Storia Archives - La Storia di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/category/miscellanea/storia/ Wed, 24 Jul 2024 15:40:48 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.6.2 Il grande caldo del luglio 1905 e la strage dei mietitori. Anche a Castel Bolognese si registrarono alcune vittime per insolazione https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/il-grande-caldo-del-luglio-1905-e-la-strage-dei-mietitori-anche-a-castel-bolognese-si-registrarono-alcune-vittime-per-insolazione/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/il-grande-caldo-del-luglio-1905-e-la-strage-dei-mietitori-anche-a-castel-bolognese-si-registrarono-alcune-vittime-per-insolazione/#respond Tue, 23 Jul 2024 20:29:52 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11802 di Andrea Soglia Il 4 luglio 1905 si registrò un record di temperatura a Roma, a tutt’oggi, a quanto pare, imbattuto: quel giorno furono registrati 40,1° C. La Romagna non fu da meno. A Cesena il picco si registrò il giorno 3 luglio, con 36,5 gradi, vari gradi in più …

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di Andrea Soglia

Il 4 luglio 1905 si registrò un record di temperatura a Roma, a tutt’oggi, a quanto pare, imbattuto: quel giorno furono registrati 40,1° C. La Romagna non fu da meno. A Cesena il picco si registrò il giorno 3 luglio, con 36,5 gradi, vari gradi in più rispetto alla media dei 5 anni precedenti. Il Savio, periodico cesenate, così descriveva il fenomeno nel numero dell’8 luglio: “Il caldo eccezionale provato da noi nei primi giorni di luglio è dovuto, oltre alle massime temperature, alla gran quantità di umidità dell’aria, resa anche palese dalle fitte nebbie mattutine, e alle alte temperature notturne”.
L’ondata di caldo riguardò quasi tutta l’Italia ed ebbe un tragico effetto: una strage di mietitori, morti per insolazione. In tutta Italia si calcola che ci furono, nella classe degli agricoltori maschi di oltre 15 anni, 665 morti per insolazione sul luogo dove lavoravano o anche lungo il tragitto che avevano percorso per recarvisi.
Anche il comprensorio faentino registrò la morte di moltissimi mietitori. Il “Socialista” del 13 luglio elenca ben 13 lavoratori morti per insolazione a Faenza, fra cui una ragazza di 21 anni, Nilda Gallegati, e diversi mietitori che erano scesi dalle colline romagnole e bolognesi (dove il grano maturava più tardi) per mietere il grano della pianura. Anche a Castel Bolognese si registrarono diversi decessi. Sfogliando il registro dei defunti del 1905, nella prima quindicina di luglio si possono notare 6 casi sospetti, che fanno pensare ad un collegamento con i casi di insolazione:

3 luglio 1905 Selvatici Paola di Domenico anni 22, colona, morta in via Borello
3 luglio 1905 Cortecchia Giovanni fu Luigi anni 53, bracciante, morto in via Canale (proveniente da Casola Valsenio)
4 luglio 1905 Santandrea Antonio fu Andrea anni 52, operaio, morto in via Bertuzzo
9 luglio 1905 Cani Paolo di Pietro, anni 47, colono, morto in via Fantina
10 luglio 1905 Andalò Pietro fu Francesco anni 31, colono, morto in via Rinfosco
15 luglio 1905 Morini Antonio di Giovanni anni 27, colono, morto in via Serra

Di certo a tutto il 7 luglio i casi di morte per insolazione erano almeno due, come è possibile leggere su Avanti! del 10 luglio, che pubblicava una corrispondenza da Castel Bolognese:

IL FLAGELLO DELLA CANICOLA
Castel Bolognese, 7 (B) — Anche qui la canicola ha fatto le sue vittime. Dei molti mietitori colpiti d’insolazione due sono morti. Il Sindaco dietro parere della locale autorità sanitaria ha pubblicato un manifesto raccomandando agli interessati la sospensione del lavoro nelle ore più calde, dalle 11 alla 17. La Sezione socialista ha diramato tra i mietitori un vivo appello perchè essi vogliano una buona volta imporre più umane condizioni di lavoro a chi esosamente sfrutta la loro incoscienza e i loro bisogni.

I bisogni e le condizioni di vita dei mietitori, lavoratori stagionali, sono ben descritti in un articolo de Il Socialista del 29 giugno 1905 che vi proponiamo anche se non siamo riusciti a trascrivere alcune parole. C’è da immaginare che anche a Castel Bolognese, nella nostra piazza, si vedessero scene simili, di mietitori che si vendevano ai contadini reggitori e dormivano sotto al loggiato dell’allora municipio o di palazzo Mengoni.

I mietitori

Il grano nei campi va maturandosi. E molti lavoratori in maggior numero braccianti, scendono dai nostri monti, da quelli del bolognese alla nostra città per la mietitura.
Se ne scendono a squadre, a gruppi, sono giovani imberbi, adulti, vecchi male in gamba, ma scendono, vestiti di fustagno coi cappelli di paglia e grosse scarpe che risuonano […] sul marciapiedi.
Vanno e vengono per la piazza col [loro] andare lasso ed incerto, timorosi alzano gli occhi, ingenui ancora, sui passanti che li osservano; la falce lunata, coperta di un […] treccia di paglia o di una striscia di [panno] perchè non si addenti, sotto all’ascella sinistra in modo che non si vede che il manico di legno, e la lama aderisce trasversalmente all’addome, che fa pena.
Visi neri dal sole e dalla pioggia […] spinti dalla bufera della disoccupazione scendono alle città, dormano un po’ dappertutto sui cascinali, nelle vie della città; […] nella scalinata del duomo ricoprendola tanto che pare un favo d’api, sotto il loggiato allineati, che danno l’imagine di corpi [pescati] o gettati alla deriva dalla marea dopo la tempesta, si che i nottambuli devono scansarli per non pestarli.
Il lungo giorno l’impiegano curvi a segare il grano: la notte è breve per essi più delle corti notti della stagione, e non serve al riposo e ristoro delle stanche membre riarse dal sol leone: alcune ore prima dell’albeggiare si trovano di nuovo in piedi sul mercato a cercare lavoro, o come essi dicono a vendersi. È una triste parola che attraversa un […] triste pensiero. Forse un ricordo che [rimanda] nei tempi dell’antica schiavitù della gleba. Alcuni capannelli di mietatori si formano in principio sulla piazza e poi altri, così poco a poco al primo tenue rosseggiare dell’alba, spenta la luce elettrica, disegnano una [marea] indistinta nera, confusa dove si vede al chiarore rossastro di qualche caffè aperto sfocarsi qualcuno, entrare, altri uscirne dal […] altri piccoli chiarori, un moccolo che da […] al battitore delle falci, e un gridio [come un] clamore lontano, un ronzio d’api, rotto di quando in quando dalla voce fessa o [rauca] dei venditori ambulanti.
E’ uno spettacolo, un altro mondo che si presenta ai nostri occhi.
Il reggitore contadino con una grande [sca]tola sotto il braccio è tra loro che contratta meglio compera e ad ognuno di questi, fanno ressa i mietitori, uno solo fa il contratto per molti, è la guida, quello che li à condotti giù dai loro monti, che da spiegazioni e indicazioni, e quasi mai, o si stenta a conoscere il prezzo della giornata, perchè viene profferito all’orecchio; non si deve conoscere per [non?]avere alti salari e così la concorrenza fa il resto per tenerli bassi.
Però questi salari generalmente non sono bassi, ma per una giornata di lavoro faticoso senza orario non è molto.
Ancora prima dell’alba i gruppi di mietitori seguono il reggitore, e s’incamminano assieme pei campi, solo a tarda sera ritornano in città per rivendersi il giorno dopo, e così di seguito, di luogo in luogo, finché ritornano ai loro monti a mietere ancora il grano che matura in ritardo.
Lo sgombero della piazza ai primi chiarori dell’alba o poco dopo è così compiuto, qualcuno dei mietitori, attarda a partire che il lavoro cittadino riprende.
Per un momento la piazza sembra più spaziosa.
Questo lavoro estenuante à però ricordi di [fastosità] delle antiche feste pagane per il raccolto delle messi. Ma quest’anno il contadino è rattristato, il vento e la grandine in alcuni posti gli à dimezzato il raccolto, e le spese di mano d’opera crescono, e il padrone purtroppo non concorre in questa spesa.
I mietitori quest’anno si sono riuniti, ànno cambiato idee in proposito, e quelli del Bolognese ànno portato tra loro la santa [parola] dell’organizzazione, e gettata l’intesa, per combattere la concorrenza, e per non vendersi prima delle quattro del mattino, per potere riposare almeno la notte.
Ascolta fratello di lavoro, tu che soffri gli stessi dolori gli stessi triboli, la buona novella consolatrice del compagno bolognese, essa parla di fratellanza e solidarietà, non trova nel contadino che un compagno di fatiche e gli ricorda che se non scorge loglio nel grano, i suoi campi ne sono invasi lo stesso: perché simile al loglio è il padrone.

Dopo i tanti casi di insolazione e morte dei mietitori, tardivamente, come ci racconta Il Socialista del 6 luglio 1905 “il Prefetto della Provincia emanava una circolare telegrafica ai Sindaci invitandoli a fare uffici presso i proprietari terrieri, allo scopo di far sospendere i lavori agricoli nelle ore calde, dalle 10 alle 15. Dopo tante disgrazie una raccomandazione non è gran cosa?”
Nel frattempo molti dei mietitori forestieri se ne erano già andati. Ben presto a Faenza (e immaginiamo anche a Castel Bolognese) fu lanciata una sottoscrizione popolare per aiutare le famiglie dei colpiti da insolazione. Successivamente arrivarono anche sussidi dal Ministero dell’Interno.
Tutti questi caduti sul lavoro sono completamente dimenticati. Nonostante il progresso, che ha portato alla meccanizzazione della mietitura del grano e alla scomparsa della figura dei mietitori e delle loro miserie, nelle campagne di certe zone d’Italia ancora oggi, 120 anni dopo questi tristi fatti, si ripetono scene di sfruttamento e morte che vedono vittime inermi lavoratori agricoli, soprattutto stranieri. La storia, purtroppo, sembra non aver insegnato nulla.

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I Camerini di Belricetto e di Lugo https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/i-camerini-di-belricetto-e-di-lugo/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/i-camerini-di-belricetto-e-di-lugo/#respond Sun, 07 May 2023 14:39:22 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=10671 di Paolo Grandi Nel testamento del Duca Silvestro è presente la disposizione che riguarda le beneficenze castellane con questa frase: “Dei romani scudi tremila 3.000, che dai fratelli Camerini Pasquale e Domenico di Belricetto sono in diritto di esigere annualmente a titolo di livello perpetuo, ordino e voglio che scudi …

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di Paolo Grandi

Nel testamento del Duca Silvestro è presente la disposizione che riguarda le beneficenze castellane con questa frase: “Dei romani scudi tremila 3.000, che dai fratelli Camerini Pasquale e Domenico di Belricetto sono in diritto di esigere annualmente a titolo di livello perpetuo, ordino e voglio che scudi 1.000 mille siano passati annualmente in perpetuo all’Istituto pei Cronici ed Artieri da me fondato nella mia patria di Castel Bolognese come già vivente aveva commesso ai miei debitori utilisti di fare: dei rimanenti romani scudi 2.000 duemille, voglio che siano pagati annualmente in perpetuo all’Istituto medesimo altri scudi 1.000 mille romani; alla chiesa di Belricetto romani Sc. 150 centocinquanta annui, di cui metà per la messa festiva e metà per l’olio della Lampada del SS.mo e per gli arredi sacri; al figlio del defunto mio Agente Lorenzo Dei Giovanni di Castel Bolognese e successori suoi romani scudi trecento 300 annui in perpetuo; ed i residui scudi romani 550 cinquecentocinquanta ai veri poveri di Castel Bolognese suddetto scelti a giudizio dell’Autorità Ecclesiastica e Civile di detto mio paese nativo.”
Chi fossero questi fratelli Camerini e quale parentela li legasse al Duca ed al resto della famiglia è stata da sempre una mia curiosità che finalmente, in questi mesi di ricerche è stata svelata, anche grazie alla collaborazione del parroco di San Bernardino in Selva, Voltana e Belricetto don Maurizio Ardini, del dott. Sergio Chiodini storico di San Bernardino e stimolato dalla sig.ra Silvia Casadio Camerini, moglie di un discendente del ramo lughese.

I Camerini di Villa San Martino

Un affollato nucleo di Camerini ha abitato nella parrocchia di Villa San Martino per quasi tre secoli. Grazie alla collaborazione del Parroco, don Claudiu Gherghel è riemersa anche questa storia che tuttavia, per ragioni di spazio, merita una trattazione a parte.

Tanti Camerini nella bassa lughese

Tenendo presente che questa ricerca si è limitata a parte del basso lughese ed in particolare alle parrocchie di San Bernardino in Selva, San Lorenzo in Selva e Voltana (ove peraltro il fonte battesimale fu istituito dal 28 maggio 1814, sabato di Pentecoste mentre prima i Voltanesi battezzavano a San Bernardino), si può ipotizzare che altre famiglie Camerini fossero presenti anche nelle rimanenti parrocchie della bassa, conducendo tutte però una vita grama, spesso peregrinando da un podere all’altro a servizio dei vari latifondisti terrieri. Per tutti questi ceppi ritrovati non si è scoperto per ora un collegamento con la grande famiglia castellana e quindi saranno necessarie ulteriori ricerche. Purtroppo tuttavia non si sono reperiti gli stati delle anime di Voltana che molto avrebbero completato il quadro delle vicende.

a) I ceppi Camerini di San Bernardino
Un primo ceppo fa capo a Francesco fu Battista, nato forse nel 1739 il quale sposò Antonia Dalla Chiusa ed ebbe cinque figli: Giacoma (1762), Giacomo (1765), Domenica (1767), Giovanna (1771, gennaio) e Domenico (1771, dicembre). Giovanna fu battezzata a San Lorenzo in Selva. Costoro nello Stato delle Anime del 1740 abitano a San Bernardino in casa di Domenico Zaccari. Giacoma risulta sposata a Sebastiano Campoli il 18 febbraio 1786.
Un secondo ceppo fa capo ad un Giuseppe che ha tre figli: Vincenzo, Sante e Luigi. Vincenzo genera dal matrimonio con Maria Canetoli, tenutosi sempre a San Bernardino il 20 agosto 1840, la figlia Maria Rosa (1841) poi si trasferisce senza dubbio a Voltana ove sono battezzati altri cinque figli: Maria Antonia (1847), Colomba (1848) Arcangelo Antonio (1852), Arcangelo (1858) e Domenica (1862). Arcangelo sposa Domenica Ricci ed assieme battezzano tre figli a Voltana: Olindo (1890), Utilia (1892) e Cristina (1894). Il secondogenito Sante, sposato con Annunziata Montesi genera Domenico (1843) che si ipotizza morto alla nascita o poco dopo in quanto nel 1845 nasce un altro Domenico chiamato anche Giuseppe il quale, sposato con Caterina Simoni abita a Voltana ed annovera nove figli; i primi sette battezzati a San Bernardino, gli ultimi due a Voltana: Michele Sebastiano (1870), Sante (1871), Francesco (1873), Colomba (1876), Maria (1878), Domenico (1881) il quale a sua volta si unirà a Wildelmina Binetti a Medicina, Angela (1879), Giuseppa (1883) ed infine Erminio (1885) che sposerà Luigia Minguzzi a Filo di Argenta il 21 giugno 1934. Può darsi che anche Sante si sia trasferito col fratello a Voltana dove nel 1848 nasce Domenica Maria Clementa e che, rimasto vedovo, si sia risposato con Francesca Bellenghi, che nel 1859 genera Annunziata. Il terzogenito Luigi abita a Voltana ed è sposato con Maria Tasselli ed i loro figli sono: Paola (1858), Francesco Paolo (1860), Paolo (1862), Teresa Giuseppa (1865) ed Angelo (1875); questi sposerà a San Bernardino Francesca Ricci Petitoni.
Di un terzo ceppo sappiamo di un Simone (forse 1767) che è sposato con Domenica Tasselli ed ha quattro figlie: Rosa (1800), Santa (1804) la quale sarebbe andata sposa a Napoleone Minzoni il 30 settembre 1826, Marianna (1807 – 1809) e Maria Anna (1810); nello stato delle anime del 1810 il Sacerdote annota che assieme a questa famiglia dimora il fratello di Simone, certo Paolo che si ipotizza nato nel 1775. Costui probabilmente è il padre di Luigi, futuro erede del Duca Silvestro. Tuttavia non risulta alcun Simone nella famiglia di Francesco Camerini della Ghinotta, perciò può darsi che questi abbia mentito al Sacerdote oppure che costui non abbia ben inteso la parentela. Costoro abitano nel 1805 nei Casanti Trozzi e nel 1810, quando viene registrata la presenza di Paolo, in località Magnavacche nella casa di proprietà degli Orfani Legato Porcari di Argenta.
Un quarto ceppo fa capo a Girolamo Camerini (forse 1750) che nello Stato delle Anime del 1790 è registrato vivente in un podere di sua proprietà assieme alla moglie Paola Martini di 36 anni e con i figli Domenica Maria di 13 anni (1777), la quale sarebbe andata sposa ad Antonio Maria Farina il 24 novembre 1799 e Luigi di 9 anni (1782), battezzato a San Lorenzo in Selva, ove pure erano nati nel 1780 Lorenzo e nel 1781 Luigi che probabilmente è morto prematuramente. Nei quindici anni successivi potrebbe essere avvenuto un rovescio economico che ha portato la perdita del podere, forse legato alla prematura morte di Girolamo avvenuta il 6 maggio 1798: infatti nel 1805 Paola Martini, vedova e Luigi Camerini, figlio, dimorano nella famiglia di Lodovico Dal Pozzo nella via Fiume Inferiore, forse lavorando come garzoni o servitori. Luigi poi nello stato delle anime del 1810 abita in località Scolo nella Larga Manzoni e risulta coniugato con Giacoma Baroncini (il matrimonio era avvenuto il 6 giugno 1807), i quali generano quattro figli: la primogenita Maria Luigia (1809) sposa Francesco Gamberini, un bracciante miserabile di Giovecca, nella chiesa di San Bernardino il 26 gennaio 1833. Il secondogenito Girolamo (1811) sposa nella medesima chiesa il 5 febbraio 1842 Giovanna Marri e genera a sua volta cinque figli: Marianna (1842), Antonio (1845), Luigi (1847?) che tuttavia è nato nella parrocchia di San Lorenzo in Selva e dove vive nel 1868 quando, il 26 ottobre, sposa Domenica Govetti di San Bernardino, Francesca (1848) e Giacomo (1851). Nello stato delle anime del 1815 la famiglia di Luigi Camerini risulta abitare in località Maccaferro, mentre nel 1821 abita alla Giovecca nel Capanno Salami. Risultano anche due figli della coppia non battezzati a San Bernardino: Maria Carmela (1812) e Lorenzo che muore neonato il 5 agosto 1813. Ed ancora nel 1830 il nucleo familiare si è spostato a Passogatto nel Capanno Bignardi e nel 1836 abita a Passogatto, in località “La Rotta” al Capanno Violani ma ormai oltre ai due coniugi è rimasta in famiglia la sola figlia Carmela la quale tuttavia si sarebbe sposata il 3 febbraio 1842 con Francesco Mongardi. Girolamo Camerini, con la moglie, la primogenita e la mamma nel 1843 abitano in località Marmana nel podere Bianchi Azzaroli. È soprannominato “l’Ometto”, fa il bracciante ed è definito dal sacerdote “povero”.
Ed infine di un quinto ceppo sappiamo di Angelo sposo di Pasqua Marescotti con i figli Teresa Augusta (1902), battezzata a Voltana e che sposerà a San Bernardino Tommaso Balbi il 17 novembre 1923, Clotilde (1910) anch’essa battezzata a Voltana e che sposerà Luigi Berti a San Bernardino il 7 settembre 1929, Gelindo (1913) e Maria (1918).

