carlo Pirazzini declamò col suo solito garbo un’esilarante zirudella.
Nel pomeriggio tutti nell’aia di Binet, da Carlo Liverani dove fra canti, giochi, scherzi, zuccherini, ciambella e vino buono si concluse questa giornata speciale, di quelle che nella vita non ce ne sono poi così tante. Arrivederci a tutti e grazie della bella giornata. “Vogliamo ritrovarci presto”, con queste scarne parole ci salutammo col magone.
Ognuno dei partecipanti aveva speso 30.000 lire che coprivano il pranzo, le spese postali, la stampa dei diversi opuscoli, il fotografo, i fiori per la chiesa e il cimitero, l’offerta per la Messa, ciambella e zuccherini. Alla fine di tutti i conti ci fu un avanzo di 80.000 mila lire. Come spenderli? Dopo un po’ di discussione e di ripensamenti espressi la mia opinione che fu accettata da tutti. La cifra eccedente sarebbe stata offerta all’Ospizio Santa Teresa di Ravenna, che ovviamente gradì.

15 settembre 1991
Per soddisfare le richieste che da diverso tempo e da diverse parti pervenivano al cosiddetto Comitato Organizzatore, fu deciso di dare il via a un secondo incontro di Burdell. Non fu necessario cercarli, avvertirli, chiedere conferma. Un passaparola sguinzagliato in giro bastò ad avvertirli tutti. A dir la verità, il tam tam era stato molto insistente, tanto che si aggiunsero ulteriori Burdell che per vari motivi non avevano partecipato al primo incontro. Invece qualcun altro, sempre per vari motivi non fu in grado di partecipare al secondo. La domenica 15 settembre 1991, dopo quattro anni esatti, i Burdell d’la Pés d’prèma d’la Guèra, si ritrovarono per il secondo raduno.
Il primo festoso incontro del mattino fu sul sagrato della chiesa della Pace, con tanto entusiasmo, emozione, allegria e magone. Seguì la Santa Messa in suffragio degli amici defunti, aumentati nel frattempo, celebrata oggi dal solo Monsignor Vincenzo Zannoni. Monsignor Cimatti aveva lasciato da poco i Burdell per raggiungere il suo ultimo traguardo. Dopo la cerimonia, tutta la brigata si trasferì a Cà d’Gatéra , alle tre Colombaie, casa momentaneamente disabitata, concessa gentilmente dal proprietario. Sotto il capannone liberato dagli attrezzi agricoli e ripulito a modo da tanti volontari entusiasti, si svolse il pranzo. Il Caminetto d’Oro, Badò, in una forma di Catering ante-litteram sfamò l’intera assemblea col condimento dell’allegria generale.
In una stanza fu allestita una mostra di fotografie messe a disposizione di chi ancora le conservava. Angela Drei, una dei Burdell si interessò dell’allestimento con perizia e buon gusto. La mostra fu un successo. I Burdell ritrovarono la loro trascorsa gioventù in quelle antiche foto ingiallite dal tempo, fra allegre risate e antichi rimpianti. Per tutto il pomeriggio fu un carosello di esibizioni, musica, canti, testimonianze, ricordi, il tutto condito da brazadèla e ven bon.
Un simpatico intervento di Gemma Utili ci fece conoscere aneddoti, allegri e tristi capitati alla Pace nel lungo arco del tempo. Si arrivò presto a sera e al momento di lasciarci, dopo aver trascorso un’altra giornata indimenticabile. Come oramai eravamo abituati, ci facemmo tante promesse, tanti abbracci, tanti arrivederci e tanta nostalgia. Poi ognuno tornò alla sua vita con qualcosa in più da ricordare.

20 settembre 1992
Non ci eravamo più confrontati da diverso tempo. Le passate riunioni si erano allontanate dai nostri pensieri. Poi Lina, la solita Lina uscì con una nuova idea. Perché non riunirci ancora? Ed ecco la sua mente rimettersi in movimento a studiare qualcos’altro. Una delle nostre ragazze, Anna Ragazzini di mestiere faceva l’accompagnatrice e guida turistica. A lei sarebbe stato affidato il compito di organizzare una gita per i Burdell, i quali per una giornata sarebbero stati ancora insieme. Fu un detto e un fatto. Avrebbero partecipato solo coloro che abitavano in zona. I più lontani, erano troppo lontani per aggregarsi.
Si partì con una corriera strapiena, cinquantanove persone allegre e festanti. La meta era stata scelta, le Ville Venete, un luogo di interesse generale. Ne avremmo visitata qualcuna, concludendo la giornata con un ennesimo pranzo sociale. La scelta non era casuale. Fra una delle Ville scelte, forse la più interessante, e noi Castellani c’era un rapporto stretto di storia antica. Un insigne abitante del nostro paese, nella sua lunga esistenza, con la sua grande capacità imprenditoriale aveva scalato le vette della scala sociale, divenendo per i suoi grandi meriti uno dei massimi esponenti della ricchezza italiana. Fra il suo immenso patrimonio immobiliare c’era pure la Villa Contarini a Piazzola sul Brenta, diventata poi Villa Camerini.
Il personaggio in questione era il Duca Silvestro Camerini, nato nel 1777 nella casa “la Ghinotta” di Castel Bolognese. Ancora adolescente parti dalla sua povera famiglia per fare il guardiano di bestie, “e Parador” nei mercati di Romagna. Cominciò a poco a poco la sua ascesa nel mondo del lavoro fino a giungere all’apice della fortuna. Camerini fu un grande benefattore. I suoi immensi profitti li usava per aiutare chi era nel bisogno.
A Castel Bolognese, suo paese natale, finanziò la creazione dell’Asilo Camerini, aiutò il ricovero di mendicità, istituì una fondazione per i tanti bisognosi del paese che ricevevano un sussidio, chiamato dalla popolazione “l’arditè d’Camarè”. Questo sussidio si è estinto con lo scombussolamento della seconda guerra mondiale. L’odierno reddito di cittadinanza è una copia del sussidio di Camerini in chiave moderna.
Durante il viaggio di andata, per tenere la comitiva allegra e attenta, Lina offrì alcuni omaggi dal suo negozio di profumeria per premiare coloro che sapevano rispondere a certi quesiti che riguardavano la nostra giovinezza: certi fatti e misfatti capitati alla Pace negli anni andati, episodi significativi accaduti durante la seconda guerra mondiale. La vittoria era di chi per primo riusciva a ricordare i vari eventi dimenticati nelle pieghe del tempo. Mi ero impegnata a scrivere queste antiche storie, anche in dialetto accorgendomi in quell’occasione che il dialetto è una lingua bellissima, basta trovare il modo di districarlo…
Visitammo poi alcune favolose e affascinanti Ville affacciate sulla straordinaria Riviera del Brenta. Naturalmente Villa Camerini a Piazzola sul Brenta ebbe tutta la nostra ammirazione e ci sembrò quasi che ci appartenesse un po’. Dopo le interessanti visite che avevano soddisfatto tutta la comitiva, approdammo alla “Beccaccia di Cornuda”, un ristorante che accontentò e saziò i nostri appetiti.
Giunse al fine anche questa giornata insolita che ci aveva fatto scoprire luoghi fantastici e fatto tornare alla memoria quel personaggio straordinario che probabilmente ognuno di noi aveva dimenticato nei risvolti della storia. Con una voglia matta di ripetere l’esperimento tornammo alle nostre case con qualcosa di nuovo da ricordare.

20 maggio 2001
Sembrava che il trascorrere del tempo avesse travolto e spento gli entusiasmi riscontrati nei tre precedenti raduni dei Burdell d’la Pés d’prèma d’la Guèra, i quali avevano suscitato emozione, contentezza, commozione. Dieci anni sono già passati dall’ultimo incontro. La lunga pausa ci ha fatto arrivare addirittura nel terzo millennio. L’inspiegabile silenzio faceva pensare che le simpatiche iniziative, gli indimenticabili “amarcord”, gli entusiastici ritrovamenti fossero finiti nel dimenticatoio.
Poi, dando ascolto a tante voci che giungevano da diverse parti, ci si è messi di buona lena per tentare di ripristinare un nuovo evento. Sfogliando i precedenti elenchi con i nomi dei partecipanti ci si è resi conto che dal 20 settembre 1987, data del primo incontro, le liste si sono molto assottigliate. Occorre quindi darsi da fare prima che il gruppo di Burdell si sgretoli ulteriormente.
Con lungimiranza qualcuno ha suggerito di includere nel gruppo anche coloro che, nati dopo il conflitto, hanno trascorso la loro infanzia e giovinezza alla Pace e al Ponte del Castello, all’ombra del risorto campanile della chiesa. Pertanto i nati fino agli anni Cinquanta o giù di lì, se lo desiderano, possono aderire ai Burdell d’la Pés de temp indrì, il nuovo slogan che ha soppiantato per forza maggiore il vecchio I Burdell d’la Pés d’prèma d’la Guèra.
La ripartenza è il 20 maggio 2001. Il primo incontro, come al solito è nel sagrato della chiesa – e non poteva essere altrimenti – con centoventi partecipanti emozionati che scalpitano. Un buon numero di nuovi Burdell, i più giovani si fa per dire, rimpolpano i ranghi. In chiesa la Santa Messa in suffragio e ricordo dei Burdell che ci hanno preceduto, il cui elenco si è notevolmente ampliato. Potenza del tempo che avanza inarrestabile. Alla fine dopo tutti i rimpianti, i saluti, i ricordi non può mancare un pranzo fraterno. Si dice che “tutti i salmi finiscono in gloria,”. Il ristorante Valsenio, dove si approda gioiosi e affamati sarà la nostra gloria. Buon umore, scherzi, zirudelle, poesie, allegria, canti e una simpatica cassetta postale dove i convenuti si sbizzarriscono a imbucare le loro lettere le quali contengono: commenti, suggerimenti, apprezzamenti, critiche, idee nuove, barzellette. La cassetta ha un notevole successo di pubblico. Sarà perché la spedizione è assolutamente gratuita, non occorre il francobollo. Buona parte del pomeriggio è impegnata a leggere la posta e a trarre ognuno le proprie conclusioni. La maggior parte delle richieste pervenute è quella di fare più spesso questi eventi. Ognuno mette i tempi che vorrebbe, c’è chi sceglie addirittura una volta all’anno. Alcune lettere vengono da Burdell impossibilitati a venire che però si associano con tanto affetto abbracciando tutti . Alla fine anche oggi si fa sera. Dopo esserci salutati, abbracciati, ringraziati per esserci, con un arrivederci presto, ognuno si avvia verso la sua vita consueta, forse sperando veramente di rivederci ancora tutti insieme.

