Miscellanea Archives - La Storia di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/category/miscellanea/ Mon, 24 Mar 2025 17:06:56 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.7.2 “Vai col liscio!”, film RAI del 1974 con l’Orchestra Casadei… e il nostro Marcellino https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vai-col-liscio-film-rai-del-1974-con-lorchestra-casadei-e-il-nostro-marcellino/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/vai-col-liscio-film-rai-del-1974-con-lorchestra-casadei-e-il-nostro-marcellino/#comments Mon, 10 Mar 2025 19:21:37 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12325 di Andrea Soglia “Vai col liscio!” è un film per la televisione girato fra fine 1973 e inizio 1974, diretto dal regista Leandro Castellani e andato in onda in due puntate sul Secondo Canale Rai il 16 e 23 maggio 1974. Fra gli interpreti principali, nel ruolo di loro stessi, …

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di Andrea Soglia

“Vai col liscio!” è un film per la televisione girato fra fine 1973 e inizio 1974, diretto dal regista Leandro Castellani e andato in onda in due puntate sul Secondo Canale Rai il 16 e 23 maggio 1974. Fra gli interpreti principali, nel ruolo di loro stessi, vi furono fra gli altri: Orchestra Spettacolo Casadei con in testa Raoul Casadei, Noris De Stefani, Ely Neri e la sua Orchestra, Santo & Johnny, Dino Sarti, Johnny Sax, Orchestra Castellina-Pasi, Narciso Parigi, la “regina” Nilla Pizzi e il nostro Leo Ceroni.
Così il regista Leandro Castellani ricordava il suo film con un post pubblicato nel 2023 sulla sua pagina Facebook:

“Vai col liscio!”: ha quasi mezzo secolo di vita questo allegro caleidoscopio di suoni e immagini che propose per la prima volta, perlomeno in modo così ampio e diffuso, un panorama della musica popolare, “da ballo”, dell’Italia centrale, quella a base di polke, mazurke e valzer, riprese nel corso di una rassegna ideata e organizzata da Vittorio Salvetti ma arricchita e letteralmente trasformata da me in una vetrina di vita e storia popolare arricchendola di nuove riprese realizzate, oltre che all’interno delle “Cupole” di Castel Bolognese, in vari luoghi della Romagna, con l’assistenza dell’indimenticabile Vincenzo Nonni. E come dimenticare i “ballerini” coreografati e coordinati da Bruno Malpassi? E l’ospitalità non solo gastronomica di Elvino? Il programma, girato a tambur battente perché eravamo caduti inaspettatamente nei giorni del feroce razionamento energetico, fu rielaborato con un montaggio estroso e imprevedibile, specie per l’epoca. Diviso in due parti, ebbe uno straordinario successo, sia di ascolto che di gradimento: un record!”

Tutti gli artisti si esibirono alle nostre “Cupole” e furono ospitati nell’Hotel ristorante Elvino, che all’epoca costituiva non solo un’eccellenza castellana, ma di tutta la Romagna.
Furono varie le riprese anche in esterno a Castel Bolognese. Paolo Grandi ricorda che furono girate alcune scene lungo il viale della Stazione, praticamente davanti a casa sua, con tanti castellani in bicicletta a fare le comparse, fra cui Mingò dla Turca, ma queste scene non furono montate nel prodotto finale.
Andò invece in onda un’altra scena castellana, girata lungo il nostro viale del Cimitero, allora adornato dalla vecchia Via crucis di Carlo Zauli: quella del funerale romagnolo, che, sostanzialmente conclude l’intero film, visto che è in coda alla seconda puntata. Come racconta la voce narrante “con il liscio in Romagna si nasce, si impara a camminare, ci si innamora e ci si sposa, qualche volta il liscio accompagna il romagnolo anche nell’ultimo viaggio: i vecchi lasciano scritto che vogliono questa musica, quel complesso ai loro funerali”. E nei due minuti circa della scena, lungo il nostro viale del Cimitero, accompagnato dal motivo di “Tramonto”, valzer di Secondo Casadei, si snoda un corteo funebre, animato da tanti castellani “assoldati” come comparse, uomini con la “caparela” e donne con il classico fazzoletto in testa, con bara (fornita dal falegname Paviett, Sante Dall’Oppio), portata a spalla da quattro uomini. Davanti alla bara l’Orchestra Casadei al gran completo, e davanti ad essi il sacerdote, interpretato da Vincenzo Nonni, impresario lughese, all’epoca gestore delle Cupole e socio di Casadei nella Ca’ del Liscio di Ravenna. E davanti al sacerdote, nel ruolo di sè stesso, il nostro Marcellino con la croce ad aprire il corteo funebre.
Interpellato al riguardo Marcellino mi ha raccontato diversi aneddoti. Ricorda che la scena fu girata a gennaio, in un giorno molto freddo, e vi furono varie ripetizioni prima che il regista fosse soddisfatto. Marcellino prese molto freddo, tant’è che poi si ammalò pure. A suo dire anche all’interno della bara vi era una comparsa ad interpretare il morto, ruolo che era stato proposto anche a lui, ma che aveva ovviamente rifiutato. Mi avrà preso in giro? Probabilmente la scena era molto più lunga ed era partita ben prima del viale del Cimitero, ma ne fu montata solo una parte. Marcellino ha immancabilmente concluso con un po’ di polemica, dicendomi che gli era stato promesso un piccolo compenso per la comparsa, ma non vide mai una lira!
Marcellino a parte, molti avevano perso la memoria dell’evento che doveva aver fatto abbastanza rumore in paese. Paolo Grandi ricorda che suo padre Tristano aveva invano scritto alla Rai chiedendo una copia del film.
Qualche sera fa, sfogliando online il vecchio Radiocorriere TV il cui archivio è stato digitalizzato, ho trovato notizia del film e delle scene girate alle Cupole. Ho provato a cercarlo su YouTube e con grande sorpresa ve l’ho trovato. Sono poi rimasto stupefatto nel vedere il nostro viale del Cimitero, e nel riconoscere il giovane Marcellino a interpretare sé stesso in un film andato in onda sulla Rai dei tempi d’oro e visto da milioni di persone!
Ci perdonerà quindi Marcellino se abbiamo estrapolato la scena clou dal resto del film e la pubblichiamo sul nostro canale su YouTube, è un patrimonio preziosissimo. E sotto sotto, anche se fa un po’ il recalcitrante, siamo sicuri che sarà contento pure lui.
Un grazie a Domenico Giovannini per aver ritagliato la scena del funerale dal resto del film.
Condividiamo anche i link delle due parti del film. Nella prima parte è possibile vedere anche l’esibizione del nostro Leo Ceroni con il suo complesso, nel suo periodo più splendente.