b) I ceppi Camerini di San Lorenzo
Un primo fa capo ad un altro Francesco che, sposato con Camilla Marchioni, appare dapprima a San Lorenzo in Selva dove nel 1768 il loro figlio Giacomo Antonio viene battezzato in periculo mortis (1) nella casa in cui è nato da tal Giacomo Geminiani, presente l’ostetrica Rosa Tasselli e, quale madrina, una parente: Maria Camerini di San Bernardino. Il battesimo fu poi ripetuto sub condicione dal Parroco. Successivamente la coppia battezza a San Bernardino un secondo figlio: Girolamo (1777).
Di un secondo ceppo sappiamo di Domenico Camerini e Maria Teresa (incomprensibile il cognome di costei) che nel 1776 generano Giuseppe.
Ma l’unica famiglia Camerini residente in quella Parrocchia, consultando gli stati delle anime, risulta essere quella di Angelo Camerini; essi abitano in via Cornacchiare, nel podere di Paolo Pascale, di cui è il colono. Angelo, fu Antonio, sarebbe nato nel 1780; la moglie, Rosa Magnani sarebbe nata nel 1789. Con loro abita il figlio Antonio (1810) che nel 1832 sposa Maddalena Pasquali (1807); di seguito, da questa coppia nasceranno in quella casa: Luigi (1834), Rosa (1836), Maria Angela (1837), Augusta (1838) e Giustino Domenico (1839). Di nessuno è stato trovato l’atto di battesimo nelle parrocchie di San Lorenzo, San Bernardino e Voltana. Nel 1840 i Camerini hanno lasciato il podere per una destinazione che ci è ignota.

c) I ceppi Camerini di Voltana
Nei battesimi di Voltana si trova solo un Antonio che, assieme alla moglie Maria Zattoni battezzano una figlia Adelinda nel 1880 ed un’altra figlia, Erminia Angela nel 1894. Costei sposerà a Lugo Giuseppe Marangoni il 29 novembre 1930.
Di un secondo ceppo abbiamo notizia di Paolo che, sposato con Maria Ghiselli genera Luigi nel 1882, Eugenio (1884) che sposerà a san Bernardino Paolina Facchini il 13 aprile 1924, Teresa (1887) Clotilde (1888), Giovanni (1891), i gemelli Giuseppe (17 – 30 aprile 1894) e Teresa (17 aprile – 1 maggio 1894), ed ancora i gemelli Giuseppe (1895) e Giuseppina (1895), Marco (1897) battezzato però a San Bernardino, Luigia (1898) che sposerà Vincenzo Bartolotti a San Lorenzo il 10 gennaio 1925,ed infine Lucia Maria (1903).
Altre famiglie Camerini, come si è visto, giungono a qui da altre Parrocchie; tuttavia col nuovo secolo non vi sono più battezzati col cognome Camerini a Voltana.

A questo punto viene lecito ipotizzare che Silvestro non sia stato sensibilizzato agli imponenti lavori idraulici che si andavano compiendo già da tempo nel ferrarese e nel ravennate per il recupero di terre all’agricoltura con la costruzione di canali consorziali e con il rafforzamento degli argini dei principali corsi d’acqua, solo frequentando le piazze ed i mercati della Romagna conducendovi capi di bestiame per conto terzi come vuole la tradizione, ma forse fu interessato anche dai vari “parenti” che risiedevano in queste terre basse potendosi ben ipotizzare che qualcuno di loro già prestasse servizio nelle opere di arginatura dei fiumi.

I protagonisti: Pasquale e Domenico Camerini

a) Le possessioni Camerini nelle campagne di Lugo.
Il futuro Duca non tralasciò di acquistare terre anche nell’agro lughese, perché quel territorio apparteneva, prima della “restaurazione”, alla Legazione di Ferrara. Dunque, è facile che questi terreni siano stati acquistati da Silvestro Camerini dopo il 1815 assieme agli altri più preziosi dell’oltre Po rodigino dalle famiglie ferraresi che se ne volevano liberare e li svendevano sottocosto perché essi erano passati in territorio straniero, cioè sotto l’Impero di Austria – Ungheria. E poiché i terreni lughesi erano vicini a casa magari Silvestro ne avrà avuto un qualche interesse. Che non si tratti dell’acquisto di un solo latifondo ma di tante particelle comperate probabilmente da più venditori, lo dimostra un contratto del 28 agosto 1854 che le descrive poste in Belricetto, in San Lorenzo in Selva, in Voltana, in Canal Riparto ed in Bagnara, della complessiva superficie di ettari 279 – are 48 – metri 40. Il latifondo comprendeva a Belricetto una villa padronale con annesso oratorio già appartenuta ai conti Fiaschi di Ferrara. Padre Serafino Gaddoni lo descrive (2) dedicato alla Concezione della B. Vergine eretto con decreto del 25 febbraio 1686, benedetto dal vescovo Zani nel 1692. La costruzione è a tre navate della misura di m. 20 x m. 10 con un solo altare; la pala dell’altare maggiore, che rappresenta la Madonna in trono col Bambino è attribuita al Garofalo (3). Il campanile possiede una campana di Clemente Brighenti portata dall’Oratorio della Pianta (4) “oltre cento anni fa” (5) dal duca Silvestro Camerini. Nei verbali della visita pastorale del 1828 e del 1834 viene aggiunto il titolo di Santa Galla Romana e nel 1869 la Madonna viene invocata col titolo di “Aiuto dei Cristiani”. All’epoca in cui scriveva padre Gaddoni esisteva ancora un legato di Messe istituito dal Conte Luigi Camerini, l’erede del Duca.

b) Arrivano i fratelli Camerini.
Nella villa padronale di Belricetto abitava il fattore addetto alla cura delle proprietà Camerini che nel 1836 è il sig. Giuseppe Tamba il quale la abita assieme alla famiglia, ma l’anno successivo le cose sono cambiate: i nuovi fattori sono Pasquale e Domenico Camerini che sono giunti lì con le rispettive famiglie da Castel Bolognese. Questi fratelli, gemelli, uno dei pochi casi di gemelli in tutto l’albero genealogico che ho riscontrato dal XVI secolo ad oggi, sono nati a Castel Bolognese nel 1798 e sono cugini di quarto grado con Silvestro Camerini. Infatti dal capostipite comune Paolo Astorre (1711) si discende a Francesco Andrea (1751) padre del futuro Duca, mentre da Bartolomeo (1716), ultimogenito di Paolo, v’è discendenza in Sante (1762) che sposa Maddalena Visani dalla quale ha dieci figli, l’ottavo ed il nono appunto sono Pasquale e Domenico.
Il motivo di questo cambiamento non ci è ancora noto; tuttavia conoscendo il temperamento di Silvestro Camerini si può ipotizzare che lui, fidandosi solo dei componenti della propria famiglia per la trattazione dei propri affari, abbia considerato più opportuno affidare la gestione di queste terre così lontane ai “nipoti” come lui stesso ogni tanto li cita; diversamente si può pensare che il contratto del fattore Tamba fosse scaduto, oppure ad un vero e proprio scioglimento del vincolo contrattuale con l’allontanamento del precedente fattore dalle proprietà. Con rogito del notaio ferrarese Giuseppe Calabria (6) del 28 agosto 1854 Silvestro Camerini cede poi in affitto tutti questi i terreni del Lughese ai fratelli Pasquale e Domenico e con successivo rogito del 12 aprile 1865 Silvestro concede loro tutti i terreni solamente dietro il pagamento di un livello pari a 3.000 Scudi papali, cioè circa 16.000 lire italiane, da pagarsi annualmente in due rate semestrali, una a Pasqua e la successiva il 29 settembre. I redditi dell’affitto e del livello di queste terre servivano per finanziare le beneficienze fino ad allora istituite a Castel Bolognese: Artigianelli Camerini e Beneficienza Cronici.

c) Le famiglie di Pasquale e Domenico Camerini.
Pasquale Camerini arriva a Belricetto assieme alla moglie Maria Borzatta e a quattro figli nati a Castel Bolognese: Paolo (1828), Giuseppe (1830), Maddalena (1831) ed Angelo (1836), mentre Luigi (1835) era probabilmente morto in quanto il nome ritorna altre tre volte in famiglia. A Belricetto vengono alla luce altri sette figli: Luigi (n.m. 1837), Luigi (1840), Maria Rosa (1842), Giovanni Sante (n.m.1844), Giovanni Sante (n.m. 1845) e finalmente Raffaele (1848). Da Luigi (1840), che sposa Domenica Gavelli, nascerà Girolamo nel 1868. Da Raffaele, unitosi in matrimonio con la contessa Augusta Porzi, discende la famiglia Camerini-Porzi di cui mi sono occupato in altra parte di questo grande studio sulla famiglia Camerini. Maddalena invece il 31 gennaio 1856 sposa Lorenzo De Giovanni di Vigonovo di Ferrara.
Anche Domenico giunge a Belricetto già sposato con Annunziata Cristoferi ma non sembrano avere al momento figli viventi. Qui tuttavia nasceranno Francesco Saverio nel 1839, il quale fu ordinato sacerdote il 19 dicembre 1863 e svolse il suo ministero a Lugo ove morì il 14 agosto 1912 e fu sepolto nel cimitero del Capoluogo; poi nel 1841 Sante che pare non essersi sposato e vivrà assieme al fratello Vincenzo; Virginia (n.m. 1843), Serafina (1845), Vincenzo (1848), Fortunata (1851) poi suora a Forlimpopoli ed infine Antonio (1853).
Assieme alle due famiglie vivrà sempre una sorella non sposata: Orsola, nata a Castel Bolognese nel 1795 e, per un certo periodo, un nipote proveniente da Castel Bolognese: Paolo Budini, figlio di Giuseppe e di Marianna Camerini detta “la Padovana”, che nel 1837 risulta avere 29 anni.

I discendenti di Domenico Camerini

Vincenzo figlio di Domenico pare sia l’unico ad avere avuto discendenza; infatti dal matrimonio con Angela Lolli nascono sette figli: Sante (1871), Giovanni Battista (1873), Giulio (1875), Virginia (1878) poi suora a Forlì, Anna (1880), Domenico (1882) e Luigi (1884). Nel 1884 tutti abitano in via Fiumazzo 197, in una casa di proprietà assieme al fratello di lui fratello Sante Camerini e a Petro Venturi che probabilmente era il garzone di famiglia. Vincenzo viene classificato “colono”.
Tra i figli di Vincenzo seguiamo la storia di Battista e di Giulio, ultimi proprietari della villa di Belricetto. Giovanni Battista sposa il 26 giugno 1913 nella chiesa di Sant’Isaia a Bologna la ben più giovane contessa Giovanna Galli. La coppia non avrà figli e, rimasti quali ultimi proprietari della villa, Giovanni Battista la lascerà per testamento alla Diocesi di Imola. Nel dopoguerra verrà così costituita la Parrocchia di Belricetto, scorporandone il territorio da quella di San Bernardino in Selva; l’oratorio diventa la chiesa parrocchiale e la villa ne è la canonica e la residenza del Parroco.
Giulio sposa a Lugo il 29 luglio 1916 Edvige Giunchedi ed acquista il palazzo di Lugo in corso Mazzini di fronte alla chiesa di San Giacomo, oggi di proprietà Dente. Giulio ha due figli: Vincenzo (1921) il quale ha avuto due figlie; Giorgio (1933), sposato con Olinda Zaccari, ha avuto Elena e Michele (1970). A sua volta Michele ha sposato Silvia Casadio dalla cui unione è nato Cesare (2005) e così siamo arrivati ai nostri giorni.

Paolo Camerini e la nascita di Luigi, erede del duca Silvestro

Poche notizie si sanno su Paolo Camerini, fratello maggiore di Silvestro, salvo quella di essere il padre di Luigi, erede della fortuna del duca Silvestro, e che sarebbe morto quando Luigi era in tenerissima età. Dopo questi studi v’è un po’ più di chiarezza sulla vita e sul ruolo di questo fratello. Lo abbiamo visto in casa di Simone Camerini a San Bernardino nel 1810. Pochi anni dopo lo ritroviamo a Voltana. Qui il 27 gennaio 1813 Paolo sposa la voltanese Lauretana Guerrini e sempre a Voltana il 9 aprile 1815 nascerà il loro primogenito Francesco, il quale tuttavia muore sette giorni dopo, il 16 aprile. La famiglia si muove da Voltana, attraversa il Reno e si stabilisce a San Biagio di Argenta dove il 9 ottobre 1819 nasce Francesco Luigi Camerini.
La mancanza degli stati delle anime delle parrocchie di Voltana e San Biagio di Argenta ci priva di preziose notizie, ma è lecito ipotizzare che Paolo, assieme al fratello Cristoforo sovrintendessero per conto di Silvestro ai lavori di arginatura dei fiumi: Cristoforo nel rodigino e nell’alto ferrarese, Paolo nel lughese e nel basso ferrarese. Sono infatti quelli gli anni in cui Silvestro diventa il colosso delle arginature, esce dalla miseria e si trasferisce a Ferrara; ma, si sa, solo dei parenti più stretti lui si fidava per seguire ed appaltare i lavori.
Paolo sarebbe morto in circostanze e località sconosciute (a San Biagio di Argenta non risulta) nel 1821/22.

(1) Anche l’attuale Codice di diritto canonico prevede l’istituto del battesimo del neonato in periculo mortis (can. 867, §2). In passato capitava frequentemente che all’atto della nascita, qualora il bambino apparisse in pericolo di morte imminente, la levatrice o un’altra persona procedesse al battesimo, per poi recarsi in parrocchia per eseguire la regolare registrazione. Il sacerdote procedente, nel caso avesse dubbi sulla validità del battesimo e se il battezzato nel frattempo non era morto, poteva ripetere il sacramento del battesimo in una forma speciale definita “sotto condizione”. L’urgenza di battezzare era data dalla credenza, mai stata una verità di fede, che l’anima del neonato non battezzato e morto finisse nel “Limbo”, un particolare luogo che non era di sofferenza, descritto anche da Dante Alighieri nella Divina Commedia, dove tuttavia non si poteva godere della visione salvifica di Dio. La dottrina post-conciliare non menziona più chiaramente il Limbo ma si afferma che i bambini morti senza Battesimo sono affidati «alla misericordia di Dio […]».
(2) GADDONI S: Le chiese della Diocesi di Imola – Volume III a cura di B. Monfardini, Città di Castello, 2008, pag. 89
(3) Benvenuto Tisi da Garofalo (Canaro, 1476 o 1481 – Ferrara 6 settembre 1559) è stato un pittore tardo rinascimentale il quale ha operato prevalentemente a Ferrara ma ha lasciato sue opere anche a Roma, Venezia e Modena.
(4) Così padre Gaddoni descrive l’oratorio della Pianta dedicato a Santo Stefano: “L’oratorio di Santo Stefano, eretto sullo Stradone Bentivoglio distante 5 miglia dalla Parrocchia di San Bernardino in Selva, a desta del fiume Santerno, detto popolarmente La Pianta è di proprietà dei Marchesi Bentivoglio, che hanno eletto come cappellano don Giuseppe Siroli, obbligandosi a celebrare 3 messe ogni settimana, perché hanno lasciato in dote oltre 100 tornature: 50 di terra attiva e 50 prativa. Nel 1739 il quaresimalista vi predicava ogni pomeriggio. Nel 1834 oltre la dedica a Santo Stefano si aggiunge quella ai SS. Angeli ed è di proprietà della famiglia Bentivoglio-Aragonesi. Questo oratorio, ricostruito circa 30 anni orsono, durante la settimana rossa l’11 giugno 1914 è stato bruciato. Acquistato da Giovan Battista Camerini di Belricetto, nel 1920 è stato trasformato dal Comune di Lugo in abitazione civile e nel 1921 l’amministrazione socialista l’ha convertito in camere per inquilini”. GADDONI S.: op. cit. pag. 95
(5) GADDONI S.: op. cit. Poiché le ricerche di padre Gaddoni furono eseguite negli anni ’20 del secolo scorso, si può ipotizzare che ciò sia avvenuto verso il 1820-1830 quando già villa ed oratorio erano proprietà Camerini.
(6) In questo atto è allegato il cabreo dei possedimenti lughesi del Duca. Purtroppo la sezione notarile dell’Archivio di Stato di Ferrara da anni non è consultabile per inagibilità dei locali né, a detta del Direttore, le cose cambieranno nel corso dei prossimi anni.