Ricordi dell’incontro del 1987 (dagli archivi di Maria Landi e Maria Montanari)

Ricordi dell’incontro del 1991 (dagli archivi di Maria Landi e Maria Montanari)

Video dell’incontro del 1991 (si ringrazia Francesco Minarini)

N.B. pubblichiamo il video ritenendolo di interesse e pensando di fare cosa gradita a chi riconoscerà familiari o amici scomparsi da tempo. Siamo pronti a toglierlo dal nostro canale youtube se qualcuno si sentisse offeso dal suo contenuto

Ricordi della gita del 1992 (dagli archivi di Maria Landi e Maria Montanari)

Ricordi dell’incontro del 2001 (dagli archivi di Maria Landi e Maria Montanari)

Video dell’incontro del 2001 (si ringrazia Francesco Minarini)

N.B. pubblichiamo il video ritenendolo di interesse e pensando di fare cosa gradita a chi riconoscerà familiari o amici scomparsi da tempo. Siamo pronti a toglierlo dal nostro canale youtube se qualcuno si sentisse offeso dal suo contenuto

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L’alimentazione umana al tempo della mia infanzia e adolescenza https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vita-sociale/lalimentazione-umana-al-tempo-della-mia-infanzia-e-adolescenza/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vita-sociale/lalimentazione-umana-al-tempo-della-mia-infanzia-e-adolescenza/#respond Tue, 08 Nov 2022 20:47:02 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=10046 di Maria Landi (Introduzione) Il 21 agosto 2022 al Mulino Scodellino Maria Landi ha animato un “trebbo gastronomico” in cui ha raccontato, attigendo ai ricordi di infanzia e adolescenza, come si mangiava un tempo nelle campagne castellane. I temi principali sono stati il pane come alimento principale, il cibo quotidiano …

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di Maria Landi

(Introduzione) Il 21 agosto 2022 al Mulino Scodellino Maria Landi ha animato un “trebbo gastronomico” in cui ha raccontato, attigendo ai ricordi di infanzia e adolescenza, come si mangiava un tempo nelle campagne castellane. I temi principali sono stati il pane come alimento principale, il cibo quotidiano e i pranzi delle feste. Con la compagnia di Andrea Soglia, Maria ha letto anche varie sue poesie sempre di argomento “gastronomico”. Mentre preparava l’incontro Maria Landi ha buttato giù un po’ di appunti che sono stati un’utile scaletta per il trebbo; questi appunti Maria li ha pazientemente riordinati e ce li ha inviati per il sito. Ci sembrano molto interessanti e li pubblichiamo pensando di farvi cosa gradita, così come molto apprezzato era stato il trebbo di cui alleghiamo qualche fotografia tratta dalla pagina facebook del Mulino Scodellino. Ringraziamo Anna Ragazzini per la sempre gentile collaborazione. E, naturalmente, un grosso grazie a Maria! (A.S.)

L’elemento indispensabile dell’alimentazione ai tempi della mia infanzia e adolescenza era senza alcun dubbio il pane. Quando sulla tavola mancava il pane c’era solo da soffrire la fame. Molte cene consistevano a volte in un pezzo di pane, “un trocal d’pan” inzuppato nel vino, oppure in una fetta di pane sfiorata da un velo di marmellata, o cosparso di pepe e sale e una lieve lacrima d’olio, antenata dell’odierna bruschetta. Il companatico c’era solo rare volte.

In campagna il pane si faceva in casa. Chi non aveva il forno portava l’impasto già lavorato e gramato a cuocere in paese. Si poggiava su lunghi assi sui quali si confezionavano le pagnotte, che venivano contrassegnate da un timbro di riconoscimento, segnandole con un segno di croce prima dell’infornata. Più tardi si ritirava il pane caldo, fresco e fragrante per i bisogni di un intera settimana. Le donne di casa, sotto l’inflessibile comando dell’azdora che non ammetteva contestazioni, buone buone espletavano questo importante lavoro come un rito solenne.

Durante i cinque lunghi anni di guerra, le già precarie condizioni esistenti si aggravarono ulteriormente. Verso la metà degli anni Trenta l’Italia subì le Sanzioni Economiche, imposte dalla Società delle Nazioni di cui faceva parte. Aveva meritato un simile affronto, per avere violato certe regole vigenti fra gli stati membri della Società. Con una guerra di conquista aveva invaso una vasta zona dell’Africa, precisamente l’Etiopia, non rispettando i trattati esistenti. Pressappoco la stessa situazione che sta accadendo ora fra la Russia, che sta invadendo l’Ucraina in una guerra spietata e le Nazioni Unite che sono contrarie a questo infame sopruso.

L’Italia fu privata delle necessarie risorse che non aveva e che acquistava nei mercati stranieri. In modo particolare vennero a mancare i generi alimentari, indispensabili per sfamare la popolazione. Onde arginare questo disastro fu istituita la famosa “Battaglia del Grano”, uno slogan propagandistico che doveva far aumentare le scarse scorte. Le terre incolte, certe aree sportive e certi giardini furono coltivati e piantati a grano. Piazza d’Armi a Faenza, non ancora alberata e priva di costruzioni divenne un vastissimo campo di grano, che faceva un bellissimo effetto al tempo della maturazione.

Quando a giugno del 1940 anche l’Italia entrò in guerra le poche scorte diminuirono ancora. C’era anche da provvedere ai rifornimenti alimentari per i soldati dislocati nei vari fronti. Le tristemente famose Tessere Annonarie vennero inventate in questo frangente. Ogni cittadino venne fornito di diversi fogli multicolori composti di cedole staccabili, che davano diritto all’acquisto di ciò che serviva per tirare avanti alla meno peggio. Questo stratagemma copriva la triste realtà. Tutto era razionato e si poteva acquistare solo ciò che era stato deciso dall’alto. La cedola del pane concedeva un ettogrammo e mezzo di pane al giorno, aumentato a tre e mezzo per gli uomini che lavoravano e le donne in stato interessante. Una famiglia di quattro persone poteva arrivare fino a otto etti, essendoci un uomo. Se facciamo un paragone con oggigiorno che di pane se ne mangia pochissimo, vediamo che otto etti sono tanti. Il gradevole companatico di oggi però, a quei tempi era quasi assente. Il grano era sempre più scarso. Per far farina a sufficienza si macinavano tutti i tipi di cereali e anche legumi. Si arrivò persino a mischiare a queste strane farine patate lesse schiacciate. Dalla strana mistura usciva un pane brutto e disgustoso e nonostante tutto era sempre troppo poco.

Chi aveva come noi la fortuna di vivere in campagna, riusciva in qualche modo a procurarsi il cibo. Cera l’orto con alcuni alberi da frutto, si coltivavano anche gli angoli più stretti. C’era il cortile dove di nascosto dalle istituzioni crescevano conigli e polli, con relative uova. Occorreva stare molto attenti per non farsi decurtare cedole, in seguito alle spiate dei vari delatori che, girando per le campagne, segnalavano i cosiddetti “furbetti” che tentavano di aggirare le spietate regole.

Inoltre si dava un aiuto ai contadini dalle famiglie dei quali era venuto meno la forza lavoro dei giovani, costretti sotto le armi. Nei momenti cruciali si dava una mano, ricevendo in cambio un riconoscimento in natura, mai in denaro. Vigeva l’antica forma del baratto. Tu mi aiuti, io ti do quello che ho. Poi si andava a spigolare dopo il raccolto, anche se per questo povero lavoro occorreva il permesso dall’alto. Poiché il bisogno aguzza l’ingegno, i giardini, i balconi, le terrazze vennero convertiti in orti. I celebri orti di guerra, cantati anche nelle canzoni patriottiche.

Per questi motivi e un’infinità di altri noi non soffrimmo mai la fame vera e propria. Quella fame mai saziata che strisciava fra le popolazioni delle città, dove per procurarsi un po’ di cibo si doveva sottostare alle regole di quell’orribile sistema chiamato Mercato Nero o Borsa Nera. Molte persone per procurarsi di che sfamare la famiglia si privò dei propri averi.

Il lungo periodo di grande crisi alimentare interessò il primo mezzo secolo del ‘900. Finita la guerra e l’altrettanto pesante dopoguerra si ripristinò alla meglio la situazione e si ricominciò a vivere. Riprese un’alimentazione quasi normale. Il cibo non era più razionato, anche se non proprio abbondante. Ecco allora le brave massaie riannodare le fila interrotte per così lungo tempo, quando si erano inventate, con il poco che c’era, il necessario alla sopravvivenza della famiglia. Tornarono sulla tavola Odori e Sapori dimenticati da tanto. La poesia che ricorda le tante loverie scordate per forza maggiore, la scrissi una ventina di anni fa su preghiera di una amica nostalgica, che chiedeva romanticamente qualcosa che ricordasse il passato. Un caro amico di allora, il Professor Stefano Borghesi apprezzò molto la composizione definendola semplicemente deliziosa.

La cucina quotidiana prevedeva per il pranzo un primo di minestra, non c’era distinzione fra pasta asciutta o in brodo, si chiamava tutta “minestra” e veniva cotta in qualsiasi tipo di brodo oppure in acqua e poi condita. Si impastavano acqua, farina e poche uova e si cuoceva in brodo di fagioli o in una brodaglia condita con ritagli di carne, pomodoro e cipolla la cosiddetta minestra matta, poco gradevole e che si mangiava solo per sfamarsi. Spesso c’era il riso cotto nel latte molto allungato con acqua , oppure in un brodo ricavato bollendo le ossa scarnificate del maiale, i piedini o zampetti, le orecchie, il codino tutto ben raschiato e pulito. Il brodo era fitto e denso, ma non sgradevole. Si facevano i curzul ricavati dalla sfoglia lasciata molto grossa e condita con quello che c’era, tornati in auge con ottimi sughi nelle cucine dei ristoranti odierni. Lunghi vermicelloni chiamati bigoli si facevano rotolando sul tagliere strisce di pasta, a volte si condivano con aglio e prezzemolo e risultavano semplicemente disgustosi. Oggi si chiamano strozzapreti e sono presentati nei migliori ristoranti ben conditi come novità assoluta.