Bibliografia:
Archivio Diocesano di Imola – Archivio della Parrocchia di San Bernardino in Selva – Stati delle Anime 1790 – 1884.
Archivio Diocesano di Imola – Archivio della Parrocchia di San Lorenzo in Selva – Stati delle Anime 1831 – 1840.
Archivio Diocesano di Imola – Archivio della Parrocchia di San Lorenzo in Selva – Libro dei battezzati 1736 – 1780.
Archivio Storico Diocesano di Ravenna – Archivio della Parrocchia di San Biagio di Argenta – Libro dei battezzati 1775 – 1814.
Archivio Storico Diocesano di Ravenna – Archivio della Parrocchia di San Biagio di Argenta – Libro dei morti 1819 – 1829.
Archivio Parrocchiale di San Bernardino in Selva – libri dei battezzati, morti e matrimoni 1700 – 1900;
Archivio Parrocchiale di Voltana – libri dei battezzati, morti e matrimoni 1700 – 1900;
Archivio Parrocchiale di San Petronio in Castel Bolognese – Libri dei battezzati dal vol. I al vol. XIV.
GADDONI S: Le chiese della Diocesi di Imola – Volume III a cura di B. Monfardini, Città di Castello, 2008.

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Da un’emergenza all’altra: 1944/45-2020 https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/da-unemergenza-allaltra-1944-45-2020/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/da-unemergenza-allaltra-1944-45-2020/#respond Tue, 31 Mar 2020 19:27:03 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=7664 di Maria Landi Stiamo vivendo in questo inizio del 2020 un tragico periodo della nostra storia. A me, che per 75 anni ho vissuto un’intera esistenza di una certa tranquillità con gli alti e i bassi che capitano ogni tanto, viene da collegare l’attuale momento all’altro terrificante periodo della storia …

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di Maria Landi

Stiamo vivendo in questo inizio del 2020 un tragico periodo della nostra storia. A me, che per 75 anni ho vissuto un’intera esistenza di una certa tranquillità con gli alti e i bassi che capitano ogni tanto, viene da collegare l’attuale momento all’altro terrificante periodo della storia del nostro paese, vissuto nella mia infanzia e adolescenza. Questo perché anche quello fu caratterizzato da pesanti sacrifici, come capita anche ora. Mi riferisco alla seconda guerra mondiale, precisamente l’ultima parte di essa, fra il 1944 e il 1945, quando la sosta invernale del fronte fu stabilita proprio a cavallo del nostro torrente, il Senio. La vita allora aveva un ritmo assai diverso da quello che viviamo attualmente. Il nemico dal quale ci si doveva difendere era ovunque, poteva aggredirti a tua insaputa quando meno te lo aspettavi. In un attimo fatale, un’intera famiglia poteva lasciarci la vita, per lo scoppio di una granata, per una bomba lanciata da un aereo o per una scheggia vagante. Vivevamo le nostre giornate rintanati in angusti rifugi scavati sottoterra, senza luce, senza aria, senza uscire quasi mai allo scoperto, se non a nostro rischio e pericolo. Nessuno ci aveva chiesto o imposto questo sacrificio, nessuno ci aveva consigliato o insegnato il da farsi. La paura che ci attanagliava faceva scuola. Dai rifugi delle campagne, malsicuri e malsani, un po’ alla volta ci avvicinammo al paese per poter essere vicini ad altri esseri umani, chi obbligato dai soldati occupanti che volevano il nostro spazio, chi terrorizzato dalle tragedie che ogni tanto si abbattevano su famiglie e amici. Le cantine del paese si stiparono fino all’inverosimile. A metà dicembre del 1944, con la mia famiglia e quella dei miei zii, ci rifugiammo nei sotterranei della villa Centonara, vicino alla stazione, dove, nelle grandi cantine del palazzo, erano già alloggiate diverse famiglie amiche, provenienti dal Ponte del Castello. La nostra famiglia occupò l’ultima piccola cantina ancora libera, situata sotto le stanze dei servizi. C’era posto sotto un finestrino per la stufa, per cucinare e scaldarcisi, e per quattro reti da letto, dove alla meglio dormivamo in nove persone. Mangiavamo seduti sui letti. Avevamo però un vantaggio: ora eravamo ad un paio di chilometri dal fronte, e i colpi che arrivavano erano più radi. A casa nostra, proprio sul fronte, le cose erano ben diverse. Ora, ogni tanto uscivamo nel parco a respirare l’aria che prima non avevamo, ed era un bel cambiamento. Tutto ciò durò fino a fine gennaio 1945. Poi fummo obbligati e costretti a sfollare un’altra volta. Stavolta ci rifugiammo nelle cantine delle suore domenicane, in centro al paese. Eravamo oltre duecento persone sottoterra, con un unico gabinetto al pian terreno dell’edificio che serviva, in tempo di pace, per la famiglia del custode. Ora, davanti alla porta stazionavano continuamente file di persone in attesa del loro turno. Neanche a dirlo, ogni due o tre giorni il vascone del bagno era da svuotare. Nella nostra cantina, noi nove ci sistemammo in un letto a castello, creato con travi prese tra le macerie delle case crollate. Ora avevamo ben sei letti. I miei zii stavano nella parte di sotto, in quattro su tre letti, noi sopra, in cinque, sempre su tre letti.
Ho raccontato in queste righe come gestimmo allora il problema dell’alloggiare e del dove potersi rifugiare. Ora ci chiedono di stare nelle nostre case, senza uscire, se non per cose estremamente necessarie, ed è comunque un enorme sacrificio per tutti. Noi rimanemmo chiusi fino al 12 aprile 1945. Speriamo e auspichiamoci che venga presto anche per noi il nostro sospirato “12 aprile”.

Maria Landi con la targa del 1° premio di poesia dialettale “Tonino Guerra” vinto a Cervia nel 2019 (foto di Maria Flora Minzoni)

 

Il cibo, ovverossia “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”

Nei momenti di grande emergenza e di continua apprensione, il pensiero che più sconvolge l’animo umano è certamente il timore che venga a mancare il cibo. Rivoluzioni, tafferugli, guerriglie sono spesso scoppiati per la mancanza di alimenti. Un esempio per tutti, la guerra del pane raccontata da Manzoni nei Promessi Sposi. Al giorno d’oggi abbiamo assistito a lotte sfrenate per aggiudicarsi gli ultimi barattoli di Nutella o l’ultimo pacchetto di lievito o altri acquisti sconsiderati per la paura di rimanere a bocca asciutta. Ci siamo abituati alle lunghe file davanti ai supermercati, a distanza di un metro l’uno dall’altro. Tutta questa paura, perché? Da tanto tempo si vive con l’idea e la certezza che le comodità del vivere quotidiano e tutto il ben di Dio a nostra disposizione possano durare all’infinito; sicurezza però, che, data la situazione, è venuta meno. Le file davanti ai supermercati oggi possono ricordare le file del tempo di guerra che si facevano per portare a casa ciò che veniva offerto con le tessere annonarie, fogli di carta in colori diversi, formate da cedole. Ognuna era dedicata a diversi tipi di alimenti. Chi aveva istituito questo sistema da fame dava ad ogni persona un etto e mezzo di pane al giorno, impastato con ogni tipo di farina macinata con cereali, legumi, spesso granoturco e persino patate. Il pane era brutto, duro e soprattutto poco. C’erano poi le cedole settimanali per tutti gli altri prodotti, ben scarsi anche loro. Esisteva una cedola anche per le sigarette: chi non aveva il vizio del fumo fingeva di avercelo, così scambiava le cedole del tabacco con quelle del cibo. Alla fine della fila, tante volte non c’era più niente da mettersi in tasca. Allora, qualcuno si alzava prima che facesse giorno per avere qualcosa da portare a casa. In queste condizioni passarono i primi anni di guerra. Alla fine del 1943 le tessere a poco a poco non garantirono più i poveri ma indispensabili rifornimenti. Non si faceva più la fila perché non c’era quasi niente da portare a casa. Bisognava arrangiarsi da soli. Andavamo a spigolare nei campi dopo la mietitura. Chi aveva il giardino lo convertì in orto, e di questo era privilegiato chi abitava in campagna. Nei campi vicino a casa andavamo a raccogliere erbe commestibili per farne grandi insalate. I contadini avevano bisogno di aiuto per i raccolti, essendo i giovani sotto le armi. In cambio dell’aiuto, ci ricompensavano con i prodotti della terra: patate, fagioli, quello che c’era andava bene tutto. Avevamo polli per le uova. Mio padre andava nel fiume a pescare pesci e anguille. Ci si scambiava con amici e conoscenti quello che si poteva. L’amicizia aiutava molto: oggi si chiama solidarietà. Nei momenti del bisogno questo sentimento fiorisce rigoglioso. Con l’avvicinarsi della linea del fronte, gli accorgimenti adottati per sostituire le tessere che ci avevano salvato dalla fame, vennero a mancare fino a sparire completamente. Una volta sfollati alla villa Centonara, intaccammo le provviste portate da casa, ma era chiaro che non sarebbero durate a lungo, e non c’era altro modo di procurarsi cibo. Poi la Provvidenza, o il caso, ci vennero in aiuto. Un gruppo di soldati tedeschi si stanziò nelle cantine sotto la villa, facendo sgombrare le famiglie che le occupavano. Noi restammo nel nostro piccolo spazio e imparammo a convivere con il nemico. Requisirono mio padre per farlo lavorare per loro. Razziavano dalle campagne bestie che poi macellavano, dando a noi il loro rancio, il loro pane nero e le frattaglie degli animali. Tutto ciò durò fino a fine gennaio, quando ci trasferimmo nelle cantine del convento. I nostri pasti furono allora composti da ciò che si riusciva a rimediare. Si andava ogni tanto ad uno spaccio rifornito da Imola e tutti i giorni la nonna faceva grosse pizze che cuoceva nella stufa. Zia Rosina preparava lunghi spaghettoni che chiamava bigoli, cioè gli antenati degli strozzapreti, e li condiva con prezzemolo e aglio. Nel cortile del convento, nascosta tra paglia e fascine, viveva una mucca da latte, salvata da un contadino per mungerla tutti i giorni e ogni due dava a mia madre mezzo litro di latte perché mio fratello era il bambino più piccolo della cantina. La mamma lo pagava con quattro soldi (una bicicletta).
A quel tempo, l’Italia era un paese basato prevalentemente sull’agricoltura, che in tempi di guerra non riusciva a produrre abbastanza per sfamare la popolazione. Mancava la forza lavoro e i campi non erano più luoghi sicuri. Il sentimento di paura per la mancanza di alimenti era diffuso ma giustificato: quello che potevi trovare un giorno, poche ore dopo rischiava di esaurirsi, definitivamente. Non esistevano rifornimenti consistenti, o aiuti da altri paesi. Al giorno d’oggi c’è la possibilità di accedere a qualsiasi cosa in qualsiasi momento, ed è comprensibile che un ritardo a cui non siamo abituati possa gettare nel panico la popolazione. Basta pensare, però, che in fondo si tratta solo di qualche giorno di attesa in più. Quando io avevo 12 anni, purtroppo, anche la speranza di rifornimenti in tempi brevi era vana.

La scuola sospesa… Arrivederci, ragazzi!?

La scuola elementare Carlo Bassi è sita di fronte a casa mia. Assisto con vero piacere all’entrata e all’uscita dei bambini con genitori, nonni e scuolabus che li accompagnano: nessuno arriva da solo. Taluni arrivano a piedi, accompagnati da volontari, dando vita al simpatico progetto “Pedibus”. Per tanti anni ho visto ogni mattina lo svolgersi di questo rito. All’improvviso, questa cerimonia consolidatasi nel tempo, che nessuno immaginava potesse un giorno interrompersi, è sfociata in un’emergenza più forte di tutte le ragioni logiche: è stata decretata la chiusura di tutte le scuole per impedire ulteriormente il diffondersi del contagio. Ora, il viale davanti alla scuola è deserto a tutte le ore. Dov’era il frastuono dei bimbi, c’è un silenzio assordante.
In quello stesso edificio, ottant’anni fa frequentavo le scuole elementari. Ero alla fine del secondo anno, giugno 1940, quando dai palazzi del potere un esaltato, assetato di gloria e di potere, con roboanti parole diede il via alla Seconda guerra mondiale, che travolse e sconvolse la nostra quotidianità. Ho vissuto l’intero periodo scolastico con la guerra in sottofondo. Dalla campagna dove vivevo, facevo il tragitto casa-scuola sempre a piedi e sempre da sola, come tutti gli altri, accompagnata solo nei primi giorni della prima elementare. Lungo la strada ci univamo a gruppi, più o meno numerosi, dando vita a una sorta di Pedibus ante litteram, ma senza accompagnatori adulti. Portavamo borse di straccio, che le nostre mamme confezionavano con avanzi di indumenti consunti e oramai inutilizzabili. La scuola era molto presente e attenta ai bisogni dei ragazzi. Ogni giorno ci somministravano il disgustoso olio di fegato di merluzzo: eravamo malnutriti e la tubercolosi mieteva vittime tra i più deboli. Il regime doveva renderci forti ed invincibili. La mensa scolastica si chiamava refezione ed era gratuita per i figli degli operai, categoria disagiata per la perenne scarsità di lavoro. Funzionava anche quando la scuola era chiusa, come quando non si trovò più combustibile per il riscaldamento nel rigido inverno della mia quarta elementare e così ai bambini fu assicurato un pasto sufficiente, anche in assenza delle lezioni. Anche i libri, i quaderni e le penne erano concessi gratuitamente a chi ne aveva bisogno. Ovviamente non si doveva sprecare: si scriveva anche nei margini dei quaderni e si tenevano bene i libri, già usati, ma che dovevano servire l’anno successivo ad altri studenti.
Quando iniziò l’anno scolastico 1943-44 cambiò tutto. Avevo concluso il ciclo elementare con buon profitto. Ero felice e desideravo imparare sempre più. Ora avrei frequentato l’avviamento professionale, che, dopo l’8 settembre ‘43 fu trasferito nell’orfanatrofio Ginnasi. Mio fratello Luciano iniziò quell’anno la prima elementare, ma a Natale i miei genitori lo ritirarono, perché era aumentato il pericolo lungo la Via Emilia, fra il via vai dei mezzi militari e le incursioni degli aerei alleati. Per quanto riguarda me, continuai a frequentare l’avviamento solo di tanto in tanto, a causa dei frequenti allarmi che le sirene e la campana della torre civica diffondevano nell’aria. Quasi tutti i giorni le lezioni venivano interrotte per metterci al sicuro e la scuola chiudeva i battenti. In queste condizioni arrivammo al 2 maggio 1944, giorno del mio dodicesimo compleanno, durante il quale un terribile bombardamento sconvolse Faenza, che subì gravi perdite tra la cittadinanza. Il giorno seguente andammo a scuola mogi e terrorizzati da quanto avvenuto, ma la trovammo chiusa: non si sarebbe riaperta più. Un cartello avvertiva di tornare il 15 maggio a ritirare le pagelle. La nostra insegnante di italiano, Elvira Borghi di Faenza, perì nel secondo bombardamento del 13 maggio. Fummo messi a parte di questa notizia dolorosa il giorno del ritiro delle pagelle. Piangemmo tutti, addolorati per la fine della nostra cara maestra. Il 2 maggio non era terminata solo la scuola, ma pure la mia vita da giovane studentessa, che non sarebbe tornata mai più. Il successivo anno scolastico 1944-1945 non iniziò affatto.

Durante l’estate 1945, a qualcuno venne il pensiero che i bimbi della prima elementare, avendo terminato per forza maggiore l’esperienza scolastica dopo neanche due mesi nel ‘43, avrebbero perso un ulteriore anno. Alcuni volontari allestirono in alcuni ambienti sinistrati sì, ma non pericolanti, una parvenza di scuola. Così, si salvò l’intero anno. Mio fratello Luciano era uno di quei bambini.

La nostra generazione, per le cause accennate, venne depredata di un intero anno scolastico. Per certi versi, in dosi minori, è quello che sta capitando anche agli studenti di oggi. La chiusura delle scuole tra febbraio e marzo è stata una decisione preventiva, per evitare di non far correre alcun rischio ulteriore agli studenti, alle famiglie e al personale scolastico. Noi, invece, continuammo ad andare a scuola, tra un allarme aereo e l’altro, finché non diventò ufficialmente troppo pericoloso dato l’avvicinarsi dei disastrosi eventi bellici. Fortunatamente, gli strumenti che hanno oggi a disposizione gli studenti permettono di procedere con le lezioni in modo sicuro e continuativo, ma sicuramente l’esperienza sui banchi di scuola rimane più completa e gratificante. Nonostante questa anomalia durante il percorso scolastico, i ragazzi di oggi avranno la possibilità di recuperare prossimamente, senza interruzioni. Purtroppo, la sorte destinata a noi fu diversa perché, una volta finita l’emergenza, ci fu il difficile periodo della ricostruzione che impossibilitò molti di noi, me compresa, a riprendere a frequentare la scuola, perché la nostra presenza era fondamentale per aiutare a casa.

Le scuole elementari vengono riparate dopo la Liberazione.

Disavventure… “igienistiche”

La tremenda pandemia che da alcuni mesi sta mettendo in ginocchio il mondo intero sta sconvolgendo l’esistenza di tutti gli uomini. Anche chi non è colpito dal subdolo contagio, deve sottostare a severe regole e dettami di comportamento che, se pur necessari, hanno cambiato radicalmente le nostre abitudini. Ora ci si deve privare di tante cose che prima erano ovvie. Può sembrare banale, ma non lo è affatto. Dopo l’ordinanza che ha previsto la serrata di negozi ed esercizi, niente più parrucchiera, estetista, barbiere, piscina, palestra, ginnastica. Tutte cose necessarie per l’igiene e la salute del nostro corpo, alle quali eravamo assuefatti. Ci rimane però il vantaggio di avere, in ogni abitazione, bagni comodi e ben forniti di tutti i prodotti occorrenti. Così, pulizia e igiene sono salvi.

Facciamo ora un salto indietro nel tempo e arriviamo all’altra grande crisi che coinvolse e decimò tutto il mondo per lunghi anni, la Seconda guerra mondiale. Sembrava che da quell’orrore non ci si dovesse sollevare mai più. Per gli abitanti di Castel Bolognese ci fu un’aggiunta di pena e di guai grossi, quasi insormontabili. Si cominciò, sin da settembre-ottobre ’44 a fare la vita del rifugio. Ad ogni squillo di sirena o suono di campanone, ci fiondavamo dentro quelle tane che più che altro servivano a darci una parvenza di sicurezza, mentre gli aerei alleati tenevano la Via Emilia sotto controllo, per cacciare qualche mezzo di trasporto tedesco o bombardare la nostra stazione. Non si poteva più andare al fiume il sabato per fare il bagno settimanale, insaponandoci col brutto sapone fatto in casa dalle nostre mamme. Non potevamo più lavare i nostri panni nelle limpide e cristalline acque del Senio. Tutto era finito. I giorni passavano e il pericolo aumentava. L’avanzata degli Alleati era lenta e noi stavamo in trepida attesa.

La visita improvvisa di un sacerdote tedesco, don Otto, conosciuto durante l’estate, mise in subbuglio gli uomini di casa, ai quali consigliò il modo migliore per salvare le nostre vite. Dopo di ciò, fu scavata dentro la stanza dei nonni, morti nel ’43, un rifugio a prova di bomba. Dentro quel rifugio, uno accanto all’altro, dormivamo in dieci. Andavamo nella cucina lì accanto per mangiare, scendendo nel rifugio dal sottoscala solo in caso di pericolo. C’erano un mastello e un secchio d’acqua e ogni tanto andavamo a darci una sciacquata alla meglio che si poteva. Mia madre un giorno decise di farsi un bagno come si deve: preparò in una stanza di servizio dietro la nostra casa, una mastella di acqua calda con un po’ di soda. Si immerse godendosi quel bagno tanto desiderato, ma un aereo sganciò una bomba per colpire una postazione tedesca. La bomba cadde a cinque metri dalla casa, facendo scoperchiare il tetto, che si rovesciò su mia madre nella mastella. Il babbo la trovò sotto le macerie, ancora a bagno, spaventata ma illesa.

Una sera venne a bussare alla nostra porta un soldato tedesco, stanco e affamato. Sedette accanto al fuoco e ci raccontò le sue vicissitudini. A un certo punto chiese a mio padre un posto per poter dormire almeno un paio d’ore. Alle dieci doveva tornare sul fronte al fiume. Diede il suo orologio a mio padre che gli offrì posto nel nostro letto. Noi saremmo andati a dormire dopo. Restammo tranquilli in cucina, di notte era difficile che sparassero. Ambrogio, così si chiamava il tedesco, se ne andrò ringraziandoci e benedicendoci. Alcuni giorni dopo, mio fratello Luciano cominciò a lamentarsi di un prurito che lo assaliva di tanto in tanto. Mia madre svestì il bambino e lo trovò infestato dai pidocchi. Ambrogio ci aveva lasciato la sua povera eredità. Mia mamma tentò invano di ripulire mio fratello ma non ci fu niente da fare. I pidocchi erano felici di aver trovato carne fresca. Dopo un paio di giorni ne eravamo infestati tutti e dieci e non ci saremmo liberati più della loro compagnia che durò ben cinque mesi, fino alla liberazione. Quando a metà dicembre fummo costretti a lasciare la nostra casa, portammo con noi, a villa Centonara, i nostri pidocchi ben contenti di rimanere con noi. Quando di notte ci stringevamo in nove (il nonno era andato a rifugiarsi con il parroco in convento, dove poi lo raggiungemmo) sui quattro letti che avevamo, tutti girati per un verso, se uno aveva bisogno di grattarsi, diventava un grattarsi corale. Luciano chiedeva alla nonna di grattarlo un po’ per alleviare il tormento. Un bambino di sette anni che non chiede giocattoli o dolciumi, ma solo una mano per grattarsi un po’, sembrava un sogno orribile ma era reale. Eravamo partiti da casa convinti di restare lontani una settimana o poco più. Siccome da Forlì a Faenza l’esercito alleato aveva impiegato una decina di giorni, pensavamo che da Faenza a Castel Bolognese ci avrebbe messo meno. Restammo lontani quattro eterni mesi.


Vorrei approfittare di questo spazio per ringraziare Andrea, infaticabile ricercatore della nostra storia, che insieme a Paolo, altro prezioso storico locale, ha pensato di coinvolgermi in questa iniziativa, permettendo a me e ai lettori di riempire un po’ le giornate in questo periodo strano con ricordi dell’altro grande momento particolare della nostra storia, momento che ha lasciato in chi l’ha vissuto, un segno indelebile tanto da ricordare ancora come fosse ieri e da interessare più generazioni successive.

Ma vorrei anche ringraziare con affetto tutti coloro che hanno letto, apprezzato e commentato i miei racconti. Ho ritrovato con piacere cari amici, conoscenti e persone che non vedevo da un po’…. da prima della nostra “clausura”. Auguri di Buona Pasqua a tutti, nella speranza di poterci rivedere e ritrovare presto insieme.

“Ogni uomo è mio fratello”

Era ormai convinzione assodata che in generale la vita degli uomini si svolgesse all’insegna del “penso solo per me”, cioè ai miei cari, al mio benessere, al soddisfare la pancia, a proteggere il mio orticello, quasi tutto il resto non mi riguarda. Quelli fuori dal mio giro, “gli altri”, si devono arrangiare e districare senza il mio intervento. È bastata la grande mazzata che di questi tempi ha colpito il mondo intero per scoprire che non era vero niente. Dietro la facciata di indifferenza e di egoismo personale stanno donne e uomini che soffrono per gli altri, che aiutano coloro che sono nel bisogno, che partecipano ai dolori e alle tragedie che purtroppo colpiscono gran parte dell’umanità. Sono così esplosi e fioriti sentimenti di altruismo, solidarietà e amore che fanno veramente onore a coloro che li condividono con altri uomini, come fossero veramente fratelli.

Anche la Seconda guerra mondiale fece fiorire e rinsaldare un profondo sentimento di amicizia, di altruismo e di comprensione nei rapporti fra gli uomini. Ricordo fatti e situazioni capitati nell’ambito della mia famiglia o delle nostre conoscenze, come quando una granata sparata da oltre il fiume aveva distrutto il forno di una famiglia di nostri vicini. Ora, in quella casa dove vivevano dieci persone, non c’era più modo di cucinare il pane e la situazione era molto critica. Fu convocato mio padre che sapeva fare anche il muratore. Accettò, perché non aveva mai negato il suo aiuto a nessuno, nonostante i pianti e le suppliche di mia madre terrorizzata dalla paura. Il pericolo era costante, dalle colline sparavano a tutto ciò che era in movimento. E infatti una sera, mentre tornava a casa, una scarica di granate cadde proprio nel suo tragitto. Mio padre si trovò lungo disteso su un mucchio di zucche: era illeso, a differenza delle zucche sotto di lui, spaccate e sbriciolate. Aveva avuto fortuna.

Un altro episodio che ricordo è legato a un poveraccio che conoscemmo poiché viveva tutto il giorno in una postazione sulla via Emilia vicino a casa nostra, segnalando il pericolo di aerei nemici in volo. Il suo pranzo era un tozzo di pane. Noi avevamo poco, ma per tutto il periodo che rimase in quel posto, una scodella di minestra ci fu anche per lui. Poi non si vide più. Tornò all’improvviso un giorno, spaventato, chiedendoci di nasconderlo per un po’, perché era in pericolo. Il gruppo del quale faceva parte stava per essere trasferito in Germania e lui, malato come era, non voleva partire. Senza pensare al rischio che avremmo corso qualora venissimo scoperti, lo nascondemmo in un rifugio in mezzo alla campagna. Ogni tanto qualcuno gli portava da mangiare. Rimase nascosto cinque giorni, dopo di che si aggregò alla nostra famiglia e rimase fino a quando il fronte si avvicinò e lui si spostò in paese, vicino ai miei zii. Si chiamava Anzini Vincenzo ed era di Chieti. Non era tornato a casa dopo l’8 settembre, aveva preferito arruolarsi nell’esercito repubblichino, dove si era ammalato gravemente. Poiché non aveva niente per cambiarsi, nel periodo che rimase da noi, con la lana delle nostre pecore tinta di verde con erbe di campagna, gli confezionammo un maglione con cui passò l’inverno.

Era il 17 dicembre 1944 e proprio il giorno prima era saltato il ponte del Castello. Soldati tedeschi in giro non se ne vedevano. Eravamo tutti in cucina aspettando gli eventi, quando qualcuno bussò alla porta. Tre soldati armati di tutto punto ma vestiti in maniera diversa dai soliti tedeschi, ci interpellarono con un “bona sera famèja”, nel nostro dialetto. Erano tre soldati italiani, forlivesi, che tentavano di tornare a casa. Nessuno li aveva fermati durante il lungo trasferimento e non sapevano che il fronte ora era sul Senio, che Faenza era già liberata, che il ponte non c’era più e che il fiume, dopo le piogge di novembre, era in piena. Chiesero abiti civili per travestirsi. Era rimasto poco, perché dopo l’8 settembre avevamo finito i vestiti degli uomini per darli ai soldati che erano tornati a casa dopo lo smembramento dell’esercito. I tre tentarono la traversata del fiume ma tornarono avviliti da noi, che li ospitammo in un rifugio per la notte. Prima di mezzanotte, il parroco venne ad avvertirci che la mattina dopo alle cinque dovevamo liberare la casa. Nella fretta e nell’angoscia della partenza, dimenticammo i tre soldati addormentati nel rifugio. Eravamo già arrivati alla nostra destinazione quando qualcuno si ricordò dei tre ragazzi. Mio padre e sua sorella, che erano i più coraggiosi e i più forti, partirono di corsa per tornare a casa a svegliarli. Se fossero stati scoperti dai Tedeschi che avrebbero occupato la nostra casa in giornata, sarebbero finiti male. Li conoscevamo appena, non avevamo legami di parentela o di amicizia, ma erano esseri umani che condividevano la nostra sfortuna.

Oggi ci sentiamo tutti sfortunati e a rischio, chi più chi meno, non sappiamo quando e come ne usciremo, temiamo che la nostra bella libertà tarderà a ritornare, ma questa precarietà ha tirato fuori qualcosa di buono. Nel pericolo e nel disagio ci sentiamo più vicini. Speriamo di conservare almeno un po’ di questi buoni sentimenti anche in futuro.

Pubblicata in 5 puntate sulla pagina facebook Storia di Castel Bolognese dal 31 marzo 2020 al 20 aprile 2020

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Il lazzaretto di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/il-lazzaretto-di-castel-bolognese/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/il-lazzaretto-di-castel-bolognese/#respond Fri, 20 Mar 2020 17:30:08 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=7631 di Paolo Grandi Al di là dei facili commenti sulla situazione attuale rispetto all’epidemia del virus COVID-19 v’è da riferire che tutte le città erano munite di luoghi isolati e sorvegliati, lontani dai centri abitati, ove ricoverarvi le persone ammorbate ed evitare ulteriori contagi. I prodromi Nella prevenzione dai contagi …

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di Paolo Grandi

Al di là dei facili commenti sulla situazione attuale rispetto all’epidemia del virus COVID-19 v’è da riferire che tutte le città erano munite di luoghi isolati e sorvegliati, lontani dai centri abitati, ove ricoverarvi le persone ammorbate ed evitare ulteriori contagi.

I prodromi

Nella prevenzione dai contagi non fece eccezione Castel Bolognese ove, tuttavia, il “lazzaretto” arriva tardi. D’altra parte non si segnalano in città eventi calamitosi gravissimi dovuti a malattie infettive epidemiche almeno fino al XIX e XX secolo, forse anche dovuti alla salubrità, sempre certificata, dell’acqua potabile, non contaminata dallo scarico dei liquami che, non dimentichiamo, non poteva avvenire tramite fognature in quanto esse mancheranno nel centro almeno fin verso la fine del XIX secolo.
Ma occorre, anche qui, partire dalla fondazione di Castel Bolognese. La Confraternita di Misericordia nacque in città verso la fine del XIV secolo, con lo scopo di reggere l’Ospedale de Castro Bolognesio o de Misericordia. Un secolo dopo, la floridezza economica della Confraternita spinse i Confratelli alla decisione di allargare l’opera dell’Ospedale anche ai malati di pestilenze o malattie contagiose, costruendo lontano dall’abitato un lazzaretto ed innalzandovi una chiesa dedicata ai santi Sebastiano e Rocco, da sempre venerati come patroni ed intercessori speciali nelle pestilenze, assai frequenti in quei tempi. Fu così costruita allo scopo, innanzitutto, la chiesa di San Sebastiano a circa 500 metri dalla Porta cittadina, in posizione isolata, ma dell’Ospedale per gli incurabili o del “lazzaretto” non si portò mai a termine la costruzione.