I pasti si concludevano con frittate farcite con svariati tipi di erbe commestibili, oppure con teglie di friggione, “e Frizai” molto spesso presente sulla tavola, dentro il quale si intingeva il pane e che accontentava grandi e piccini. Ogni tanto si sacrificava un pollo, ma non si poteva consumare tutto in una volta. Una parte si riponeva in un cestino appeso a una corda e calato giù nel pozzo per conservarlo al fresco. Il frigorifero non era ancora stato inventato. Anche il cocomero passava un po’ di tempo nel pozzo.

In campagna, in particolari periodi, il lavoro era tanto intenso che la giornata iniziava all’alba e terminava al tramonto. Non esistevano pause caffè o pause di altri tipi. La prima colazione chiamata “panett”, consistente spesso in un pinzimonio di scalogno e cipolla e qualche fetta di un salume, annaffiati con un bicchiere di vino, si consumava nel campo di prima mattina. Le donne portavano grosse ceste di vettovaglie e apparecchiavano sulle zolle. A metà mattina da capo, con una grande teglia di friggione nel quale intingere il pane, si mettevano in pari gli appetiti. Anche a mezzogiorno si mangiava sul posto di lavoro. Tutto ciò per non sciupare tempo a spostarsi. Forse l’odierno picnic ha copiato questa antica usanza. Anche gli operai che lavoravano alla trebbiatrice, ”la Machina da Batar”, cambiando sempre zona di lavoro, mangiavano sul posto. Naturalmente erano le donne che portavano il cibo, affrontando lunghi tragitti disagevoli. Il menù era composto da un primo di minestra sempre asciutta, perché il brodo sarebbe traboccato nel percorrere carraie e sentieri spesso dissestati, seguivano un po’ di polpette, una porzione di pollastro e spesso uova sode spruzzate di rosolio.

Un altro alimento che ha aiutato molto nei momenti più neri è stata la polenta di mais. Si consumava abbrustolita sulla brace e a volte fritta nello strutto di maiale, una vera prelibatezza, oppure condita con quello che c’era in casa. Era gradita e apprezzata da tutti. Il granturco era per l’alimentazione del bestiame, ma dopo macinato si sceglieva la parte più fina che sarebbe diventata polenta, il resto diventava broda e pastone per gli animali. In granelli era una ghiottoneria per maiali e polli. Messi ad abbrustolire diventavano “galletti” per la gioia dei bimbi. Esistono ancora ma ora si chiamano popcorn e si comprano già pronti sigillati in sacchetti di carta lucida. La polenta dopo un certo tempo non fu più apprezzata come prima, quasi ci si vergognasse di un cibo così povero. Ora invece nelle sagre di paese questo piatto condito a puntino è tornato molto gradito. I grani del mais bolliti si trovano oggi mischiati ad altri alimenti, in insalate varie e si comprano in barattoli. Le granelle pallide e mollicce son diventate parte dell’alimentazione umana.

Non vogliamo dimenticare in questo nostalgico “amarcord” l’importanza del maiale che si macellava in ogni casa di campagna. Di questo povero animale ingrassato per essere sacrificato alla fame degli uomini, si consumava tutto. Si cominciava col migliaccio, conosciuto come “Barlenga”, fatto col sangue del martire, che diventava, a saperlo cucinare, una leccornia da giorni di festa. Dalla spartizione delle povere spoglie si ricavavano un’infinita varietà di pietanze, preparate da esperti norcini, “i mazler” che venivano riposte, ben salate per essere consumate fino all’estate. Persino le setole e le ossa servivano, venivano vendute a peso ai cenciaioli, i strazir.

Il mangiare della domenica era un po’ più ricercato e piacevole da consumare. La domenica si santificava la festa con la minestra cotta nel brodo di carne. Mia nonna Mariuccia partiva appena giorno, la domenica, per andare in paese a comprare la carne da brodo e tornava immediatamente per arrivare ad assistere alla prima messa nella chiesa della Pace. Portava alla mia famiglia un cartoccio di carne del valore di lire 3 e 50, non ricordo però di quale periodo si tratti, con la quale si faceva un brodo da leccarsi i baffi e dentro il quale si cuocevano i tagliolini impastati con sole uova.

Mia madre confezionava una specie di polpettone chiamato “e pì”, il pieno impastato con farina, pan grattato e uova. Lo cuoceva immerso nel brodo, dopo lo affettava ed era un ottimo contorno per il lesso, il quale doveva bastare anche per la cena. Qualche volta ciambella o zuccherini completavano la giornata di festa. Sempre la nonna alcuni venerdì andava al mercato ad acquistare un tipo di pesce che sapeva lei, importante per lo sviluppo intellettivo dei bambini.

Dall’uva appena pigiata si estraeva il mosto col quale si creavano pietanze per le nostre mense. I “sugal”, una miscela di mosto con farina bianca e gialla bollita a lungo, dava una specie di marmellata per il fine pasto. Sempre dal mosto, bollito per diverse ore si creava la deliziosa “saba”, dentro la quale si inzuppavano i ravioli di castagne, “i Sabadò”, da mangiare a carnevale e nelle feste del patrono. Inoltre nella saba si bollivano pere, mele cotogne e gherigli di noce che diventavano lo squisito “Savor,”. Sempre dal vino, cotto e speziato, nasceva il “Brulé”. In particolari serate di allegria, a trebbo nelle stalle riscaldate dal fiato delle bestie, si mangiavano le caldarroste annaffiate col vino cotto.

C’erano poi le feste grosse. In primis, il Santo Natale e la festa del Patrono, Sant’Antonio protettore della campagna e degli animali da cortile. Erano queste le uniche giornate nell’arco dell’anno in cui si mangiavano i cappelletti, orgoglio e vanto della nostra cucina. Si preparava un ricco brodo, per fare il quale si immolava un cappone e lì, dentro quella delizia si cuocevano i cappelletti. Seguiva un arrosto di carne, poi il dolce, quasi sempre la Zuppa Inglese, la “Sopa Inglesa”, specialità di mia mamma e poi vino in abbondanza. Lungo l’anno c’erano altre feste importanti, la Santa Pasqua, in cui era obbligatorio mangiare i passatelli più le solite quisquiglie. Da noi si festeggiava il quindici agosto, giorno dell’Assunzione, ma non riesco a ricordare il menù di quella giornata di piena estate. Per preparare il po’ po’ di roba che costituiva il menù delle feste, si sacrificavano i capponi, polli allevati nell’aia che a tempo debito sotto le mani esperte e un po’ crudeli delle “azdore” diventavano capponi. Oggigiorno si fanno molto sbrigativamente con una vaccinazione. Se quei bellissimi galli, conquistatori di galline, vanto e orgoglio dei cortili che vengono scelti per l’operazione, sapessero a cosa vanno incontro, scapperebbero a gambe levate. Per loro fortuna non lo sanno.

Quanto raccontato fino qui, in questa sequela di ricordi è soltanto un vago accenno a quanto è capitato a noi nel lungo periodo della storia che oramai fa parte del nostro passato.

Aggiungo per diritto di cronaca una costatazione. Difficilmente nel periodo menzionato si incontravano bambini e adolescenti sopra peso, grassi e obesi. Non erano ancora state soppiantate le fette di pane casereccio con marmellata o con burro fatto in casa con la panna del latte, da sempre colazione e merenda per bambini. Con il passare degli anni per fortuna migliorarono le condizioni di vita. Arrivarono le merendine, gli snacks, i dolcetti, molto più gustosi e sempre pronti, facili da preparare e tutto cambiò. Cambiò anche la fisicità dei bambini.

Ai tempi della mia giovinezza nessuno in casa aveva la bilancia pesa persone. Non c’erano nutrizionisti o diabetologi. Nessuno si interessava di calorie, carboidrati, grassi saturi o insaturi, non se ne conosceva l’esistenza. Gli argomenti di conversazione non sfioravano il colesterolo, i trigliceridi, la glicemia, il diabete e via via tutte le altre cose delle quali ora sappiamo quasi tutto. Quando moriva qualcuno improvvisamente, senza tanti complimenti si diceva: “e purett, u j’è avnu un colp”. Se qualcuno a una certa età perdeva l’orientamento si commentava così: “u s’è imbambinì…
Detto tutto ciò si deve ammettere che le malattia infierivano con violenza anche una volta, basti pensare alla terribile epidemia di Spagnola che decimò la popolazione mondiale negli anni Venti e giù di lì, o alla tremenda forma di tubercolosi che si portava via la migliore gioventù dalle famiglie dove entrava. Prima che il mondo conoscesse la penicillina.

A questo punto si deve ammettere, con molto piacere, che nonostante i pro e i contro, l’aspettativa di vita da allora in poi ha fatto un bel balzo in avanti.

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NOME: Co.Ro.Vin – LUOGO DI NASCITA: Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vita-sociale/nome-co-ro-vin-luogo-di-nascita-castel-bolognese/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vita-sociale/nome-co-ro-vin-luogo-di-nascita-castel-bolognese/#comments Sun, 19 Dec 2021 22:33:26 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=9297 Le vicende della ex Cantina. Dal dopoguerra a Castelverde di Paolo Grandi Fino agli anni ’60 del secolo scorso la maggior parte dei coltivatori vinificava la propria uva, o gran parte di essa, producendo vino per sé e per la vendita a pochi, affezionati, clienti. Ma in quel periodo si …

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Le vicende della ex Cantina. Dal dopoguerra a Castelverde

di Paolo Grandi

Fino agli anni ’60 del secolo scorso la maggior parte dei coltivatori vinificava la propria uva, o gran parte di essa, producendo vino per sé e per la vendita a pochi, affezionati, clienti. Ma in quel periodo si stava diffondendo dalle grandi città verso i piccoli centri un nuovo modo di concepire la spesa alimentare: il supermercato, cioè la grande distribuzione.
D’altronde anche le cantine –ed il fenomeno durerà ancora fino agli anni Settanta– vendevano vino sfuso, per lo più destinato a imbottigliatori di altre regioni italiane, con un modesto ritorno economico.
In questo contesto nasce l’idea di Co.Ro.Vin. di produrre vino imbottigliato che possa essere trovato dai consumatori con estrema facilità nelle botteghe di alimentari e successivamente sugli scaffali del supermercato.