Il colera del 1855 in Romagna

L’epidemia scoppiata in questo anno costituisce per la nostra Regione uno degli avvenimenti più drammatici degli ultimi secoli. Documenti d’archivio, relazioni di medici, memorie di parroci portano alla luce una Romagna trascurata dai governi, ignorata dai cronisti, rifiutata dai primi fotografi, preoccupati di immortalare tutto ciò che rappresentava il decoro, lo status symbol di un benessere riservato a pochi privilegiati (1).
Quando il colera nel 1830-31 invase per la prima volta l’Europa (proveniente dall’India) non si sapeva praticamente nulla sulla sua origine; occorse attendere il 1854 perché Filippo Pacini (2) scoprisse nell’intestino delle vittime la presenza di milioni di batteri cui darà il nome di “vibrio Cholera” e solo nel 1882 il dott. Roberto Koch riuscì ad isolare e coltivare il “bacillo virgola” responsabile del morbo. Non essendo quindi conosciuto il processo di diffusione del colera, i metodi di prevenzione e di cura risultavano del tutto inconsistenti: il fantasma della peste aleggiava di nuovo tra la nostra gente. Nell’estate del 1835 il colera colpì Cesenatico, ma un efficiente cordone sanitario permise di circoscrivere e spegnere il focolaio al solo territorio di quel comune e ad alcune frazioni di quello di Cesena più vicine alla città marittima. Lo scampato pericolo venne festeggiato pubblicamente in tutta la Romagna ed anche a Castel Bolognese si organizzarono feste e cerimonie religiose con una spesa, non indifferente, di 22,46 scudi (3).
Lo spettro del colera si riaffacciò quasi vent’anni dopo: nel dicembre 1854 il morbo colpì Ravenna ed appunto per questo, l’Arciprete don Gamberini riferisce che: “essendosi manifestato il colera in Ravenna questa Magistratura ordinò un Triduo all’Immacolata Concezione in San Francesco, e perciò fu scoperta la S. Immagine la sera delli 26 dicembre, e si tenne scoperta fino alla sera delli 29 intervenendo ogni sera alle Litanie, e preci anche il Magistrato e Governatore, e Commissione di Sanità. L’ultima sera dopo le Litanie io dal Pulpito feci analogo discorso al popolo.” (4)
Ma nel febbraio 1855 “La notte dalli 23 ai 24 febbraio Francesca Dari d’anni 40 circa fu sorpresa da vomito, diarea, freddo all’estremità, spossatezza di forze con polsi piccoli, e mancanza di voce, e macchie livide al volto, ed estremità delle dita; dal che però si riebbe dopo le 24 ore lasciando nel medico dubbio di colera; il che fu confermato dai medesimi sintomi manifestati nella madre della suddetta la sera delli 27, che sempre più crebbero da cagionarle la morte la notte seguente: come pure il giorno 27 venne assalita dagli stessi sintomi una povera donna di Biancanigo detta Tavona, rimasta vittima di morte dopo 24 ore; il 1° marzo fu attaccata un’altra donna, che aveva prestati servigi all’ammalata predetta, e li 2 marzo fu attaccato il figlio della medesima, che morì la mattina dopo, e la donna servente morì la notte dalli 3 alli 4, nella qual mattina delli 4 morì pure un’infermiera, che serviva la moribonda, nella camera stessa, ove rimase attaccata dal morbo la notte dopo la morte dell’inferma senza potere essere soccorsa da alcuno. La stessa mattina delli 4 morì in compendio la giovane Francesca Guadagnino detta Fatò si dubito, attaccata dal morbo la sera antecedente: è certo però che manifestò lo stesso giorno 4 sintomi di colera una vecchia, che aveva essa pure prestati servigi alla Tavona, e trasportata al lazzaretto morì il giorno dopo 5 marzo. In questa circostanza il Magistrato ordinò che si cantassero le Litanie all’Immacolata Concezione ogni sera cominciando dal 28 febbraio, ordinò pure un triduo a San Sebastiano in questa Arcipretale cantando ogni sera le Litanie dei Santi colle preci della peste, e terminando colla benedizione del Santissimo Sacramento; e l’ultimo giorno 6 marzo feci cantare la messa votiva pro vivanda mortalitate. Allestì un piccolo lazzaretto nella camera delle croniche presso lo Spedale, e la mattina 4 marzo fui spedito in Imola per provvedere un medico, ed infermieri, come difatti venne il dott. Giulio Magistretti, e due uomini per infermieri al lazzaretto. Dopo queste provvidenze si ristabilì la calma negli animi esacerbati anche dalle false ciarle, che si seppellissero i cadaveri troppo presto, ed anco vivi, per cui poi disposi che si aspettasse 20 ore dopo la morte. Al lazzaretto fu posto per Cappellano un P. Cappuccino: alli 15 avvennero altri due casi in donne, l’una delle quali morì, e l’altra più giovane guarì.” (5)
Il focolaio non si protrasse presumibilmente oltre il mese di aprile, visto che don Gamberini riferisce che il mese di maggio e le feste di Pentecoste si celebrarono come al solito con l’afflusso di molto popolo. Tuttavia il focolaio covava ancora e scoppiò di nuovo a luglio. Così scrive don Gamberini: “Li 9 luglio vi fu nuovo caso di colera in una donna, che morì dopo le 40 ore; e fu fatto dal Magistrato un Triduo all’Immacolata Concezione i giorni 13, 14 e 15: e nell’ultimo giorno la sera fu fatta la processione colla Santa Immagine per la Via Emilia, e si andò fuori di ambedue le porte del paese. La mattina in questa Arcipretale feci esporre la Reliquia di San Petronio, e feci cantare la messa Pro Vivanda; la quale Reliquia insieme con quella di Santa Pudenziana la sera fu portata in processione con quest’ordine. Partì la processione, secondo il solito da questa Arcipretale dopo la Benedizione, colle Confraternite, e Clero, ed in fine io in piviale paonazzo portava la Reliquia di San Petronio, ed a sinistra mia un altro Sacerdote parimenti in piviale paonazzo portava quella di Santa Pudenziana. Giunti alla chiesa di San Francesco si proseguì la processione colla Santa Immagine della Concezione in mezzo alle due Reliquie, cantando le Litanie dei Santi. Si dissero le preci ai due capi della processione fuori delle porte, e poi in piazza, e si benedisse il popolo colla Santa Immagine, e quindi si tornò colle due Reliquie all’Arcipretale. Il giorno 14 luglio vi fu caso di colera in Pasqua Zappi vedova Brunetti di anni 50 circa, che portata al lazzaretto ivi morì il giorno 19:
Il giorno 27 fu attaccata di colera Orsola Gottarelli in Mingazzini d’anni 32 circa, e morì la notte dalli 28 ai 29.
Il giorno 28 presentò i sintomi colerosi Giovanni Borghesi di circa 40 anni, e la mattina fu portato al lazzaretto, ove guarì; come pure guarì un altro Zanelli Antonio in casa propria; ed un’altra donna celibe.
Il giorno 29 furono attaccate due donne Luigia Donneggiani vedova Villa, che morì in casa propria la sera delli 30 e l’altra Rosa Bornaccini vedova Morini, che morì al lazzaretto li 5 agosto.
Li 2 agosto morì di colera il 12 ore Domenico Gabrieli di S. Angelo in Vado Soldato di Linea al lazzaretto, d’anni 27.
Li 3 morì al lazzaretto Pietro Tabanelli di Antonio di Biancanigo d’anni 30 circa nubile.
Li 4 alle ore 10 ½ pomeridiane morì Don Luigi Borzatta d’anni 50 circa.
Li 6 morì Antonio Tabanelli di Biancanigo vedovo d’anni 54 circa al lazzaretto.
Li 7 morì al lazzaretto Maddalena Pirazzoli moglie di Domenico Minghetti d’anni 42 circa attaccata li 4.
Li 7 morì in casa propria Rosa Petroncini vedova Dal prato d’anni 65 circa presa da colera alle 7 circa di mattina, e morta alle 11 ½ della sera.” (6)
Finalmente lo zingaro maledetto lasciò la nostra città.
Complessivamente, riferisce il Pieri (7), nel nostro Comune, che contava 5.374 abitanti, vi furono 94 casi di colera con 54 morti: un indice di letalità del 57,44%. L’epidemia iniziò, secondo i dati citati dal Pieri, il 27 luglio e terminò l’8 ottobre. Quanto meno sull’inizio dell’epidemia, la cronaca di don Gamberini riferisce altre date. Nell’intera Romagna, il colera del 1855 mieté dodicimila morti.
Il colera si riaffacciò in Romagna nel 1865-67; in questo caso il morbo, importato probabilmente dall’Egitto, si diffuse ad Ancona per poi passare in Toscana e Lombardia; ne risultarono particolarmente colpite le regioni meridionali, mentre vi furono 4.080 vittime dell’Emilia e solo 135 in Romagna, di cui appena 7 a Castel Bolognese (8).

Il lazzaretto

Come riferisce don Gamberini, durante il colera del 1855 pare non esistesse un lazzaretto, ma si isolò parte dell’Ospedale quasi costituendo un reparto di “malattie infettive” ante litteram. O forse venne allestita un struttura provvisoria, successivamente eliminata ad epidemia conclusasi.
Il colera tornò a colpire l’Italia ancora nel 1884 e nel 1893 ma in zone circoscritte, specie del meridione o nelle grandi città.
Il 15 gennaio 1885 fu emanata la cosiddetta “legge per Napoli” che segnava un punto di svolta nella politica governativa dell’Italia unita. Essa infatti con la destinazione di cospicui finanziamenti imponeva norme igienico-sanitarie pubbliche e private che le municipalità dovevano far osservare a tutti i cittadini. Prioritario era un sistema fognario, l’edificazione di nuovi quartieri, la costruzione di nuove strade e piazze e risanare i luridi “bassi” e i tuguri. Probabilmente per dare corso ai dettati di queste norme si pensò di costruire anche a Castel Bolognese un lazzaretto che, tuttavia, vide la luce nel nuovo secolo. Solo nell’aprile del 1911 fu approvato il progetto presentato dall’ing. Marino Ferri per la costruzione del lazzaretto sito a nord-ovest dell’abitato, lungo la via Emilia (9). L’opera fu collaudata nel mese di dicembre del 1915 (ma altra fonte parla del 21 marzo 1916) (10). Tale progetto, tuttavia, prevedeva la costruzione di due fabbricati identici da destinarsi l’uno ad infermeria e l’altro ai servizi. L’amministrazione comunale, spinta dal dilagare di un’altra epidemia di colera (che tuttavia non raggiunse Castel Bolognese), per accorciare i tempi di realizzazione ordinò di costruire solo il fabbricato ad uso infermeria, acquistando una tenda da adibire ai servizi.
Fra gli anni ‘20 e ‘30, nei pressi del lazzaretto, su un terreno donato dall’avvocato Francesco Gottarelli, aveva trovato sede anche il campo sportivo “Tullio Bolognini”, poi trasferitosi in via Lughese dove è rimasto fino agli anni 2000 (11).
Con delibera del Commissario Prefettizio del 1942 il fabbricato denominato “ex-lazzaretto” e l’annesso terreno furono affittati alla GIL (Gioventù Italiana del Littorio), con la possibilità di apportare liberamente tutte le modifiche e migliorie ritenute necessarie. L’intenzione era di ricavare dall’ex lazzaretto una colonia elioterapica. I lavori rimasero inevitabilmente incompiuti e il passaggio del fronte danneggiò quello che era stato già costruito (12).

Com’era e dov’era

In mancanza di altre notizie non posso che appellarmi ai ricordi di bambino. Il lazzaretto sorgeva sulla via Emilia, verso Imola, prima dell’incrocio con la via Alberazzo, proprio di fronte al gommista Bellini. L’edificio era già fatiscente nei miei ricordi e si scorgevano alte mura che lo delimitavano dai quattro lati. Un cancello dava sulla strada consolare. Non ricordo nulla dell’interno se non vegetazione che, forse ricopriva i resti delle costruzioni. Negli anni ’70, con la rinascita industriale di Castel Bolognese, l’area fu probabilmente alienata e vi nacque un opificio, se non ricordo male la ditta “Dall’Aglio Umberto” che, secondo quanto ricordo, produceva infissi metallici. Esaurita quella attività, forse verso la fine degli anni ‘70, l’intero capannone, che affacciato sulla strada aveva anche l’abitazione del proprietario, fu acquistata dalla famiglia Sanapo, proveniente da Faenza, che adibì il capannone a deposito di Parmigiano Reggiano e formaggi, ne aprì una rivendita verso la via Emilia e continuò il commercio ambulante dei latticini e formaggi nei mercati della zona, munita di un autofurgone. Tuttora, l’area dove insisteva il lazzaretto appartiene alla famiglia Sanapo.

Un’altra epidemia da paura: la spagnola del 1918

Anche questa “influenzona” terrorizzò l’Italia che stava uscendo vincitrice, ma stremata, dalla Grande Guerra. Così scrive don Garavini nelle memorie parrocchiali:
“Verso la fine della guerra, un po’ in conseguenza delle privazioni causate dal periodo critico e forse anche importata dalle truppe combattenti di così varie nazioni, in breve si diffuse nella nostra regione un’influenza epidemica della “la Spagnola”. In molti casi era mortale; anzi i decessi avvenivano anche improvvisamente: certe persone si afflosciavano a terra e morivano in un baleno. Il morbo colpiva indistintamente tutte le età. Ne fu vittima anche una ventiduenne Figlia della Carità, addetta al servizio del nostro ospedale, morta il 16 ottobre 1918. Si chiamava suor Luisa al secolo Gentile Tramandoni. Per ordine dell’autorità sanitaria si presero subito rigorose misure profilattiche per circoscrivere l’epidemia e debellarla. Nelle chiese si dovevano spesso disinfettare il pavimento, i banchi e specialmente le grate dei confessionali con irrorazioni di creolina e lisoformio. Dopo qualche mese il morbo che in parecchi casi si mostrava anche in forma leggera, fortunatamente scomparve sollevando un po’ gli animi di tutti”. (13)
Vari soldati castellani, stremati dalle fatiche delle trincee, contrassero il morbo. Almeno due di loro, come risulta dal volume Castellani oltre il Piave, morirono: Giuseppe Morini, deceduto il 23 ottobre 1918 a Bologna, e Domenico Lanzoni, spirato il 14 novembre 1918. Più fortunato fu il futuro scrittore di successo Francesco Serantini che riuscì a guarire pur essendo stato prossimo alla morte (14).
Da due luttini conservati nell’archivio di Andrea Soglia emergono, infine, le storie drammatiche di due ragazze castellane uccise dalla “Spagnola”.
Maria Bassi, di 24 anni, morì il 30 novembre 1918 ad Imola, colpita da epidemica influenza: solo 9 giorni prima, in piena salute, si era sposata con il riolese Giovanni Sandri.
Carolina Santandrea in Sangiorgi, madre di quattro bimbi, si spense a Rimini il 26 aprile 1919 all’età di 37 anni. Da 8 mesi si era trasferita con la famigliola in una villetta sul mare. Nemmeno la salubre aria delle zone costiere poté aiutarla nella lotta contro l’influenza polmonare. La sua salma fu trasportata e tumulata a Castel Bolognese.

Memoria funebre distribuita in occasione del primo anniversario della morte di Maria Sandri. 

Memoria funebre distribuita in occasione della trigesima della morte di Carolina Santandrea. 

 

Note

(1) Così PIERI D.: Lo zingaro maledetto – Colera e società nella Romagna dell’ottocento, Bologna 1985.
(2) Medico pistoiese (Pistoia 1812 – Firenze 1883) formatosi presso la Scuola medico-chirurgica cittadina, fece studi di istologia e ricerche sulla patologia del colera; vide e disegnò per primo il vibrione, nel 1854 anche se non venne preso in considerazione dalla comunità scientifica del tempo. Lo stesso vibrione venne nuovamente descritto nel 1884 da Robert Koch come l’agente patogeno del colera. Attualmente la nomenclatura binomia del bacillo del colera è Vibrio cholerae, Pacini 1854.
Fu docente di Anatomia all’Università di Pisa dal 1844 al 1846. Dal 1847 fu professore di anatomia e istologia all’Istituto di Studi Superiori di Firenze.
(3) Archivio di Stato di Ravenna, titolo XXV, rubrica 4, busta 1359.
(4) Stato della parrocchia e sue vicende dell’arciprete Tommaso Gamberini, ms, in: Archivio Parrocchiale di San Petronio di Castel Bolognese, cartone 3, busta 5, fasc. 3 , c. 20v.
(5) Stato della parrocchia e sue vicende dell’arciprete Tommaso Gamberini, ms, in: Archivio Parrocchiale di San Petronio di Castel Bolognese, cartone 3, busta 5, fasc. 3, c. 22v.
(6) Stato della parrocchia e sue vicende dell’arciprete Tommaso Gamberini, ms, in: Archivio Parrocchiale di San Petronio di Castel Bolognese, cartone 3, busta 5, fasc. 3, c. 23r, 23v, 24r.
(7) PIERI D.: Lo zingaro maledetto – Colera e società nella Romagna dell’ottocento, Bologna 1985, pag. 158.
(8) Archivio di Stato di Ravenna, titolo XVI, rubrica 4.
(9) NONNI E.: Gli edifici raccontano in: AA.VV.: Castel Bolognese un paese che cambia, Castel Bolognese, 1985, pag. 49.
(10) NONNI E.: Gli edifici raccontano in: AA.VV.: Castel Bolognese un paese che cambia, Castel Bolognese, 1985, pag. 44.
(11) BAMBI E., Calcio castellano, Castel Bolognese, 1974
(12) Archivio storico comunale di Castel Bolognese, Deliberazioni podestarili, registro 6 (1941-1945)
(13) Stato della parrocchia e sue vicende dell’arciprete Tommaso Gamberini, ms, in: Archivio Parrocchiale di San Petronio di Castel Bolognese, cartone 3, busta 5, fasc. 4, c. 55bis r, 55bis v.
(14) NATALONI A., SOGLIA A., Castellani oltre il Piave: la memoria e il ricordo, Faenza, 2006

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L’alluvione del 1949 a Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/lalluvione-del-1949-a-castel-bolognese/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/lalluvione-del-1949-a-castel-bolognese/#comments Mon, 25 Nov 2019 23:29:23 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=7361 A Fusignano l’alluvione del 26 novembre 1949 è tristemente nota perché, a seguito della rottura dell’argine del Senio, il paese fu letteralmente sommerso e l’acqua arrivò addirittura a coprire una superficie di 2.200 ettari. Ma anche a Castel Bolognese il Senio non scherzò affatto, allagando con la sua furia 490 …

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A Fusignano l’alluvione del 26 novembre 1949 è tristemente nota perché, a seguito della rottura dell’argine del Senio, il paese fu letteralmente sommerso e l’acqua arrivò addirittura a coprire una superficie di 2.200 ettari. Ma anche a Castel Bolognese il Senio non scherzò affatto, allagando con la sua furia 490 ettari di territorio comunale. Il centro storico del paese fu sostanzialmente risparmiato ed è forse anche per questo motivo che questa alluvione è da considerarsi dimenticata, a differenza delle successive del 1959 e del 1966, che portarono l’acqua dentro alle mura di Castel Bolognese.
Nel 1949 non ci furono vittime, ma l’agricoltura fu duramente colpita, come si può arguire dalla relazione dei fatti redatta dal commissario prefettizio Oddone Sani, che abbiamo rinvenuto in Archivio storico comunale e che abbiamo trascritto. Alleghiamo l’elenco dei danneggiati (e si noti che ve ne furono da Biancanigo fino a Casanola) e un manifesto stampato dal Comitato provinciale di solidarietà e soccorso alle popolazioni colpite dall’alluvione.
Dell’evento esistono alcune immagini filmate all’interno del notiziario “La settimana Incom” che mostrano la via Emilia allagata alle porte di Castel Bolognese.
Fotografie “certe” dell’alluvione del 26 novembre 1949 non ne abbiamo rinvenute. Marco Sangiorgi (che ringraziamo sentitamente) ci ha messo a disposizione alcune immagini che ritraggono un’importante piena del Senio e alcuni allagamenti. Ci sentiamo di escludere che siano relative agli eventi del 1959 o del 1966, delle quali abbiamo già varie fotografie, e quindi le possiamo attribuire all’alluvione del 1949 o ad eventi di poco antecedenti. Nelle foto sono presenti anche alcune persone: con la pubblicazione speriamo che qualcuno riconosca anche solo una di queste persone, aiutandoci così a datare le immagini con assoluta certezza. (A.S.)

La via Emilia allagata alle porte di Castel Bolognese (da La Settimana Incom). Scorrere la pagina per vedere il filmato tratto da Youtube.

Alluvione del 26 novembre 1949

Relazione

In dipendenza delle abbondanti pioggie dei giorni precedenti, verso le ore 6 del giorno 26 novembre 1949 mi giungevano le prime segnalazioni che il corso del fiume Senio si era fatto notevolmente minaccioso, tenendo in allarme per tutta la notte gli abitanti delle zone già fortemente colpite dalle tre alluvioni dello scorso inverno.
Premetto che il fiume Senio corre in questo Comune per uno sviluppo di circa km. 14 delimitando nella sua lunghezza i confini fra questo ed il Comune di Faenza.
Inviato nei luoghi di maggior pericolo il segretario comunale ed il tecnico comunale, venivo informato che circa alle ore 8 del giorno stesso il volume e l’impeto delle acque avevano già provocato la rottura degli argini in più punti del territorio di questo Comune, inondando i terreni circostanti.
Fra le ore 9 e le 9,30 le acque del fiume rimanevano stazionarie tendendo anzi ad una leggera decrescenza e si pensò che l’alluvione potesse essere contenuta in modesti limiti. Invece per il ripetersi delle pioggie, verso le ore 10,15, le acque riprendevano decisamente a crescere e rotti e superati gli ultimi ostacoli naturali, irrompevano con paurosa violenza in altre vastissime zone, allagando terreni produttivi e case coloniche, dando origine a tanti torrentelli attraverso i quali era diventato pericoloso avventurarsi, e congiungendosi in vari punti col canale dei molini.
Alle ore 11 le acque superavano la via Emilia, interrompendo il traffico, per raggiungere rapidamente la ferrovia Bologna-Ancona e per ammassarsi poi in un vasto avvallamento di terreno comprendente territorio di questo Comune e quello del limitrofo Comune di Solarolo, lavorato a coltura intensiva.
Numerose case rurali ed urbane rimanevano allagate, costringendo gli abitanti a ritirarsi ai piani superiori, senza riuscire a porre in salvo molte masserizie.
Il bestiame grosso invece era stato sgombrato sin dalla notte.
Oltre all’interruzione del traffico sulla via Emilia, rimanevano interrotte ben undici strade comunali, nonché la linea ferroviaria Bologna-Ancona i cui treni dovevano essere deviati da e per Faenza, via Lugo.
Verso le ore 15 del giorno 26 le acque del fiume raggiungevano la punta più alta.
A mezzo di volontari feci di tutto per assicurare il servizio di collegamento fra il centro abitato e le zone allagate e provvidi a richiedere l’intervento dei pompieri della Sezione di Faenza per mettere in salvo una famiglia che, ricoverata al piano superiore di una casa colonica allagata si temeva molto per la sua incolumità, e per offrire aiuto ovunque si presentasse la necessità.
Verso le ore 16 la pioggia cessava di cadere e sulle 17 circa si constatava una lenta decrescenza delle acque.
Continuando tale decrescenza, verso le ore 24 veniva ripreso il traffico sulla via Emilia.
Nel mattino del giorno successivo 27 novembre 1949 le acque, accentuando sempre più la loro diminuzione, avevano ripreso il corso normale del fiume, lasciando nelle zone allagate uno stato di penoso squallore.
Ovunque era arrivata l’alluvione erano rimasti ciottoli, ghiaia, sabbia, melma, con gravissimi danni alle opere pubbliche e alle proprietà private.
Cinque strade comunali per gravi danni ai ponti e al fondo stradale rimanevano del tutto interrotte, mentre per il pronto intervento dell’Amministrazione ferroviaria nel mattino stesso del giorno 27, poteva essere regolarmente ripresa la circolazione dei treni sulla linea ferroviaria Bologna-Ancona nel tratto Castelbolognese-Faenza.
I danni prodotti dall’alluvione e rilevati a cura del dipendente Ufficio Tecnico Comunale si possono così riassumere:

-Superficie allagata nel Comune di Castebolognese Ha. 490
-Danni alle opere pubbliche (strade ponti etc.) £ 11.000.000
-Danni alla proprietà fondiaria privata £ 8.000.000
-Danni alle colture £ 9.000.000
-Danni alle scorte morte £ 4.000.000
-Perdita di bestiame (non si lamentano perdite di bestiame grosso) £ 400.000
-Danni ai fabbricati (1 casa gravemente lesionata ed altre
leggermente danneggiate comprese opere di difesa) £ 1.750.000
-Danni alla mobilia, suppellettili e biancheria abitazioni £ 700.000
Totale £ 34.850.000

In data 5 corrente mese sono stati iniziati a cura dell’Ufficio del Genio Civile di Ravenna i lavori di ripristino delle strade comunali danneggiate dall’alluvione.
Per le gravi contingenze nelle quali la popolazione di questo Comune si è trovata per la quarta volta nel giro di un anno in dipendenza di altrettante alluvioni del fiume Senio, mi permetto di segnalare l’opportunità e la necessità dei seguenti provvedimenti:
1) Concessione di sgravi di tributi erariali ed eventualmente di sussidi a favore della proprietà fondiaria e delle famiglie gravemente danneggiati dall’alluvione;
2) Indipendentemente dai lavori già progettati per la arginatura del fiume Senio dalla via Emilia alla Borgata di Biancanigo di questo Comune, chiedere al Ministero competente lo studio per la sollecita attuazione di opere adatte a frenare e a regolare l’impeto delle acque del fiume Senio;
3) Iniziare immediati studi per portare il ponte sul fiume Senio sulla via Emilia in località Ponte del Castello, ricostruito nel dopoguerra, per luci e portata, alla capienza del ponte preesistente;
4) Disporre che anche il tratto di corso del fiume Senio che a monte della via Emilia sale fino ai confini del Comune di Riolo Bagni sia posto sotto il controllo e la vigilanza dell’Ufficio del Genio Civile e di un qualche Consorzio Idraulico o di Bonifica allo scopo di evitare che le rive e gli argini del fiume stesso siano lasciati in completo abbandono.

Castelbolognese, lì 9 dicembre 1949

Il Commissario Prefettizio
[Oddone Sani]

Filmato “La Settimana Incom 00372” del 2 dicembre 1949



Immagini di una piena del Senio e di un’alluvione a Castel Bolognese, attribuibili a quella del 1949

(Archivio Marco Sangiorgi)

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L’alluvione del 1959 a Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/lalluvione-del-1959-castel-bolognese/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/lalluvione-del-1959-castel-bolognese/#respond Mon, 23 Jan 2017 21:52:16 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=5676 E’ un evento forse meno famoso e disastroso dell’alluvione che seguirà nel 1966 (concomitante a quella di Firenze), ma anche l’alluvione del 5 dicembre 1959 per Castel Bolognese fu parecchio dannosa. Oltre ai guai causati in paese descritti nella cronaca parrocchiale di don Antonio Garavini qui di seguito pubblicata, l’esondazione …

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Via Garavini allagata

Via Garavini allagata

E’ un evento forse meno famoso e disastroso dell’alluvione che seguirà nel 1966 (concomitante a quella di Firenze), ma anche l’alluvione del 5 dicembre 1959 per Castel Bolognese fu parecchio dannosa. Oltre ai guai causati in paese descritti nella cronaca parrocchiale di don Antonio Garavini qui di seguito pubblicata, l’esondazione del Senio provocò anche l’interruzione della via Emilia e della linea ferroviaria Bologna-Ancona. Vari allagamenti si registrarono anche nel territorio del comune di Riolo Terme.
Non ci furono vittime, ma si sfiorò comunque il dramma: il Corriere della Sera del 6 dicembre 1959 riporta infatti la notizia che “a Castel Bolognese un barcone dei vigili del fuoco che tentava di raggiungere alcune persone rimaste in una casa isolata, preso dal vortice della corrente”, si era “rovesciato e quattro vigili del fuoco hanno potuto salvarsi a stento con gomene gettate dalle rive”.
Le piogge prolungate ingrossarono a dismisura, oltre al Senio, anche il Santerno, che causò danni molto gravi nella zona lughese: il fiume ruppe gli argini in due punti allagando un’area molto vasta, compreso il centro storico di Massa Lombarda dove l’acqua in alcuni punti raggiunse l’altezza di 1 metro.
(note a cura di Andrea Soglia ; fonte: Corriere della Sera del 6 dicembre 1959)

alluvione_1959_corriere


5 DICEMBRE 1959
STRARIPAMENTO DEL SENIO
E GRAVE ALLUVIONE FINO AL CENTRO DEL PAESE

Proprio verso la fine dell’anno, mentre avevamo detto più sopra che in questo frattempo non erano successi fatti di particolare rilievo, e precisamente la sera del 5 dicembre, la acque del Senio dopo 5 o 6 giorni di abbondanti piogge sono straripate invadendo in parecchi punti le campagne delle parrocchie di Biancanigo e della Pace e incanalandosi paurosamente verso il paese.  Il fenomeno è stato così improvviso e inaspettato che non si è neppure potuto prevenire con qualche riparo provvisorio.  Sulle ore 21 della sera suddetta, le acque che avevano già raggiunto la circonvallazione a sud del paese sono entrate nell’abitato dalla Via Garavini, prima pian piano, poi investendolo sempre con maggiore violenza fino a lambire le case e a propagarsi nelle vie secondarie.  Invano si è tentato di arginarle con piccoli sbarramenti ai margini delle porte e delle finestre degli scantinati.
L’irruenza e l’intensità della corrente ha superato tutto e l’acqua si è riversata paurosamente non solo nei sotterranei ma anche nei piani terreni delle abitazioni raggiungendo in breve un’altezza che faceva temere una vera catastrofe.  La via Garavini si è trasformata in un vero lago e lo stesso corpo della chiesa Arcipretale che si eleva di parecchi gradini sul livello della strada, nonostante le doppie e robuste porte che ne chiudono gli accessi era allagata completamente per parecchi centimetri di altezza.
Fortuna che la corrente elettrica ha continuato a funzionare e così sotto la luce delle lampade l’opera coraggiosa e indefessa delle autorità, dei militi, dei vigili e di molte persone volenterose ha potuto svolgersi meno difficilmente per circoscrivere il più possibile i danni e per assistere i poveri colpiti.
Finalmente, grazie a Dio, sulle ore 4 del 6, domenica, l’acqua ha cominciato a decrescere e un po’ alla volta si è scoperto completamente il livello stradale.  Per facilitare il deflusso delle acque si erano anche divelti i chiusini delle nuove fognature.  A memoria d’uomo non era mai successo un fatto uguale.
Sul far del mattino si sono potute spalancare le tre porte principali della chiesa e a forza di scopa (!) versarne fuori l’acqua per permettere l’accesso ai fedeli onde soddisfare il precetto festivo.  Però durante tutta la giornata sul piano della chiesa c’è rimasto uno strato limaccioso che dava al luogo sacro un aspetto desolante.  Parecchie abitazioni sono rimaste lesionate e pericolanti, ma la più danneggiata è stata la canonica parrocchiale.  Ivi alcuni muri maestri hanno riportato gravissime fenditure e dopo averla puntellata alla meglio nei primi istanti si è dovuto procedere immediatamente ai lavori di ricostruzione per evitare il crollo di una parte dell’edificio.
In campagna poi i danni sono stati rilevanti, non solo alle colture ma anche alle abitazioni tantoché una ventina di famiglie temporaneamente sono rimaste senza tetto.  Nella giornata del 6 e 7 mediante l’opera faticosa e disinteressata di squadre di campagnoli volontari, che hanno prestato pure i loro mezzi meccanici si è proceduto allo svuotamento di tutti gli ambienti allagati  È stata una vera gara di altruismo e di solidarietà ammirevoli; ancora una volta si è avverato il detto: “Uno per tutti, tutti per uno”.
Altre alluvioni sono seguite, una delle quali alla vigilia di Natale che hanno allagato oltre parecchi campi, la Via Emilia, specialmente nel tratto da Santa Maria della Pace fino al Ponte del Castello rendendola impraticabile, ma fortunatamente non hanno raggiunto la gravità della prima, e il centro dell’abitato ne è rimasto immune.  Però non si sono lamentate vittime, e perciò è da ringraziare il Signore e pregarlo che ci preservi in avvenire da simili flagelli“.

Testo tratto da: Stato della Parrocchia e sue vicende manoscritto di don. T Gamberini e don A. Garavini
Trascrizione a cura di Paolo Grandi

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L’alluvione del 1966 a Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/lalluvione-del-1966-a-castel-bolognese/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/lalluvione-del-1966-a-castel-bolognese/#comments Tue, 01 Nov 2016 17:07:14 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=5600 Se dell’alluvione di Firenze, di cui ricorre il cinquantesimo anniversario, tutti avranno sentito parlare, molti fra i più giovani ignoreranno che tra i giorni 3 e 4 novembre 1966 in realtà ci furono tante alluvioni, una quelle quali colpì direttamente Castel Bolognese. Quell’autunno vide piogge persistenti su diverse aree italiane, …

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Via Garavini

Via Garavini

Se dell’alluvione di Firenze, di cui ricorre il cinquantesimo anniversario, tutti avranno sentito parlare, molti fra i più giovani ignoreranno che tra i giorni 3 e 4 novembre 1966 in realtà ci furono tante alluvioni, una quelle quali colpì direttamente Castel Bolognese.
Quell’autunno vide piogge persistenti su diverse aree italiane, e l’apice fu raggiunto proprio fra quei due giorni. Riassumiamo brevemente, grazie al sito polaris.irpi.cnr.it quanto avvenne in tutta Italia:
Le regioni più colpite furono quelle del Nord-Est (Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia) e del Centro (Toscana, e più limitatamente Emilia-Romagna e Umbria), dove avvennero estese inondazioni e numerose frane. Nelle regioni settentrionali i morti furono 87, in 9 province (6 a Bolzano, 26 a Trento, 26 a Belluno, 2 a Treviso, 3 a Venezia, 5 a Vicenza, 14 a Udine, 4 a Pordenone e 1 a Brescia). Gli sfollati furono oltre 42.000, di cui 25.800 in Veneto, 15.800 in Friuli-Venezia Giulia, 800 in Emilia-Romagna e oltre 400 in Trentino-Alto Adige. In Pianura Padana e nella Pianura Veneta furono inondati almeno 137 kmq di territorio, e furono riportati danni in almeno 209 Comuni. Solo in Provincia di Belluno furono danneggiati o distrutti 4300 edifici, 528 ponti e 1.346 strade. A Venezia, il 4 novembre 1966 l’acqua alta raggiunse il livello di 194 cm, ad oggi mai più eguagliato. I danni più rilevanti si ebbero tuttavia in Toscana, dove il fiume Ombrone inondò il Grossetano causando migliaia di sfollati. Nel bacino del fiume Arno, in sole 24 ore, diversi pluviometri registrarono valori vicini o superiori ai 200mm di pioggia, di norma corrispondenti alla media di tutto il mese di novembre. Numerosi corsi d’acqua andarono in piena o esondarono, la viabilità venne in più punti interrotta da frane. Nella regione si contarono 47 morti, centinaia di feriti e 46.000 tra sfollati e senzatetto. A Firenze la piena dell’Arno arrivò la mattina del 4 novembre. Le acque superarono le spallette dei lungarni e sommersero i quartieri storici, raggiungendo in alcuni punti i 5 metri di altezza e formando un lago di circa 40 kmq di superficie. In città i morti furono 17, altrettanti quelli nelle zone limitrofe. I danni materiali furono gravissimi: alla fine risultarono distrutti o danneggiati 9.752 negozi, 8.548 botteghe, 248 alberghi, 600 insediamenti produttivi, 13.943 abitazioni, migliaia di automobili. L’evento lasciò disoccupate oltre 30.000 persone. Il bilancio dei danni fù aggravato dalla perdita del patrimonio artistico e culturale” […] “Il costo dei danni causati dagli eventi alluvionali del novembre 1966 (i quali provocarono complessivamente oltre 130 morti, quasi 400 feriti e almeno 78.000 tra sfollati e senzatetto) venne stimato in circa 1000 miliardi di Lire, dei quali poco meno della metà (400 miliardi di Lire) imputabili all’inondazione dell’Arno a Firenze“.
Cinquant’anni fa, a Castel Bolognese, il Senio ruppe gli argini ed esondò in più punti allagando le campagne e il centro storico, complice anche il fatto che il Ponte del Castello, allora più basso dell’attuale, fece da diga impedendo il normale deflusso delle acque. Non ci furono vittime, ma danni molti significativi. In questa pagina abbiamo raccolto alcuni articoli e fotografie, provenienti da un archivio privato che sta per essere donato al Comune, che mostrano e descrivono quanto avvenne nell’immediatezza dell’alluvione e anche nell’anno successivo, quando il nostro Comune dovette lottare e non poco per poter ottenere la realizzazione di tutti i lavori fondamentali per mettere in sicurezza il territorio. Contiamo di migliorare la qualità delle riproduzioni fotografiche una volta che gli originali saranno depositati in biblioteca comunale.
Quanto avvenne sia di monito a non sottovalutare le potenzialità dannose del Senio e a non abbassare la guardia per quel che riguarda la prevenzione.
Alla cronaca dell’epoca facciamo seguire le testimonianze di chi cinquant’anni fa c’era. Iniziamo da quella di Paolo Grandi, pubblicata subito dopo le trascrizioni degli articoli di giornale, e invitiamo chiunque, sulla pagina facebook o in calce a questa pagina, a raccontare quanto gli successe o quanto vide e sentì.
(a cura di Andrea Soglia)