La cantina Scardovi

All’angolo tra la Via Emilia ed il viale Umberto I, dove ora sorge il quartiere “Castelverde” esisteva una cantina vinicola, nata per opera dei fratelli Scardovi che poi avvieranno anche uno stabilimento di lavorazione della frutta nei pressi della stazione ferroviaria. I luoghi sono rimasti tali fino all’abbattimento e ciò che resta dell’intero complesso è la palazzina che affaccia sulla via Emilia, di bella fattura, servita un tempo quale sede degli uffici direzionali ed alloggi e la cabina ENEL in via Canale.
Subito dietro la palazzina, dopo una costruzione ad un piano ove erano posti altri uffici, iniziava un lungo capannone che terminava sul confine col macello comunale e, verso ovest seguiva il viale Umberto I, mentre verso levante seguiva il Canale dei Mulini che successivamente, per ragioni di praticità, fu tombinato. Prima dell’uscita verso la via Canale un’altra costruzione addossata alla cabina ENEL ospitava gli spogliatoi del personale, la pesa ed i bagni. Nell’edificio prospiciente Viale Umberto I vi erano le grandi cisterne per la decantazione del mosto e la conservazione del vino. Oltre il canale si apriva un ampio piazzale al quale si accedeva tramite un grande cancello dalla via Emilia, mentre un secondo cancello era sulla via Canale. Su questo grande slargo v’era un secondo edificio costituito da due capannoni a volta, più corto di quello descritto in precedenza ma più largo, ove erano altre vasche e l’imbottigliamento. L’area aveva un’ampiezza complessiva di quasi 11.000 metri quadrati ed un affaccio sulla Via Emilia di 112 metri.
In seguito al fallimento degli Scardovi la cantina, al pari del magazzino ortofrutticolo, fu acquisita dalla S.I.G.L.A. (una società affiliata ai Consorzi Agrari) che applicò il suo inconfondibile gallo su un grande pannello posto sopra i capannoni gemelli dell’imbottigliamento e dipingendo, nelle due facciate tripartite la inconfondibile scritta: ALBANA TREBBIANO SANGIOVESE, che vi rimarrà inalterata sino all’abbattimento. Qui, nel 1969, si insediò CO.RO.VIN., Consorzio Romagnolo Vini tipici.

Il Co.Ro.Vin a Castel Bolognese

Così scrive Secondo Ricci nella presentazione del libro “Il caso Tavernello” (1) “Alla fine degli anni ’60 le cantine sociali, consolidate dai primi investimenti, e sollevate dalle difficoltà iniziali, cominciarono ad interrogarsi su come raggiungere il mercato con un proprio prodotto in bottiglia, con propri marchi, per fidelizzare il consumatore. Nacque l’idea del consorzio per arrivare tutti insieme sul mercato finale e, per non dover acquistare una linea di imbottigliamento per ogni singola cantina, si decise di costruire un unico stabilimento per tutte le nove cantine fondatrici del Consorzio Co.Ro.Vin., che diverrà CAVIRO nel 1985 unendo i due settori imbottigliamento e distilleria. Come per tutti, gli anni iniziali furono i più impegnativi, con le vendite dei nostri vini DOC (albana, trebbiano e sangiovese) ma soprattutto dei vini da pasto in bottiglioni da 2 litri con vuoto a rendere.”
E proprio la linea del vino da pasto in bottiglioni interessava lo stabilimento di Castel Bolognese: alte pile di bottiglioni vuoti occupavano gran parte del piazzale, e in città si parlava di quella cantina in cui si produceva un vino “leggero e da bere quasi come la Coca-Cola”, al quale non si dava troppo futuro… Per tener riparate parte delle bottiglie, Co.Ro.Vin. ampliò la parte coperta con una grande tettoia che si allungava davanti la seconda volta del reparto di imbottigliamento.
Questo era già il “Tavernello”, o comunque il suo diretto ascendente. Nel 1976 il Co.Ro.Vin. costruì il nuovo stabilimento di Forlì destinato, al momento, all’imbottigliamento e dotato dei più moderni macchinari. Pian piano il piazzale di Castel Bolognese si liberò dai bottiglioni, ma qui rimase ancora per qualche tempo la lavorazione del vino. Lo stabilimento forlivese si estendeva su una superficie totale di 170.000 mq, aveva una superficie coperta di 22.500 mq, una capacità ricettiva di 128.000 ettolitri, magazzini per 10.000 mq, piazzali per 20.000 mq ed un potenziale produttivo di imbottigliamento di 40 milioni di bottiglie/anno, pari a circa 400.000 ettolitri.

Dal “babbo” del tavernello al Tavernello

Intanto, a livello di mercato, dopo il trasferimento dello stabilimento nel 1976 da Castel Bolognese a Forlì, continuava la ricerca di contenitori alternativi al vetro e ci si orientò, racconta sempre Secondo Ricci, ai contenitori alternativi quali quelli già in uso per acqua e latte. Alla fine del 1980 Co.Ro.Vin, in collaborazione con Tetra-pak, e con l’Università di Bologna decise di iniziare la sperimentazione, durata tre anni, dei primi brik da 0,25 litri. Nel 1983, ritenuto positivo l’esperimento e valutati i risultati positivi della conservazione del vino in brik, si decise di partire con l’avvio del confezionamento in brik da litro e da quarto di litro. Rimaneva solo il nome da definire e, prendendo spunto dall’immagine evocativa della taverna del vino, nacque “Tavernello”
Negli anni ottanta è rimasto il legame fra Co.Ro.Vin e Castel Bolognese, dove risiedevano anche molti dipendenti che per lavoro operavano a Forlì. Di questo legame ne è testimonianza una foto dove l’auto (una FIAT 124) di una corsa promossa dalla Unione Ciclistica Castel Bolognese (probabilmente la Coppa Vallesenio) è tappezzata di pubblicità tutte di imprese castellane. Spicca al centro dello sportello anteriore quella del Tavernello Co.Ro.Vin. anche se il recapito telefonico è quello di Forlì, segno che la direzione del Consorzio era già stata spostata nel nuovo stabilimento.

Il Co.Ro.Vin lascia Castel Bolognese – La Cooperativa Sociale Valle del Senio

Man mano che cresceva lo stabilimento di Forlì, ove gradualmente fu portata anche la lavorazione del vino, lo stabilimento di Castel Bolognese fu abbandonato. Tuttavia, la parte di immobile contenente le cisterne e la lavorazione dell’uva venne affittata per alcuni anni dalla “Cooperativa Cantina Sociale Valle del Senio” che si era proposta di riunire i viticoltori della vallata per produrre vino da commercializzare ad aziende che lo destinavano a successive lavorazioni.

Gli immobili ed il piazzale fino alla demolizione

Gli ampi spazi della cantina non rimasero inutilizzati a lungo, complice il fatto di essere vicini al centro, assolutamente visibili perché posti su una strada di grande comunicazione, e dotati di spazi coperti e scoperti. Nel 1976 la Democrazia Cristiana di Castel Bolognese vi organizzò la prima “Festa dell’Amicizia” sfruttando gli spazi coperti dei capannoni ex imbottigliamento, la grande tettoia esterna ove furono sistemati i tavoli dello stand gastronomico e le ampie lunghe pensiline ove furono ospitate alcune mostre, la pesca ed altri intrattenimenti. Ospite della manifestazione, che si tenne a cavallo dell’ultima domenica di agosto, dal giovedì al lunedì, il ministro del lavoro Tina Anselmi. Fu un successo, tanto che la festa si replicò negli anni a venire, sempre nelle stesse date, fino alla dissoluzione del Partito.
Pochi anni dopo, nel 1982, su idea del professor Emilio Gondoni, allora presidente della Sezione AVIS di Castel Bolognese, si organizzò il Festival AVIS, utilizzando i medesimi spazi occupati dalla “Festa dell’Amicizia”; ed ancora sempre nei medesimi spazi, la sezione del Partito Socialista iniziò ad allestire la propria festa di partito: il “Festival dell’Avanti!”.
La cantina ex Co.Ro.Vin. si era quindi trasformata, di fatto, in un quartiere fieristico, tanto che si ricorda anche l’organizzazione di qualche “Mostra dell’Agricoltura” e “Mostra dell’artigianato della Valle del Senio” utilizzando sia il piazzale esterno che gli spazi interni del capannone ex imbottigliamento.
Nell’immobile adibito a cantina invece, per qualche anno, di sicuro nel 1989, si confezionarono addirittura i cappelletti di Pentecoste ed ancora per vario tempo i capannoni vuoti dell’imbottigliamento furono l’atelier dei carri di Carnevale.
Non si deve infine dimenticare che nel locale “caldaia”, ricavato sotto l’ampia tettoia antistante il secondo capannone sulla via Emilia, per lungo tempo Mario Conti tenne un’officina per la riparazione di attrezzi agricoli.
La vendita dell’intero complesso, passato poi di proprietà alla “Nuova COPMA” di Castel Bolognese, ormai inutilizzato da anni, avvenne negli anni ’90 del secolo scorso; nel 1990 si organizzò ancora lì il Festival AVIS per l’ultima volta; l’anno successivo fu costretto a spostarsi nel Prato della Filippina. Tutti gli immobili furono demoliti, ad eccezione, come detto, della palazzina prospiciente la Via Emilia e della cabina ENEL e in quell’area fu realizzato l’attuale quartiere di “Castelverde” con negozi, uffici ed abitazioni ricavati in quattro eleganti edifici.

NOTE
(1) WILLIAMS S., Il caso Tavernello – Un successo del modello imprenditoriale cooperativo, Faenza, 2014.

Contributo originale per “La storia di Castel Bolognese”.
Per citare questo articolo:
Paolo Grandi, Nome: Co.Ro.Vin. – LUOGO DI NASCITA: Castel Bolognese, in https://www.castelbolognese.org

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Quando il Corso Garibaldi (e viale Cairoli…) erano scenario di gare motociclistiche stracittadine

di Paolo Grandi

Ho raccolto questo quadretto del vecchio Castello dai ricordi personali di Giovanni Camerini il quale nonostante l’età ha ancora tanto desiderio di raccontarli a quelle persone che abbiano voglia di ascoltarlo, col suo solito brio e la sua sottile ironia, seduto nel cortile di casa in questi caldi pomeriggi estivi con altre sedie pronte ad accogliere, in quello che lui chiama “e bar”, chi passa per via Bologna ed abbia desiderio di scambiare due chiacchiere su Castello e sui tanti temi del vivere quotidiano. “E mi bar però –dice Camerini– adess l’è poc frequenté perché i piò aventur i s’è traferì in te condominio (cioè al cimitero….) e mè am fagh magnè e poc guadagn dal tass…”

Siamo nel dopoguerra, nei primi anni ’50 quando, dimenticati un po’ i disastri e gli orrori della sosta del fronte, Castello si stava riprendendo ed iniziava a scorrere un poco di benessere. Così nei giovani castellani era sorta la moda e la passione per le moto di media cilindrata (dai 125 ai 500 cc). Capogruppo era Pasquale Tabanelli che aveva una “Guzzi 350”, lo seguiva Merenda con una “MV Agusta” (forse –dice Camerini– una 250); lo stesso Camerini con una “Gilera 125” e poi Aureliano Borzatta con una moto autocostruita ed altri. Borzatta aveva frequentato le prestigiose scuole tecniche “Alberghetti” a Imola ed era stato in grado di autocostruirsi la moto alla quale, non avendo marca, gli amici avevano affibbiato lo stesso soprannome di Aureliano: “Pinto”.
Teatro quotidiano della sfida era il Corso Garibaldi, forse da poco orribilmente ribattezzato “Via Emilia Interna” dalla casa di Tabanelli nel Borgo (cioè, dice Camerini, da dove iniziava l’illuminazione pubblica), fino al piazzale del Mulino di Giovannini. Certamente la via Emilia non sopportava allora l’esagerato traffico di oggi….

La sfida si svolgeva all’imbrunire ed era una gara di velocità a chi per primo avesse valicato il traguardo dal mulino. Per gli avventori dei bar e dei caffè sulla via Emilia era lo spasso serale, tutti a fare il tifo per l’uno o per l’altro corridore. A fine gara le discussioni proseguivano per ore tra chi asseriva di non aver potuto dare il massimo perché qualcuno gli aveva tagliato la strada, chi lamentava un improvviso guasto, chi sospettava su “trucchi” del motore e così continuando fino allo stremo.

Ma una sera la gara avvenne in maniera differente: si sfidarono alla velocità Borzatta e Merenda, quelli con le moto più veloci e luogo della tenzone non fu la via Emilia ma il viale Cairoli. A quell’epoca, ricorda Camerini, il viale era ancor meno illuminato della via Emilia e vi erano quattro lampade ad incandescenza per tutta la sua lunghezza. Infine, davanti all’edificio della stazione, non c’era l’aiuola con lampione per illuminare il piazzale. Ma, soprattutto, il viale era molto più corto del Corso…

I due partirono a gran velocità da viale Umberto I, rimasero di poco scostati fino a metà del viale Cairoli, continuarono la folle corsa poi verso la Centonara Borzatta ebbe la sensazione di essere superato e diede più velocità alla moto voltandosi indietro per scorgere l’avversario, senza invece accorgersi che era arrivato in stazione!

Borzatta sfondò una della vetrate della stazione finendo la corsa sotto la scrivania del Capo Gestione Giovanni Tarlazzi, il quale, concentrato nel suo lavoro e preso alla sprovvista da quanto accaduto ebbe solo la forza di dire: “ciô, mo’ i bigliett is fa da dlà!”.

Gli amici poi composero una zirudella che iniziava così:

Pinto su Pinto dal motore spinto…

La stazione e il piazzale come si presentavano all’epoca dei fatti. Si notino i giovani tigli del rinnovato viale Cairoli dopo le devastazioni della guerra

Contributo originale per “La storia di Castel Bolognese”.
Per citare questo articolo:
Paolo Grandi, Pinto su Pinto dal motore spinto…, in https://www.castelbolognese.org

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Pentecoste a Castel Bolognese prima della Sagra https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vita-sociale/pentecoste-a-castel-bolognese-prima-della-sagra/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vita-sociale/pentecoste-a-castel-bolognese-prima-della-sagra/#respond Sat, 18 Apr 2020 15:44:41 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=7781 di Paolo Grandi Una doverosa premessa (18 aprile 2020) La notizia di questi giorni che il COVID-19 ha sconfitto anche la Sagra di Pentecoste ha lasciato molto turbamento negli animi dei Castellani. Infatti perdere la “festa grossa”, quella dove si riversano in piazza migliaia di persone, soprattutto da fuori, significa …

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di Paolo Grandi

Una doverosa premessa (18 aprile 2020)

La notizia di questi giorni che il COVID-19 ha sconfitto anche la Sagra di Pentecoste ha lasciato molto turbamento negli animi dei Castellani. Infatti perdere la “festa grossa”, quella dove si riversano in piazza migliaia di persone, soprattutto da fuori, significa abbattere un pezzo del nostro Castello. Ma diversamente non si sarebbe potuto fare. E perciò non si può che dire saggia e prudente la decisione presa dal Sindaco e dalla Pro Loco organizzatrice della Sagra. Se si pensa infatti al lavoro che c’è dietro l’allestimento di questa festa (e vi parlo da ex segretario della Associazione Pro Loco dal 1976 al 2000) non si può che convenire che diversamente non si sarebbe potuto fare. Pensiamo, per esempio, al confezionamento dei Cappelletti e dei Tortelloni, che sarebbe dovuto iniziare già in queste sere assiepando in un qualche locale quasi 100 persone; o all’allestimento del palco, agli addobbi delle piazze e delle strade, alla organizzazione della sfilata delle Parrocchie, alla pianificazione di tutte le iniziative collaterali ma, soprattutto, al concorso di popolo nei giorni della festa. Parliamo, certamente, di un tempo in cui, ci auguriamo, la grande paura sarà terminata e la ripresa delle attività sarà già iniziata, ma ciò non farà venir meno tutte le attenzioni che si dovranno mantenere ancora per molto tempo, tra le quali il divieto di assembramento e il mantenimento della distanza di sicurezza.
Ed in attesa che la Parrocchia annunci, in base alle decisioni prese assieme alla Diocesi, come celebrare le funzioni religiose, che rivestono carattere di particolare solennità e pure queste provocano concorso di folla sia in chiesa che durante le Processioni, a qualcuno possono sorgere varie domande: ma la Sagra è sempre esistita dal 1631 ed ha sempre avuto quelle scansioni temporali? La Sagra e/o le funzioni religiose sono mai state rinviate o soppresse? A queste domande vuole dare risposta questo mio scritto che anticipa un capitolo di un volume che sto scrivendo, con l’aiuto della Associazione Pro Loco, sulla Sagra di Pentecoste.