 

Il centro di Castel Bolognese invaso dalle acque

L’eccezionale piena del fiume Senio dopo aver travolto in alcuni punti gli argini, allagato molti poderi e case nelle parrocchie di Biancanigo e Pace, ha raggiunto anche il centro abitato di Castel Bolognese. Le acque limacciose oltre a molte abitazioni di viale Roma hanno invaso tutto il paese e particolarmente le vie dei Mille, via Molini, via Santa Croce, via Parini, via Matteotti, via Bragaldi, via Garavini, via Antolini, piazza Fanti, la principale piazza Bernardi dove ha sede la residenza municipale, via Costa, la via Emilia, Corso Garibaldi, via Rondanini e altre minori. Le acque hanno raggiunto una altezza massima di circa ottanta centimetri di fronte alla chiesa arcipretale di S. Petronio, in quantità minore nelle altre strade.
Problematica quindi la circolazione e molto disagio per gli abitanti di dette vie che si sono visti i piani terreni delle loro case e le sottostanti cantine invase dalle acque.
Per il salvataggio di alcune famiglie abitanti sulla strada di Biancanigo in località Vaschia sono intervenuti i vigili del fuoco di Faenza con mezzi anfibi mentre l’autolettiga della Crocerossa italiana provvedeva a trasportare all’ospedale donne e vecchi dalle case allagate fino al primo piano. Sono stati pure posti in salvo i capi di bestiame bovino e suino e pennuti.
La furia della piena ha raggiunto anche la ferrovia Castel Bolognese-Faenza così che alcuni treni provenienti da Bologna e diretti a Rimini sono stati instradati per via Lugo-Ravenna-Rimini. La statale Emilia chiusa al traffico fino alle 3 della notte e gli automezzi di ogni genere sono stati instradati per Solarolo e di qui per le altre località.
In località Pace, frazione sul Senio, le acque non riescono a passare sotto le arcate del ponte. L’idrometro ha raggiunto i metri 7,10, livello mai verificatosi a memoria d’uomo. Il sindaco, coadiuvato dai dirigenti l’ufficio tecnico comunale e da tutto il personale salariato, si è recato in ogni località per portare soccorso alle popolazioni colpite provvedendo con sacchi di terra a proteggere le case prossime ad essere raggiunte dalla furia delle acque. Agenti della Polstrada e Carabinieri hanno continuamente disciplinato il traffico. Non è stato possibile per ora fare una valutazione dei danni che purtroppo si prevedono ingenti“.
(da un articolo dell’epoca, presumibilmente tratto da Il Resto del Carlino)

Le cantine evacuate dall’acqua con motopompe

Dopo il deflusso delle acque dalla piena del Senio, ultimato alla mezzanotte circa di venerdì, il centro abitato di Castel Bolognese è tornato al suo aspetto pressoché normale. Nella giornata di sabato, con diciassette motopompe, è stato provveduto a svuotare tutti gli scantinati e gli edifici pubblici e privati, con grande sollievo di quanti avevano le loro cantine completamente invase. L’attrezzatura di questa operazione è stata fornita spontaneamente da tutte le aziende enologiche di Castel Bolognese, da privati cittadini e dai vigili del fuoco di Faenza. Le suddette ditte enologiche hanno anche messo a disposizione del Comune tutto il loro personale. Questo fatto meritorio è stato molto apprezzato dalla cittadinanza.
Vi sono rimaste ancora poche località della periferia, presso le quali si interverrà tempestivamente non appena sarà ultimato il deflusso totale delle acque. Alle famiglie evacuate è stata prestata quell’assistenza che i singoli casi reclamavano. E’ stato provveduto a ripristinare il traffico sulle strade comunali danneggiate dalla furia delle acque. I danni subiti dai beni di proprietà comunale si aggirano sui trenta milioni. Non ancora valutabili i gravissimi danni sofferti da privati cittadini e in maggior parte dall’agricoltura del nostro territorio. Si ha fiducia nell’intervento della superiore autorità, che possa alleviare almeno in parte il danno sofferto da Castel Bolognese in questa triste circostanza.
A questa opera di assistenza morale e materiale ai danneggiati dall’alluvione, si sono attivamente prodigati, oltre al Sindaco gli assessori e tutti i consiglieri comunali, i funzionari dell’Ufficio Tecnico e d’igiene sanitaria, coadiuvati ininterrottamente da tutto il personale dipendente e da una squadra di operai di un’impresa che sta eseguendo lavori nel nostro Comune. Questa sera è stato diramato un comunicato dall’Ufficio d’Igiene del Comune col quale si invita tutta la cittadinanza a fare bollire l’acqua dei pozzi privati, prima di berla“.
(da un articolo dell’epoca, presumibilmente tratto da Il Resto del Carlino)


 

Le richieste di Castel Bolognese per i danni dell’alluvione

Il Consiglio Comunale di Castel Bolognese di fronte all’alluvione che ha colpito notevole parte dell’Italia, fra cui buona parte del territorio e del centro abitato del nostro Comune, causando immani sciagure e arrecando gravissimi colpi all’economia nazionale; di fronte al fatto che questa nuova alluvione avviene nel nostro Comune a seguito di altre, ultima quella del 1959 e che ha fatto di nuovo emergere l’assenza di adeguate ed organiche misure di sistemazione del fiume Senio, mentre esprime il suo ringraziamento a tutti coloro che si sono prodigati con ogni mezzo nell’opera di soccorso, e la sua solidarietà alla cittadinanza colpita dalla nuova alluvione; chiede: 1) Ripristino dell’arginatura del Senio; 2) Contributi ai fini produttivi alle aziende agricole colpite dalla alluvione; 3) Contributi per ripristino ed opere di consolidamento dei fabbricati privati e costruzione case di civile abitazione; 4) Opere di consolidamento e riparazione edifici scolastici; 5) Ripristino manufatti al Canale dei Molini; 6) Indennizzi ai privati per danni subiti alle masserizie e altre cose mobili; 7) Sistemare adeguatamente il Ponte del Castello per un maggior deflusso delle acque.
Invita nello stesso tempo le autorità competenti ad intervenire concretamente, superando vecchi conflitti di competenze, per attuare un piano generale atto a garantire la sicurezza dell’intera vallata e quindi del territorio comunale; Impegna l’Amministrazione Comunale a fare ogni sforzo onde giungere alla soluzione di tutti i succitati problemi“.
(da un articolo dell’epoca, presumibilmente tratto da Il Resto del Carlino)

Per l’opposizione di un privato
Incompiuti a Castel Bolognese gli argini a difesa dal Senio
Il sindaco denuncia l’allarmante situazione – Chiesti immediati provvedimenti

A Castel Bolognese i lavori per l’attuazione delle misure di sicurezza contro le possibilità di una nuova alluvione sono fermi perché si stanno anteponendo gli interessi di un privato a quelli di un’intera popolazione. Ecco la denuncia fatta dal sindaco di Castel Bolognese, il d.c. Nicodemo Montanari, nel corso di un’affollata assemblea alla cittadinanza.
Me ecco i fatti: Castel Bolognese, seimilacinquecento abitanti, due alluvioni disastrose in sette anni e la possibilità che l’evento possa ripetersi appena piove più che un po’. Il torrente è il Senio, un corso d’acqua che ha fatto tremare spesso le popolazioni rivierasche. L’anno scorso allagò, oltre Castel Bolognese, le campagne di altri due comuni.
Dopo l’alluvione del 1966 i cittadini di Castel Bolognese dicevano che era ora di farla finita con l’andazzo e ottenere, diversamente dal passato, che le richieste fossero tenute in considerazione. Si fecero delegazioni ai vari provveditori dell’ispettorato e ai ministri per ottenere progetti e finanziamenti, e qualcosa si ottenne.
La situazione era ed è tuttora insostenibile. Il fiume è intasato e scende più terra che acqua a causa delle disastrose condizioni della montagna per la mancanza di opere di protezione, e le acque scendono a valle a precipizio, trasportando tutto con esse.
Le richieste dei cittadini sono comunque riuscite a far muovere i due ministeri incaricati, quello dei lavori pubblici per il tratto della valle della vie Emilia, quello dell’agricoltura per il tratto a monte. Attualmente però, nonostante che si sia arrivati in piena stagione di piena, il torrente è pressoché nelle condizioni di un anno fa in quanto i mesi estivi sono passati senza che niente si facesse e solo ora si è nella fase di appalto per il tratto della valle della via Emilia.
A monte qualcosa si era iniziato a fare: rialzo degli argini e progetti per una linea di difesa del centro abitato della campagna circostante, che prevede un argine lungo una via consorziale.
Il progetto è stato approvato da tutti gli organi preposti, senonché ecco il colpo di scena: l’opposizione di un privato (l’ingegner Rossi), proprietario del terreno adiacente la strada consorziale, ferma tutto. E ciò nonostante che per tale tipo di progettazione non sia prevista l’esposizione al pubblico e alcuna possibilità di opposizione formale. Ciononostante tutto è stato fermato da tempo inspiegabilmente e i lavori, pure urgenti e indispensabili per la salvezza del paese e dei suoi abitanti, non possono andare avanti.
Questi i dati sconcertanti della situazione esposta dal sindaco di Castel Bolognese nell’assemblea cittadina, che ha avuto luogo l’altra sera nella sala consiliare del municipio.
Al termine dell’assemblea – nella quale si è denunciato come non si proceda all’attuazione di opere di importanza fondamentale, come, ad esempio, la demolizione del ponte sulla via Emilia (che è talmente basso da ostruire in modo grave il corso del torrente Senio) sostituendolo con uno nuovo – è stato posto in votazione un ordine del giorno, approvato da tutti i presenti“.
[…]
(da L’Unità del 22 novembre 1967)


L’ALLUVIONE DEL 1966 – RICORDI

di Paolo Grandi

4 novembre 1966: dopo pochi giorni avrei compiuto 8 anni e frequentavo la terza elementare.  Da quasi un mese il babbo era a letto per i postumi di una tromboflebite e pioveva già da alcuni giorni.  Il Senio ed il Canale dei Mulini erano sorvegliati speciali da qualche tempo perché le acque si erano ingrossate e gli argini erano a rischio.  In particolare si parlava dell’argine del Boccaccio, di fronte alla casa della famiglia Montanari, debole perché molto sottile per permettere il passaggio della strada.  E fu proprio lì che il Senio ruppe l’argine.  La traccia si vede tuttora nella vecchia casa dei Montanari che rimase sepolta dalla terra e dalle acque gonfie di fango.  Dal Boccaccio al centro di Castel Bolognese l’acqua corse in fretta anche se prima riempì le cosiddette “vasche”.  Si trattava di scavi nel terreno che si trovavano nell’area oggi occupata da case (allora era piena campagna) tra le vie Biancanigo, Grandi, De Gasperi e Marzari con un’altra depressione tra via De Gasperi Luther King e Giovanni XXIII.  Oggi quelle depressioni sono state utilizzate per ricavarvi i garage dei condomini costruiti a fine anni ’70.  Secondo quanto riferitomi da mio padre, si trattava di scavi per togliere la terra necessaria alla fornace.
Su via Biancanigo il Canale dei Mulini correva scoperto ed arginato e quindi anche in quel corso d’acqua si riversò quella del Senio in piena.  Il Canale creò due punti critici: il Mulino Giovannini sulla via Emilia che si trovò invaso dall’acqua ed il Mulino Badiali in Via Santa Croce.  Ricordo che mio fratello aveva un amico che abitava vicino al mulino e faceva la spola in bicicletta tra casa sua e casa nostra riferendo al babbo, finché anche il Mulino di Badiali andò sott’acqua per effetto non solo di quella esondata dal canale, ma anche perché a fianco del Canale dei Mulini, nell’ultimo tratto corre il Rio Via Cupa che, tombinato da San Sebastiano fino al Canale dei Mulini, aveva raccolto parte dell’acqua del Senio che aveva invaso il Borgo.
Finché l’acqua del Senio arrivò anche in Viale Cairoli.  Ricordo che il viale, in discesa dal centro verso la Stazione, si trasformò in un fiume; l’acqua non era molto alta, al massimo dieci, venti centimetri, ma la pendenza gli aveva dato una certa velocità.  Casa nostra non fu invasa e l’acqua si limitò a raggiungere la recinzione, ma poiché la stazione ferroviaria è più alta del viale Cairoli di almeno un metro, l’ondata piegò su via Santa Croce ed anche quest’acqua andò a riversarsi nella depressione del Mulino di Badiali.
Intanto anche la RAI era giunta a Castel Bolognese per realizzare un servizio ed al telegiornale delle 20 sul “canale Nazionale” (cioè il primo canale) fecero vedere Piazza Bernardi invasa dalle acque del Senio ed una persona di mia conoscenza camminava in mezzo a quell’acqua limacciosa! Era mia zia Virginia, forse diretta in Farmacia.
I danni furono notevoli, si allagò la chiesa di San Petronio, il Comune, il Monastero delle Domenicane, l’Ospedale, le Scuole Elementari.  Nelle elementari Bassi (le Ginnasi non esistevano) viveva, al piano seminterrato, il bidello e custode Mazzolani che ebbe la casa completamente allagata.  Le Scuole Medie invece erano ai piani superiori della Casa del Fascio o Palazzo Pretorio, dove oggi c’è la Banca UNICREDIT e quindi si salvarono, ma non così fu per le attività poste al piano terra.  Anche l’Ufficio Postale, che era in Via Garavini dove oggi c’è l’agenzia UNIPOL, andò a mollo.  Non furono allagate la chiesa di San Francesco, l’Orfanotrofio Ginnasi salvo un po’ d’acqua nelle cantine, e la caserma dei Carabinieri posta a metà di Viale Cairoli.
In seguito all’alluvione si seccò il pozzo della cosiddetta “Piazzetta del Pozzo” dietro San Petronio e la bella maschera con testa leonina posta nel muro della chiesa smise da allora di dare acqua.
Un altro segno visibile dell’alluvione fu quello dei proprietari di case nel centro che cinsero di muri alti ameno un metro le grate delle cantine per evitare ulteriori allagamenti.  I portici di Castello sembravano trasformati in bunker; alcuni addirittura fecero muri simili anche davanti alle porte con la conseguenza di doverli scavalcare per entrare in casa!  D’altra parte quella del 1966 era la seconda alluvione nel giro di appena sei o sette anni e i Castellani temevano altre inondazioni.  Poi col passare degli anni i muri piano piano sparirono ed i portici ritornarono alla loro normalità.  Non sparì invece il muretto che il proprietario del Palazzo Barbieri-Cani di Via Garavini aveva alzato davanti al portone di Via Garavini, tradizionalmente sempre chiuso e che è sopravvissuto fino al restauro del palazzo!
Altro segno tuttora visibile dell’alluvione è il grande argine realizzato con gabbie di sassi e cemento nel punto in cui vi fu la rotta in Via Boccaccio.



Si ringrazia Marco Sangiorgi per la cortese collaborazione

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Il “fiumanone” del 1842 a Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/il-fiumanone-del-1842-a-castel-bolognese/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/il-fiumanone-del-1842-a-castel-bolognese/#respond Sat, 23 Jul 2016 20:55:12 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=5508 di Andrea Soglia Se a Faenza l’alluvione del 13-14 settembre 1842 è passata alla storia per il crollo dello storico ponte delle due torri, i suoi effetti a Castel Bolognese oggi sono totalmente sconosciuti a tutti e sfuggiti o quasi ai libri di storia locale finora pubblicati. Il fortunoso ritrovamento …

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di Andrea Soglia

Se a Faenza l’alluvione del 13-14 settembre 1842 è passata alla storia per il crollo dello storico ponte delle due torri, i suoi effetti a Castel Bolognese oggi sono totalmente sconosciuti a tutti e sfuggiti o quasi ai libri di storia locale finora pubblicati. Il fortunoso ritrovamento di un documento dell’epoca ci consente di conoscere in modo dettagliato quanto di grave accadde anche a Castel Bolognese durante quello che fu definito il “fiumanone” del 1842, 60 ore di pioggia ininterrotta iniziata il giorno 11 settembre: come in tutta la Romagna, anche nel nostro territorio comunale ci furono vittime e danni ingentissimi, soprattutto nella parte più a monte al confine con la parrocchia di Tebano in prossimità del fiume Senio.
Nella seconda parte dell'”Annuario storico universale compilato da Enrico Montazio” per il 1842 è pubblicata una “Cronaca, ossia avvenimenti notevoli accaduti nell’anno 1842, raccolti mese per mese” che dà ampio spazio al “fiumanone” nello Stato Pontificio e cita anche Castel Bolognese. Ne riportiamo alcuni tratti per dare idea di quanto di grave avvenne in tutta la Romagna.