Il rinvio delle Feste Votive in onore della Immacolata Concezione

Ciò premesso, sfogliando le memorie storiche della Parrocchia, non si rinvengono anni nei quali le Feste Votive di Pentecoste siano state sospese. Solo nella Pentecoste del 1893 si ebbe la sospensione delle feste votive del Lunedì e del Martedì (e la conseguente sospensione di quelle civili del lunedì) a causa dell’oltraggio all’Immagine della Immacolata Concezione perpetrato nella notte tra la domenica ed il lunedì. Queste furono recuperate nel successivo mese di settembre in un triduo tra venerdì 22 e domenica 24 settembre, ma senza processioni.
La Pentecoste non si fermò durante l’epidemia di colera del 1855 ove don Gamberini annota che il primo focolaio durò da febbraio ad aprile, ma il mese di maggio e la Pentecoste si svolsero regolarmente, mentre il contagio si rifece vivo a luglio (1). Negli anni della Prima Guerra Mondiale don Garavini annota: “il 24 maggio (1915 – lunedì di Pentecoste ndr) l’Italia, dopo varie tergiversazioni e una vasta campagna tenuta dagli interventisti, mentre i neutralisti si sforzavano a tutto potere di controbatterli, dichiarò guerra agli Imperi Centrali schierandosi con la Triplice Intesa. Per prima conseguenza, le Feste tradizionali di Pentecoste si svolsero meno serenamente degli anni scorsi; e il nuovo Cappellano Don Giovanni Cardelli dopo poco più di un anno dovette assentarsi, richiamato sotto le armi. L’Immagine della Concezione fu lasciata sull’altar maggiore di San Francesco fino al venerdì seguente per un triduo propiziatorio e per la vittoria delle nostre armi.” (2) Annota tuttavia don Garavini che “dal 1916 viene requisita la vasta chiesa di San Francesco per depositarvi il grano di produzione locale, anticipando così i futuri ammassi della guerra italo-abissina. La statua dell’Immacolata viene trasportata all’altar maggiore e chiusa dentro un grande confessionale posto sul ponte a tergo a foggia di nicchia con la sua saracinesca, e quella di San’Antonio da Padova è posta sopra un tavolo a destra dell’altare vicino al muro. Dov’è situata la balaustra di marmo si alza un assito verso certa altezza e più in alto si divide così la chiesa coi teli neri del Pio Suffragio per isolare così completamente il Presbiterio e il coro dalla chiesa la quale resta in mano dell’Autorità civile. L’accesso avviene naturalmente dalla scala e dal piccolo corridoio che immette direttamente sia alla Sacrestia che al coro. Quindi le feste principali della Madonna si fanno in San Petronio, le altre si omettono completamente. Però ogni anno la Pentecoste si fa in San Francesco perché allora la chiesa è vuota. Anzi qualche anno vi si è celebrata anche la festa della Concezione.(3) Correggendosi poche righe dopo così: “Contrariamente a quanto è scritto più sopra riguardo l’ammasso del grano nella chiesa di San Francesco, questo vi si conservava dentro dalla trebbiatura fino alla novena della Concezione. Prima dell’inizio della medesima si trasportava in altri locali il grano rimasto e la chiesa restava libera fino a dopo le feste di Pentecoste. Così è avvenuto negli anni 1916 e 1917”. (4) Nel 1918 si ritiene che le Feste Votive abbiano avuto regolare svolgimento, probabilmente in forma ridotta nella pompa, in quanto non vi sono particolari annotazioni.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, sostanzialmente, fino al 25 luglio 1943, forti della rassicurante voce del Duce che gridava “vincere!” gli italiani e quindi anche i castellani non dovevano pensare a quella guerra lontana, anche se qualcuno aveva amici e familiari al fronte o nelle Forze Armate, e la vita doveva continuare a svolgersi regolarmente. Ergo le feste di Pentecoste del 1940 (che peraltro furono celebrate nei giorni 12, 13 e 14 maggio, prima di quell’infausto lunedì 10 giugno) del 1941, del 1942 e del 1943 avvennero con la solita solennità. Non così probabilmente fu la Pentecoste del 1944 svoltasi il 28, 29 e 30 maggio; nel mese di marzo c’erano stati alcuni bombardamenti, il fronte si stava avvicinando ed in luglio si sarebbero ripetute altre incursioni aeree. Tuttavia nessun cronista e/o storico riferisce alcuna notizia. Sulla Pentecoste del 1945 invece abbiamo di nuovo la cronaca di don Garavini il quale, ricordando che, a causa dei danni bellici le chiese di San Petronio e di San Francesco erano inagibili, annota che fu rimessa in uso la chiesa, pur sconsacrata, di Santa Maria dello Spedale e così scrive: “Le Rogazioni (le processioni delle Rogazioni si facevano durante l’Ascensione che, all’epoca, veniva 10 giorni prima della Pentecoste, quindi il giovedì 10 maggio e si ripetevano i successivi giorni di venerdì e sabato NDR) quest’anno non si sono fatte, ma in detta chiesa (cioè Santa Maria dello Spedale NDR) si sono celebrate le Feste di Pentecoste (20, 21 e 22 maggio NDR), addobbando un po’ la chiesa e portandovi privatamente la statua della Madonna. Il baldacchino si prendeva ogni mattina da S. Francesco ove era montato al suo solito posto sotto l’orchestra che subito dopo la guerra aveva il coperto quasi intatto. Causa il viavai continuo e quasi caotico degli automezzi alleati lungo la Via Emilia, si è creduto opportuno cambiare itinerari. La domenica si è fatto il giro solito a farsi l’ultimo giorno, passando solo per la piazza ma non per la Via Emilia, con fervorino improvvisato da P. Damiano Cappuccino nella Piazzetta Fanti detta del Suffragio; il lunedì si è fatto il giro solito (Via Garavini, Biancini, Bragaldi ecc.) con fervorino del Minore Francescano P. Alessandro Mercuriali Guardiano dell’Osservanza a Imola nella Piazza Camerini; il martedì, usciti da S. Maria, si è proceduto per il Borgo, e per i Viali Cappuccini, Marconi e Roma sostando nel Prato della Filippina all’altezza di Via Poggi detta “la fonda” per il fervorino detto dal Priore Don Francesco Bosi, poi si è andati direttamente non più a S. Maria, ma alle Suore Domenicane, dove l’Immagine provvisoriamente si conserva come si è già accennato sull’altare della Mercede. Però al ritorno è stata collocata sopra un tavolo a cornu Evangelii e la sera si è chiuso il triduo col Te Deum solito e la benedizione Eucaristica. La funzione del Battistero, sospesa per ordine della Curia Vescovile il Sabato santo per mancanza degli Olii Santi, si è fatta il sabato vigilia di Pentecoste nella Cappella delle Maestre Pie, andando al fonte di San Petronio per la benedizione dell’acqua, e dopo la Messa nella Cappella della Maestre Pie si è fatta la solita processione votiva per la preservazione della peste del 1630-31 nell’attiguo cortile.” (5)
Dal 1946 le Feste Votive riprendono il consueto vigore, la loro solita solennità ma non sono più celebrate in San Francesco, causa i danni ricevuti da quella chiesa, ma in San Petronio seppure, almeno per quell’anno con le dovute cautele in quanto anche il presbiterio di San Petronio era in fase di restauro. Nel 1949 proprio per Pentecoste ritornarono a suonare le campane di San Petronio; nel 1954 fu adoperato per la prima volta il carro processionale per il trasporto dell’Immagine, che si utilizza tuttora. In precedenza la pesante statua era sorretta sulle spalle di otto portatori! In San Petronio si tennero le Feste Votive fino alla Pentecoste del 1964. Il 3 giugno 1965 fu infatti solennemente riaperta dopo i restauri la chiesa di San Francesco e “nella sera del 4 giugno 1965, la venerata Immagine della Madonna Immacolata fu restituita al tempio di San Francesco. Un corteo interminabile di fedeli con fiaccole in mano, convenuti anche dalle parrocchie vicine, precedeva la Sacra Immagine al canto di inni sacri alternati al suono della banda. Luci multicolori brillavano alle finestre delle case nella oscurità della notte incominciata. Un caloroso applauso salutò la Vergine nel suo solenne ingresso in San Francesco, dove fu innalzata sull’altare maggiore in uno splendore di luci e di addobbi. Nei giorni 5, 6, 7 giugno seguirono le tradizionali festività di Pentecoste. Al pomeriggio della domenica ebbe luogo in San Francesco la funzione solenne e commovente per gli ammalati; la Santa Messa vespertina fu officiata dal…” E non sapremo mai chi officiò quel rito perché qui termina la cronaca parrocchiale. Don Garavini morì poco dopo.
Il rischio della sospensione delle feste si paventò nell’anno in cui l’Immagine della Vergine precipitò dalla macchina che l’innalza sull’altare di San Francesco; accadde il 24 maggio 1980, il sabato mattina che precede la Pentecoste; mentre Tino e Cavurì stavano facendo scendere l’Immagine per provvederne il cambio del vestito questa, per un moto inconsulto della macchina, precipitò frantumandosi. Tino e Cavurì rimasero illesi e la chiesa fu subito chiusa. Ad una prima ricognizione si vide, con sollievo, che almeno le teste della Vergine e del Bambino non avevano subito danni. Subito fu chiamato il dott. Corbara e si lì presero alcune decisioni per salvare, almeno, le imminenti feste. Fu chiamato Pavièt, il falegname che aveva bottega in piazza Borghi, noto anticlericale, che, commosso per l’accaduto, piangendo, riuscì a fabbricare un’intelaiatura di legno per conservarvi all’interno i frammenti di terracotta che nel frattempo il dott. Corbara assieme ad altri avevano raccolto e innalzarvi le teste, coprendo poi il tutto con i soliti vestiti. Così rassettata, l’Immagine, con mille precauzioni, fu rimessa in alto alla vista del popolo: le celebrazioni erano salve. Non così fu per le Processioni, che si fecero comunque ma portando in Processione l’immagine della Madonna della Cintura, che si conserva in San Petronio.

E la festa di piazza?

La festa della Pentecoste, a Castel Bolognese, è noto derivarsi dal voto fatto dai castellani nel 1630 quale ringraziamento rivolto all’Immacolata Concezione venerata nella chiesa di San Francesco, per l’avvenuta preservazione dalla peste.
È pure noto che, come riferisce l’Emiliani nel suo “Sunto Storico di Castel Bolognese” (7)…Orbene, nell’anno 1630 infieriva nelle Romagne la peste, dalla quale peste – così testimoniano alcuni documenti – rimase completamente salvo Castel Bolognese, quantunque tutti i vicini Paesi ne fossero acerbamente colpiti. Si volle pertanto del Popolo castellano ritenere che tale preservazione fosse una speciale grazia della Madonna della Concezione – e questa opinione è tuttora viva nel popolo castellano – alla quale Madonna furono rivolte in quei giorni pubbliche preghiere. Onde perché fosse tramandata ai posteri la memoria di tale grazia speciale, fu fatta incidere una lapide, che venne poi murata in un fianco della Cappella dedicata in San Francesco alla Concezione ove vedesi tuttora, e venne fatto dipingere un quadro allusivo. Non contenti poi i Castellani di quell’epoca, delle memorie suddette, vollero aggiungervi un voto popolare, che infatti fu palesemente pronunziato nel giorno 15 giugno di quello stesso anno 1630. Consistette tale voto popolare nello stabilire, che solennemente fosse festeggiata quella statua della Concezione in ogni anno e nei tre giorni della Pentecoste. E da quell’anno e in quei tre giorni, tutto il popolo castellano, anche campagnolo proveniente nella Piazza con carri agricoli e carrioli, festeggia con lodi, canti, danze e libagioni la Festa della Pentecoste…
Che la Pentecoste fosse occasione di fiera, specialmente di bovini e bestiame nel giorno del lunedì, vi sono documenti che risalgono fin dal XVII secolo, memorie e testimonianze che ne parlano: per esempio, quella rilasciata da Teresa Muccinelli ad Ubaldo Galli in occasione dei suoi 100 anni nel 1984 quando parlò di ciò che avvenne il lunedì di Pentecoste del 1893 quando fu scoperto l’oltraggio perpetrato alla miracolosa Statua. Una bella memoria è quella rilasciata da Giovanni Bagnaresi, Bacòc, scritta nel 1919. Da più tempo, sempre nella giornata del lunedì, si teneva l’estrazione della tombola di cui si ha notizia almeno dai primi anni del XX secolo ed in particolare da Sante Biancini (Tino d’Olga) che giocava ogni anno la cartella con la quale il suo babbo vinse la tombola del 1904, anno di nascita del famoso personaggio castellano. Anche la banda cittadina partecipava alla festa proponendo un concerto in piazza.
Non bisogna poi dimenticare che il Piazzale Roma si riempiva, allora come oggi, di giostre e baracconi. Tiri a segno con giovani bellezze femminili per attirare contadini e cittadini, giostrine coi cavallucci per la gioia dei bambini ma, soprattutto, due attrazioni particolari di cui ci fanno menzione Rino Villa e Giovanni Camerini: l’autoscontro di “Carlô” che rallegrava i giovani e la giostra “De Barbô”. Questa era un’antesignana dei seggiolini volanti, insomma il “calcinculo” ma funzionava manualmente. I due (allora) ragazzini, si offrivano di aiutare “e Barbô” per girare la manovella e così far roteare i seggiolini. La paga era un giro gratis ma con l’avvertenza: “c’an tuliva e pallô”. Il Barbone infatti metteva in premio un giro senza spesa a chi, roteando, si fosse sporto per prendere un pallone legato ad uno spago e, naturalmente, questo non poteva valere per chi già viaggiava a sbafo….!
Ma Pentecoste era l’occasione di appuntamenti sportivi anche di grande spessore. Tutti ricordano la partita di calcio scapoli contro ammogliati che era tradizione giocarsi per Pentecoste e che nei gloriosi anni del Bar Giardino lì veniva ideata ed organizzata. Ma a far grande la festa contribuì per ben due volte anche Edmondo Fabbri che portò a Castel Bolognese per Pentecoste la squadra di serie A dell’Atalanta in cui lui giocava. Il 2 giugno 1941, lunedì di Pentecoste, l’Atalanta disputò un amichevole con il Castel Bolognese, vincendo 5-1. Otto anni più tardi, il 6 giugno 1949, sempre di lunedì, l’Atalanta di Fabbri sfidò una rappresentativa romagnola sconfiggendola 5-4. In entrambe le occasioni l’arbitro fu l’illustre Giovanni Galeati, nativo di Castel Bolognese, che l’anno successivo si rivelò il miglior arbitro nientemeno che alla Coppa del Mondo tenuta in Brasile (8).
Non si trovano notizie di sospensione della festa cittadina, che era una vera risorsa per tutti i commercianti, se non per il lunedì di Pentecoste del 1893. Quando si sparse la notizia dell’oltraggio, la fiera del bestiame, che era già iniziata, fu sospesa e gli animali, i bifolchi, i proprietari, gli avventori ed i mediatori fecero ritorno a casa, mentre in città nessuno ebbe più voglia di festeggiare ed il danno per i commercianti fu enorme.

La Pentecoste in tempo di guerra

Neppure durante le varie guerre che si succedettero nei secoli v’è memoria di sospensione o rinvio delle feste di Pentecoste e, sicuramente, all’epoca se non si interrompevano le feste religiose, neppure quelle di popolo si sospendevano. Non abbiamo notizie dettagliate delle feste di Pentecoste degli anni 1916, 1917 e 1918. Nel 1917, come si può leggere da Il Diario del 27 maggio, la tradizionale fiera fu certamente tenuta. Probabilmente furono state fatte con un tono minore, dal momento che tutte le famiglie contavano almeno un figlio o un altro componente in guerra, la crisi economica attanagliava la Nazione, specie dopo Caporetto con il calmiere dei prezzi ed il contingentamento dei beni, anche alimentari.
E durante la Seconda Guerra Mondiale? Per questo periodo ho chiesto a Rino Villa e a Giovanni Camerini di rovistare nei loro ricordi, ma entrambi riferiscono che neppure le giostre, in quei due anni, furono presenti. Occorre poi rammentare, almeno per il 1944, che dopo l’usurpazione della Repubblica Sociale, molti uomini si diedero alla macchia e che, comunque, vigevano il coprifuoco e l’oscuramento oltre al pericolo, concreto, di un improvviso bombardamento dal momento che il fronte si stava avvicinando a che il nodo ferroviario di Castel Bolognese era già stato oggetto di tiro dei bombardieri. Quindi, tutto sommato, non v’era una gran voglia di festa.
Nel 1945 la Pentecoste venne a poco più di un mese dalla liberazione di Castel Bolognese. Pensare che il 20 ed il 21 maggio tra macerie, rovine, lutti, si potesse festeggiare è un po’ azzardato. Non escludo tuttavia che un po’ di festa si sia comunque fatta perché anche di questo si nutriva la speranza di una ricostruzione. Comunque, la risposta a questa domanda necessita di una ricerca nell’archivio comunale che, al momento, è inaccessibile; pertanto la rimando a tempi migliori, senza virus.

Il dopoguerra

Dal dopoguerra, la festa pubblica conobbe un momento di crisi. Si continuavano con la tradizionale dovuta solennità le feste religiose, ma poco o nulla animava la piazza e il solo prato della Filippina si riempiva fin dalle prime ore del lunedì per la mostra mercato del bestiame e delle novità della tecnica nella macchine agricole. Anche i bovini, però, stavano diminuendo e dagli anni ’50 la mostra del lunedì di Pentecoste era in netta e crescente perdita ed il Comune era chiamato ad appianarla. Per esempio, la fiera del 1958, ebbe introiti per 20.800 lire e spese per £. 46.609 con una perdita di £. 25.809, ed una presenza di 172 capi (erano stati 314 nel 1954). In quell’anno, forse per dare più lustro alla fiera, alcuni privati tra cui il “Credito Romagnolo” ed il Comune istituirono sei premi da £. 10.000 ognuno, “da assegnarsi alle migliori coppie di vacche a bocca fatta, vacche fino a 4 denti e manzi con tutti i denti di latte, riconosciute meritevoli di premio da una apposita commissione da presiedersi da un rappresentante dell’Ispettorato dell’Agricoltura di Ravenna.” (9) Due anni dopo, nel 1960, parteciparono alla fiera solo 38 capi bovini e 6 suini (10).
Animavano la festa le “giostre”, l’estrazione della tombola e, nel Cinema Centrale, alcune serate danzanti. Anche i “forestieri” che gremivano Castel Bolognese nei tempi andati, erano pressoché scomparsi e se ne contavano certuni soprattutto durante i riti religiosi e la tombola.
Un comitato cittadino, che risultava composto da quattro persone nel 1962 e nel 1963 (11), si occupava di animare il pomeriggio e la sera del lunedì di Pentecoste organizzando uno spettacolo nel chiostro comunale e qualche altro intrattenimento come i fuochi artificiali, oltre all’estrazione della tombola, il cui ricavato era in favore dell’E.C.A., Ente Comunale di Assistenza; gli spettacoli tuttavia erano a pagamento. Con uno steccato, ricorda Gian Pietro Brunetti, si divideva in due il cortile comunale; nella parte in fondo, col palcoscenico appoggiato a quelle che erano state le porte del teatro, c’erano gli spettacoli (12), mentre nella parte verso la piazza si cominciò ad allestire un timido stand gastronomico. La meteorologia la faceva da padrone e la pioggia non favoriva di certo il buon esito dell’unico giorno di festa. Per questo, sebbene il Comitato si incaricasse di raccogliere fondi per la festa, la Giunta comunale partecipò sempre con un contributo in denaro che andava a coprire i disavanzi ed era fissato tra gli anni 1957 e 1964 in £. 100.000 come tetto massimo.
Nel 1962 e nel 1963 per ravvivare la giornata del lunedì di Pentecoste il Comitato cittadino organizzò la “Sagra dell’albana e del ciambello” ma non tutto andò per il verso giusto a causa della pioggia ed il forte disavanzo fu coperto dal Comune destando polemiche che si trascinarono fino al Consiglio Comunale ove il consigliere Aureliano Borzatta (in carica PCI – opposizione) nella seduta del 5 agosto 1963 volle spiegazioni sulla consistente somma occorsa per appianare i debiti delle feste del 1962 e 1963, destando sospetti sulla organizzazione della festa. Ne seguì un acceso dibattito ove intervennero il Sindaco Reginaldo Dalpane ed il Consigliere prof. Emilio Gondoni (assessore e componente del Comitato Cittadino) difendendo l’operato di quei cittadini che si erano messi a disposizione, con proprio rischio economico, per organizzare la Pentecoste. Lo stesso Gondoni, attaccato sul periodico del PCI “La Torre” scrisse una lettera al Sindaco in difesa dell’operato del Comitato, sospettato dal periodico di “favoritismi” da parte dell’Amministrazione. In quella seduta intervenne anche il Consigliere Mario Santandrea (in quota maggioranza) per dare alcuni consigli sul da farsi in futuro.
Probabilmente da questa polemica nacque la consapevolezza che l’Amministrazione Comunale si sarebbe dovuta occupare più da vicino dell’organizzazione della festa. Fu così che, come racconta Tomaso Biffi, allora Assessore, dal 1964 il Comune promosse direttamente la nascita del “Comitato Festeggiamenti di Pentecoste”, ove il Sindaco ne era anche Presidente, ove partecipavano tutti i rappresentanti della vita cittadina, delle realtà sociali, associative, politiche e dei commercianti. Biffi, che ne faceva parte quale Assessore delegato, ricorda alcuni suoi componenti: Giorgio Marezzi per il P.C.I., Paolo Selva per il P.S.I., Stefano (Nino) Camerini per i Commercianti, l’Arciprete don Giuseppe Sermasi e, in qualità di storici locali, Fausto Ferlini, Ubaldo Galli, Domenico Minardi e Oddo Diversi (quest’ultimo anche in rappresentanza del Corpo dei Vigili Urbani di cui era comandante).
Non si trascurò anche l’allestimento di uno stand gastronomico; a tal proposito Tomaso Biffi ricorda che alcuni componenti del Comitato passarono per i ristoranti e le trattorie di Castello perché venissero in Piazza ad offrire i loro piatti, ma con pochi risultati. Solo Elvino Turci, dell’omonimo ristorante, organizzò un piccolo chiosco ove offriva carne in graticola, affettati e piadina. Non mancava Anna Negrini “La Murina” con i bracciatelli della croce. Costoro, tuttavia, trattenevano per sé il ricavato.
Si organizzò così la Pentecoste del 1964 e quella del 1965, sempre comunque con l’assicurazione del Comune di intervenire nelle eventuali perdite nel limite delle somme previste nella relativa delibera di Giunta. Non si hanno notizie, per quella del 1964, ma la Pentecoste dell’anno seguente fu organizzata su due giornate: domenica e lunedì ed il bilancio chiuse in attivo.
Ma qualcosa stava maturando. Ed il nuovo Sindaco, Nicodemo Montanari spinse per avere non più un Comitato da formarsi anno per anno, ma un Ente, possibilmente di emanazione comunale che si occupasse stabilmente dell’organizzazione della festa, anche arricchendola di novità. Nasceva così l’idea di costituire la Pro Loco.

E poi?

Il 9 dicembre 1965 nacque la Pro Loco e dal 1966 ebbe inizio la “Sagra di Pentecoste”. Per il seguito dovrete attendere che io termini la scrittura della pubblicazione, che è buon punto, ma ferma, anch’essa, causa virus. Speriamo che l’anno prossimo possa vedere la luce!