Settembre 14. Stato Pontificio. — Piogge ed inondazioni. — Le dirotte piogge che dal giorno 11 al 14 del corrente mese imperversarono in tutta l’Emilia, posero in estrema costernazione gli abitanti delle quattro legazioni. I guasti immensi e i danni incalcolabili di queste calamità superano di gran lunga quanto è a memoria dei viventi. Le memorande inondazioni del 1839, afflissero molto territorio e tennero in lunga apprensione gli abitanti della parte bassa di queste contrade. Ma quella invasione d’acque era preveduta; questa non potrebbe paragonarsi che al precipizio inaspettato di una pioggia caduta a diluvio e che, dall’alto degli Appennini irrompendo seco trascinava derrate, bestiami, alberi, case, ponti, formando poscia immensi allagamenti nel piano.
In generale può dirsi che tutti i fiumi, torrenti, e canali delle legazioni hanno straripato o rotti i ripari, inondando le campagne e lasciandole in non pochi luoghi coperte di sterili sabbie, o di melma. Gli argini dei fiumi, le sponde dei torrenti veggonsi in moltissimi luoghi corrosi e dilaniati; impraticabili son rese le strade della montagna, interrotte le comunicazioni colla pianura. Opere colossali che sfidarono l’urto de’ secoli, sono crollate; molte case son cadute; altre minacciano rovina, e, quel che è più, debbonsi deplorare alquante vittime di questo disastro, nel quale l’animo non trova conforto che in quelle prove dì virtuoso coraggio che non pochi generosi diedero nel dedicarsi alla salvezza dei loro simili“.

A Cesena […] il torrente Cesola, il quale divide pel mezzo questa città, per la piena dell’acque cadute nei giorni precedenti, danneggiò molte case, che s’inalzano sul letto di esso e principalmente il palazzo, che apparteneva alla famiglia Onesti Braschi ed ora al sig. Pietro Brighi, il quale improvvisamente diroccò colla perdita degli stessi proprietarj, che da una finestra della stessa loro abitazione stavano contemplando la furia delle acque, ben lungi dall’immaginare che frattanto minassero il terreno a loro sottostante“. […]

Nè queste pioggie cagionarono men gravi danni a Faenza. Le acque giungevano quattro palmi presso alla sommità delle mura, e le avrebbero sorpassate con inondazione della città se la mattina del 14 a ore 10 antimeridiane non accadeva la rovina totale del ponte, in mezzo al quale sorgeva bellissima torre molto alta ed antica, quella di Manfredi ; l’altra torre è rimasta in piedi, ma non illesa. Per questa caduta del ponte, la comunicazione della città col borgo rimase interrotta e soltanto li 13 a sera passavano le persone sopra una barchetta costrutta alla meglio. La chiusa o rosta comunale del fiume e tutte le altre sono state portate via dall’acque. Vi erano nella città poche farine macinate per sostenere la popolazione e spaventava l’udire che tutti i mulini fino a Marradi eran rotti“.[…]
Tutto il borghetto di porta Ravignana era sott’acqua; tre o quattro famiglie, mediante zattere e barchette furono levate dalle loro abitazioni per opera del luogotenente della guarnigione svizzera Birbeaum, e di 12 de’suoi uomini. Un giovine che abitava nello stesso luogo scampò da morte nuotando, e salvò pure una sua sorella recandosela sulle spalle“.
Verso il 20 settembre si dovette distruggere l’altra torre del ponte perchè minacciava di crollare. Nel solo Borgo si contarono “cinquanta case diroccate ed altre appuntellate“.
A Lugo le acque del fiume Santerno arrivarono in città e soprattutto sulla fiera, danneggiandola notevolmente.
A Ronco ci furono tre vittime appartenenti alla famiglia Zoli.

E anche a Castel Bolognese, come anticipato, non mancarono gravissimi danni, specialmente nella parte più a monte del paese e si contarono due vittime (tre secondo la Cronaca ampiamente citata in precedenza), come si può leggere in una relazione della Magistratura di Castel Bolognese del giorno 15 settembre, fortunosamente ritrovata presso l’Archivio di Stato di Faenza (Governo di Castel Bolognese, Varie, busta 153):

Ill.mo Signore.
La straordinaria piena avvenuta nel fiume Senio a causa della dirotta pioggia accaduta nel 13, e 14 avendo inondato una parte di questo territorio comunale, ha cagionati danni incalcolabili, e quel che è peggio la morte di due persone, e cioè Annunziata Lama ved. Patuelli e Giuseppe Rossini, detto Camerone, rimaste annegate, la quali trovavansi alla casa del Podere Chiusa nella Parrocchia di Campiano, di proprietà di questo Comune, casa che è rimasta atterrata, essendosi portato via dalle acque quanto in essa vi era, e quasi tutto il materiale.
Il danno, che ha sofferto questa Comune per la inondazione suddetta, e per la piena di questo Canale de’ Molini è certamente non indifferente, e non si può darle con fondamento un approssimativo valore, poiché oltre l’atterramento di detta casa, che dovrà rinnovarsi di pianta, li muri, e ponti sul canale suddetto, le arginature del medesimo, e le strade, che le costeggiano, più le chiaviche, e ponti sulle diverse strade comunali, hanno avuto guasti considerevoli, per cui difficilmente può darsi alcun dettaglio sul proposito.
Trattandosi però di cose la maggior parte di vera urgenza, massime perciò che riguarda muri, ponti, ed arginature del canale, mentre al Molino Contessa (Scodellino, ndr) è caduto il muro, che sosteneva lo sfioratore, il volto del quale è rimasto pure diroccato per metà, questa Magistratura ha fatto intraprendere subito il restauro de’ medesimi in via economica, disponendo perché il tutto sia vigilato a dovere onde venghi eseguito colla maggiore possibile solidità, ed economia, servendosi dei fondi in genere dell’Amministrazione.
A suo tempo poi si farà debito di sottoporre la relativa spesa occorsa corredata delle pezze giustificative, alla sanzione del Consiglio, e per l’assegno del necessario fondo, conforme al prescritto dell’Art. 193 del Moto Proprio Sovrano 21 dicembre 1827.
A giustificazione pertanto dell’operato della Magistratura suddetta, e per la regolarità dell’Amministrazione mi rendo sollecito di partecipare l’emergente in discorso alla S. V. Ill.ma, pregandola a volersi degnare di subordinarlo all’E.mo Legato di questa Provincia per la debita approvazione.
Tanto Le doveva, mentre con distinta stima passo a dichiararmi con distinta stima
Di V. S. Ill.ma
Castel Bolognese 15 settembre 1842
Dev.mo, obbl.mo servitore
Il Priore
Cristoforo Borghesi

L’episodio del 1842 sembra tanto lontano, ma nemmeno il ‘900 è stato immune da piene impetuose del fiume Senio e da alluvioni molto pericolose, fra cui ricordiamo quelle del 1959 e del 1966, anni molto più vicini a noi, quando l’acqua uscita dal fiume arrivò fino al centro storico del paese.

casa_patuelli

La casa dei Patuelli, custodi della chiusa, al giorno d’oggi (attualmente è un’abitazione privata). Una precedente casa dei custodi fu spazzata via dall’alluvione del 1842, e nella rovina trovarono la morte di due persone.

Fonti:
Annuario storico universale compilato da Enrico Montazio, 1842
-Archivio di stato di Ravenna, Sezione di Faenza, Governo di Castel Bolognese, Varie, busta 153

Contributo originale per “La storia di Castel Bolognese”.
Per citare questo articolo:
Andrea Soglia, Il “fiumanone” del 1842 a Castel Bolognese, in https://www.castelbolognese.org

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Breve storia dello Stemma Comunale di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/breve-storia-dello-stemma-comunale-di-castel-bolognese/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/breve-storia-dello-stemma-comunale-di-castel-bolognese/#respond Tue, 10 Sep 2013 17:55:01 +0000 https://www.castelbolognese.org/uncategorized/breve-storia-dello-stemma-comunale-di-castel-bolognese/ Il 24 giugno 1851 il delegato apostolico Rossi mandò una circolare ai vari Comuni, con la quale li invitava a fornirgli “al più presto possibile le notizie dello stemma di codesta Comunità, giusta le norme, ed istruzioni tracciate nell’unita stampa”. In tale foglio era già prestampato lo scudo ed era …

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Il 24 giugno 1851 il delegato apostolico Rossi mandò una circolare ai vari Comuni, con la quale li invitava a fornirgli “al più presto possibile le notizie dello stemma di codesta Comunità, giusta le norme, ed istruzioni tracciate nell’unita stampa”. In tale foglio era già prestampato lo scudo ed era cura di ogni Comune riempirlo con tutte le parti dello stemma, seguendo le istruzioni inviate. Il 23 luglio 1851 i rappresentanti comunali di Castel Bolognese, G. Sangiorgi e L. Galeati, inviarono lo stemma a colori, realizzato dall’ingegnere Giovanni Mazzanti, aggiungendo che “sull’epoca in cui fu assunto nulla puossi asserire di positivo, rimontando l’origine di questo Castello a tempi molto indietro; è però opinione probabile ed accreditata che lo stemma di questo Comune figurato in uno scudo ripartito da una croce con una cattena a traverso, e due Rose, con in capo un cimiero con quattro penne, venisse, sul declinare del 1300 epoca in cui questo Castello da semplice Bastia che era, venne ampliato di fabbricati e vi fu eretta un abbastanza forte, ed estesa Rocca dai Bolognese, conceduto dai Bolognesi stessi giacchè la Croce si conserva anche nello Stemma di Bologna; la catena si vuole che ricordi il passo del Ponte a San Procolo ove pagavasi il transito dai viandanti, e le Rose venissero in seguito donate al Comune di questo Castello dai Riari, che tennero la Signoria d’Imola…”

In termini araldici la descrizione dell’antico stemma è la seguente: 
Arma: D’argento, alla croce a punte patenti di rosso, attraversante sulla catena d’azzurro, posta in banda, e accompagnata dalle due rose pentafoglie d’oro, poste una nel 2° e una nel 3°.
Elmo: D’acciaio, a cancelli, posto in maestà, col pennacchio di quattro piume iridate.

Lo stemma così descritto rimase inalterato fino al periodo fascista, quando fu leggermente modificato a seguito dell’iscrizione del Comune nel Libro Araldico degli Enti Morali, con decreto del 30 maggio 1940. In tale decreto si legge quanto segue:

“Il Duce del Fascismo Capo del Governo. Veduta la domanda del Comune di Castel Bolognese diretta ad ottenere il riconoscimento dello stemma e del gonfalone comunale e la iscrizione del Comune stesso nel Libro Araldico degli Enti Morali…
Decreta spettare al Comune di Castel Bolognese, in provincia di Ravenna, il diritto di fare uso dello Stemma e del Gonfalone miniati nei fogli qui annessi, e descritti come appresso:
Stemma: D’argento alla catena di ferro posta in banda accostata da due rose cucite d’oro; alla croce patente di rosso posta sul tutto ed attraversante. Capo del Littorio di rosso (porpora) al Fascio Littorio d’oro circondato da due rami di quercia e d’alloro annodati da un nastro dai colori Nazionali. Ornamenti esteriori del Comune.”

Dopo la caduta del Fascismo il capo del littorio è stato soppresso in seguito al D.L.L del 26 ottobre 1944 n°.313 e lo stemma così ottenuto è quello attuale. Rispetto all’antico stemma i cambiamenti sono minimi: è rimasta la catena, sono rimaste le rose mentre il cimiero è stato sostituito dalla corona simbolo di Comune.

Nella galleria delle immagini che segue è possibile vedere alcune versioni dello stemma comunale, partendo dallo stemma riportato negli Statuti Comunali del XVII secolo fino ad arrivare a quello attuale.

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Quando il frate castellano Serafino Contoli rischiò di causare una crisi “internazionale” https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/frate-serafino-contoli-crisi-internazionale/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/frate-serafino-contoli-crisi-internazionale/#respond Tue, 10 Sep 2013 17:54:57 +0000 https://www.castelbolognese.org/uncategorized/quando-il-frate-castellano-serafino-contoli-rischii%c2%bd-di-causare-una-crisiinternazionale/ Fra i tanti frati formatisi nel prestigioso monastero dei minori conventuali di Castel Bolognese, alcuni dei quali furono insigni teologi e alti prelati, ci fu anche padre Serafino Contoli, che più che per le doti di teologo si mise in luce per un singolare episodio avvenuto a Firenze nel periodo …

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Fra i tanti frati formatisi nel prestigioso monastero dei minori conventuali di Castel Bolognese, alcuni dei quali furono insigni teologi e alti prelati, ci fu anche padre Serafino Contoli, che più che per le doti di teologo si mise in luce per un singolare episodio avvenuto a Firenze nel periodo 1738-1740.

Padre Contoli, che in quel periodo viveva nel monastero di Santa Croce a Firenze dove con molta probabilità stava ultimando gli studi teologici, nel 1738 si era reso colpevole di aver tentato di arruolare persone per il re di Prussia. Scrive Antonio Zobi nel primo volume di “Storia civile della Toscana dal 1737 al 1848”:

“Fra Serafino Contoli […] invece di recitare salmodie e preghiere, arrolava soldati per monarca prussiano. Servivasi fra Serafino degli addetti all’Inquisizione, e dei familiari dell’Elettrice per far incetta di giovani, i quali, col pretesto di mandargli a servizio in corte di Modena, indirizzava al marchese Frosini incaricato d’avviargli in Prussia. Era questi segreto agente di Federigo in Italia, colla missione di spargere torbidi nei possedimenti della Casa Loreno-Austriaca. Gli arrolati però appena arrivati a Modena, resi consapavoli che dovevano andare nel fondo dell’Alemagna, voltarono addietro, e tornarono a Firenze […]”.

Vale la pena ricordare che il Granducato di Toscana, dopo la morte di Gian Gastone, l’ultimo della dinastia dei Medici, avvenuta nel 1737, era appena passato, in base ad accordi già stipulati nel 1735 fra le dinastie europee, a Francesco Stefano duca di Lorena e consorte di Maria Teresa, arciduchessa d’Austria.

L’episodio che coinvolgeva padre Contoli fu pertanto ritenuto assai grave dal nuovo sovrano Francesco Stefano che, venutone a conoscenza, chiese sin da subito indagini approfondite e la punizione per il colpevole. Il Consiglio di Reggenza, a cui il granduca, che preferiva risiedere alla corte di Vienna, aveva affidato il governo della Toscana, con dispaccio del 13 febbraio 1740, ordinò l’arresto del frate e, dato che l’arresto sarebbe dovuto avvenire all’interno del convento di Santa Croce, incaricò successivamente il segretario Tornaquinci di richiedere al nunzio Archinto la consegna del Contoli.

Il nunzio, dichiarando di non avere l’autorità, rifiutò di consegnare il frate, che rimase “incarcerato” in Santa Croce. Il conte Emanuele di Richecourt, membro del Consiglio di reggenza, cercò, con lettera del 29 marzo 1740, di persuadere il Nunzio a consegnare padre Contoli. L’Archinto però dichiarò nuovamente di non avere l’autorità per agire.

La situazione rimase bloccata per vari mesi, durante i quali il Contoli rimase agli arresti in Santa Croce. Verso la fine dell’anno il nunzio Archinto chiese la grazia a nome del papa e il sovrano, che veniva costantemente informato dal Consiglio di reggenza, concesse la grazia (dispaccio del 7 dicembre 1740), approvando di non punire il frate ma pretendendo l’immediato esilio dal Granducato. E’ probabile che, una volta lasciata Firenze, padre Serafino Contoli fosse tornato a Castel Bolognese nel “suo” convento. Dovrebbe essere sempre lui quel padre Giovanni Serafino Contoli, maestro di teologia e insegnante a Faenza, che, attorno al 1765, presentò domanda al Comune di Castel Bolognese dichiarando di volere “impiegarsi per il vantaggio comune del suo paese col insegnarvi pubblicamente filosofia […] esibendosi di fare il Lettore gratis”. La domanda del Contoli fu accolta favorevolmente ed egli fu subito nominato pubblico lettore di detta materia.

Sicuramente fu un ulteriore modo per riscattarsi dopo il controverso episodio che l’aveva visto protagonista a Firenze 25 anni prima e che poteva causare una grave crisi “internazionale”

Andrea Soglia

Bibliografia:

– ZOBI Antonio, Storia civile della Toscana dal 1737 al 1848. Firenze, Molini, 1850.
– MORELLI TIMPANARO Maria Augusta (a cura di), Tommaso Crudeli : Poppi 1702-1745 : contributo per uno studio sulla inquisizione a Firenze nella prima metà del 18. secolo. Firenze, Olschki, 2003.
– COSTA Pietro, Un paese di Romagna : Castelbolognese nel Settecento. Imola, Galeati, 1974.

Francesco Stefano di Lorena, granduca di Toscana

Francesco Stefano di Lorena, granduca di Toscana, più noto come Francesco I del Sacro Romano Impero. Immagine tratta da Wikipedia.

Contributo originale per “La storia di Castel Bolognese”.
Per citare questo articolo:
Andrea Soglia, Quando il frate castellano Serafino Contoli rischiò di causare una crisi “internazionale”, in https://www.castelbolognese.org

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