NOTE

(1) Stato della parrocchia e sue vicende dell’arciprete Tommaso Gamberini, ms, in: Archivio Parrocchiale di San Petronio di Castel Bolognese, cartone 3, busta 5, fasc. 3, c. 22v.
(2) Stato della parrocchia e sue vicende dell’arciprete Tommaso Gamberini, ms, in: Archivio Parrocchiale di San Petronio di Castel Bolognese, cartone 3, busta 5, fasc. 3, c. 53r.
(3) Stato della parrocchia e sue vicende dell’arciprete Tommaso Gamberini, ms, in: Archivio Parrocchiale di San Petronio di Castel Bolognese, cartone 3, busta 5, fasc. 3, c. 54r.
(4) Stato della parrocchia e sue vicende dell’arciprete Tommaso Gamberini, ms, in: Archivio Parrocchiale di San Petronio di Castel Bolognese, cartone 3, busta 5, fasc. 3, c. 54v.
(5) Stato della parrocchia e sue vicende dell’arciprete Tommaso Gamberini, ms, in: Archivio Parrocchiale di San Petronio di Castel Bolognese, cartone 3, busta 5, fasc. 4, c. 96r.
(6) Stato della parrocchia e sue vicende dell’arciprete Tommaso Gamberini, ms, in: Archivio Parrocchiale di San Petronio di Castel Bolognese, cartone 3, busta 5, fasc. 4, c. 116r.
(7) EMILIANI G.: Sunto storico di Castel Bolognese, Libro I – Capitolo 33, manoscritto, Biblioteca Comunale di Castel Bolognese
(8) BAMBI, E.: Calcio castellano, Castel Bolognese, 1974
(9) Archivio Comunale di Castel Bolognese – Delibere della Giunta Comunale dal 1956 al 1964 – anno 1958
(10) Archivio Comunale di Castel Bolognese
(11) Archivio Comunale di Castel Bolognese – Delibere del Consiglio Comunale dal 30/06/1956 al 29/09/1964 – Delibera del 5 agosto 1963
(12) Nel 1957 e nel 1958 tenne spettacolo la Banda di Bagnacavallo. Cfr: Archivio Comunale di Castel Bolognese – Delibere della Giunta Comunale dal 1956 al 1964 – anni 1957 e 1958

Si ringrazia Lorenzo Raccagna per la ricerca nell’archivio de Il Diario/Nuovo Diario Messaggero

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Ricordo di “Ubba”, Ubaldo Bagnaresi https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vita-sociale/ricordo-di-ubba-ubaldo-bagnaresi/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vita-sociale/ricordo-di-ubba-ubaldo-bagnaresi/#comments Sat, 14 Mar 2020 00:38:04 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=7611 di Andrea Soglia 14 marzo 2020. Sono trascorsi tre anni da quel 14 marzo 2017, quando in un baleno si sparse in paese una notizia che ci lasciò tutti increduli: nella notte era scomparso Ubaldo Bagnaresi a causa di un improvviso malore. Sembrava impossibile, dato che fino al giorno prima …

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di Andrea Soglia

14 marzo 2020. Sono trascorsi tre anni da quel 14 marzo 2017, quando in un baleno si sparse in paese una notizia che ci lasciò tutti increduli: nella notte era scomparso Ubaldo Bagnaresi a causa di un improvviso malore. Sembrava impossibile, dato che fino al giorno prima aveva sprizzato energia, salute e allegria da tutti i pori e si stava preparando alla imminente Sagra di Pentecoste, nella cui organizzazione ricopriva un ruolo molto importante: il “direttore” della cucina. Alle capacità organizzative e alle conoscenze culinarie che “Ubba” possedeva, si aggiungeva anche un’altra sua caratteristica, il savoir-faire, fondamentale per mandare avanti un enorme gruppo di volontari ed appianare con un sorriso le inevitabili divergenze che possono sorgere.
Scrivo oggi queste righe a cui penso sin da allora, perchè oggi come allora ritengo più genuini i ricordi a lunga distanza che quelli generati da un’onda emotiva che poi si placa in fretta e porta a dimenticare altrettanto velocemente.
Fra l’altro ho annotata anche la data precisa in cui l’ho visto l’ultima volta: era il 26 gennaio precedente, ed era successo a casa sua. Con lui c’erano altri amici e avevamo parlato della storia di Castel Bolognese e avevamo navigato sul sito usando il suo grande schermo. Ubaldo si era divertito moltissimo, d’altronde era castellano di “vecchia zocca” e suo nonno era una figura notissima nel vecchio Castello ed era soprannominato “E Negus”. Ci eravamo ripromessi di organizzare presto un’altra serata del genere, ma chi poteva immaginare che ci fosse così poco tempo a disposizione?
Quella sera Ubaldo ci distribuì un volantino che pubblicizzava, per il 30 gennaio successivo, la proiezione al Centro sociale di due suoi audiovisivi (altra sua grande passione), reportages di due dei suoi tanti viaggi, in bicicletta e non, in giro per il mondo. Conservo quel volantino quasi come una reliquia perchè sul retro Ubaldo aveva scritto una specie di autobiografia dove in poche righe raccontava con un tono quasi goliardico la sua vita. A posteriori questa particolare coincidenza mi ha fatto molto riflettere, come se Ubaldo quasi presagisse qualcosa. Ma quella sera, ad una prima lettura del volantino assieme a lui, c’eravamo fatti tante risate. Trascrivo il testo:

“Ubaldo nasce a Castel Bolognese nel 1954.
Dopo i pianti dei primi 6 o 7 mesi emerge subito il suo spirito di adattamento passando con estrema disinvoltura da un collegio ad un altro durante la sua infanzia; mentre nel periodo estivo viene scarrozzato in giro per l’Europa da un padre camionista, convinto di farlo “per il suo bene”!
Inutile dire che anche Ubaldo cominci a condividere questo pensiero.
Corre l’anno 1968. L’aspetto e l’indole dello scavezzacollo, alla fine delle scuole dell’obbligo, lo faranno poi propendere per il lavoro.
Inizia così una vita economica semi-indipendente ed iniziano anche i suoi viaggi in territorio italiano a cavallo del suo Benelli 125 cc. Nel maggio del 1974 il suo spirito prende una svolta, viene circuito dalla più bella ragazza di Faenza e da lì all’altare il passo è brevissimo e dopo 9 mesi nasce Alessio.
A 21 anni Ubaldo sente che la fabbrica gli va stretta e intraprende la carriera del padre, ricominciando a girare l’Europa con un camion, unico modo di vedere il mondo e guadagnare qualche soldino.
Nel 1988 si calma e “pianta la tenda” … e per 20 anni gestisce assieme a quella ragazza di Faenza una attività commerciale a Castel Bolognese.
Quale sia stata la cosa più pazza della sua vita… ancora se lo sta chiedendo.

Dove ha viaggiato?
In varie nazioni di tutto il mondo, Sud America, Stati Uniti, Islanda, Australia, Asia, Medio Oriente, Europa, Africa, Circolo polare Artico, ma il viaggio che è rimasto più impresso nella sua mente è stato nel 1984 in occasione del suo decimo anno di nozze… il Marocco in autostop!!
Tutt’ora sta seriamente pensando alla Patagonia in completa autonomia con la bici.
Dice di lui Richard Gere: “avrei voluto tanto essere come lui, ma mi devo accontentare!”

Di nostro aggiungiamo che il negozio di gastronomia di Ubaldo (rilevato da Gigì de lat e poi trasferito pochi metri più in là e notevolmente ingrandito) aveva il nome di “Antichi sapori”, era intestato in realtà alla moglie, e lo ricordiamo luminoso, spazioso ed accogliente. E naturalmente pieno di ogni ben di dio la cui preparazione impegnava moltissimo Ubaldo e Donatella sua moglie, ma anche Maria sua mamma, pure di sera in orari di chiusura al pubblico. Ricordo a questo proposito un aneddoto relativo ad una delle tante lotterie che in occasione delle festività Ubaldo organizzava in negozio mettendo in palio delle prelibatezze, lotterie che erano poi legate all’estrazione del lotto. Era di sabato sera, e la mia mamma si aggiudicò un salame lunghissimo legato ad un asse di legno. Non facemmo quasi in tempo ad accorgecene ché Ubaldo venne a suonare il nostro campanello: era in bicicletta ed aveva il salame sotto braccio e ce l’aveva portato addirittura a domicilio prima di rincasare!
Un negozio rimasto nella memoria di tutti e sfiorito ben presto dopo che Ubaldo e Donatella l’avevano venduto al nuovo gestore. Ubaldo passò quindi al bancone di gastronomia all’interno del Supermercato La Famiglia, prima della meritata pensione. Che purtroppo ha potuto godersi per breve tempo, riempiendola comunque di viaggi e di chilometri, a piedi e in bicicletta, e prestando la sua attività di volontariato in tante associazioni fra cui la Pro Loco, come già detto, l’Associazione Gemellaggi e l’AVIS, dove non solo era collaboratore ma anche donatore di sangue.
Ubaldo ha lasciato la moglie Donatella, il figlio Alessio (che gli ha regalato la gioia di diventare nonno), le sorelle Graziana e Patrizia, e la mamma Maria.
E chiudiamo questo ricordo di Ubaldo con un pensiero anche per Maria Montanari, la sua mamma, che nel febbraio di quest’anno, alla soglia dei 97 anni, ha raggiunto il suo Ubaldo. Gli aveva posto questo nome per ricordare il fratello Ubaldo Montanari, morto nel 1945 a seguito dello scoppio di una mina. Maria ha mantenuto il suo proverbiale sorriso, che Ubaldo aveva ereditato, anche negli ultimi tempi. Poco più di un anno fa mi aveva raccontato del suo rapporto quasi telepatico col figlio: le bastava pensare che le serviva la spesa o qualcos’altro, e Ubaldo, quasi magicamente, non molto tempo dopo, si materializzava a casa della mamma con quello che le serviva.

N.B. Le immagini, ove non diversamente specificato, provengono da Flickr e Facebook, pubblicate da Ubaldo stesso o ci sono state fornite da Patrizia Bagnaresi. Le fotografie del negozio sono state fornite da Donatella Cerino.

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