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La “quasi-alluvione” del 1978 a Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/la-quasi-alluvione-del-1978-a-castel-bolognese/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/storia/la-quasi-alluvione-del-1978-a-castel-bolognese/#respond Thu, 20 Feb 2025 21:55:44 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12301 a cura di Andrea Soglia; con fotografie inedite di Vincenzo Zaccaria (introduzione) Dal 2016 (nel cinquantenario di una di esse) abbiamo preso a pubblicare sul sito notizie sulle varie alluvioni subite da Castel Bolognese, che qui riassumiamo: 1842, 1939, 1949, 1959 e 1966. Proprio commentando quest’ultima pagina, l’ex sindaco Franco …

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a cura di Andrea Soglia; con fotografie inedite di Vincenzo Zaccaria

(introduzione) Dal 2016 (nel cinquantenario di una di esse) abbiamo preso a pubblicare sul sito notizie sulle varie alluvioni subite da Castel Bolognese, che qui riassumiamo: 1842, 1939, 1949, 1959 e 1966. Proprio commentando quest’ultima pagina, l’ex sindaco Franco Gaglio, purtroppo oggi scomparso, sollecitava la pubblicazione di una pagina anche su quanto avvenuto nel periodo 1978-1979, durante il quale egli era in carica.
Avremmo voluto soddisfarlo, ma solo ultimamente siamo riusciti a mettere assieme qualcosa, grazie al fondamentale contributo di Vincenzo Zaccaria (che ringraziamo sentitamente), che nel 1978 scattò alcune notevoli fotografie, e grazie ad alcuni articoli ritrovati su Vita Castellana del 1978-1979. Vi proponiamo, quindi, questa pagina che speriamo di poter implementare un giorno se tornerà disponibile l’archivio comunale o se qualcuno aggiungerà ricordi personali. Molte argomentazioni che leggiamo sono attualissime
Possiamo definirla una “quasi-alluvione”, visto che i danni furono limitati all’abitato di Biancanigo e non furono drammatici. Gli episodi risalgono al 15 aprile 1978 con una coda il 16 febbraio 1979. Seguirono molti lavori, come documentano anche alcune note che Gaglio aveva scritto nel suo libro e nel commento alla nostra pagina sul 1966. A quella crisi seguì un periodo di relativa tranquillità, interrotta dalla doppia catastrofe del 2023.
Con questo testo dovremmo aver completato la rassegna storica delle alluvioni castellane. Al momento non prevediamo di aggiungere un testo sui fatti del 2023: i ricordi sono ancora vivi in tutti e tutti hanno fotografie nei loro telefoni a rinfrescare la memoria. (Andrea Soglia)

Articolo tratto da Vita Castellana, febbraio 1979

DA BIANCANIGO Riceviamo e pubblichiamo:
Ancora sul fiume Senio

Puntualmente, più volte all’anno, i cittadini di Biancanigo, sono alle prese con le acque minacciose del fiume Senio. E’ sufficiente il prolungarsi di una perturbazione, o il rovescio più abbondante di un temporale a monte, per assistere alla valanga della piena che scende precipitosa e si arresta sulla curva del fiume retrostante la borgata. A distanza di 10 mesi, per ben due volte, abbiamo sofferto l’incubo degli allagamenti. Sabato, 15 aprile 1978, la borgata viene allagata, le acque penetrano nelle case, inquinano le acque potabili, dissestano strade e campi coltivati. Necessita l’intervento dei Vigili del Fuoco .
Venerdì, 16 febbraio 1979, dopo due giorni di intense piogge, arriva una massa d’acqua che supera ogni precedente per l’abbondanza e la violenza. Dal rigurgito del Rio Cupa, l’acqua inizia la sua marcia lungo la via provinciale; quando, fortunatamente, scattano le valvole di sicurezza: più a monte rompono gii argini e le acque invadono gli ampi catini dei saletti.
I danni sono relativi, ma gli interrogativi si fanno sempre più gravi. Fino a quando dovremo vivere con l’incubo di un fiume alle spalle che ingorga le acque e rischia di provocare disastri di imprevedibile entità per noi e per il paese?
Lunedì, 18 settembre 1978, i cittadini di Biancanigo sono convocati in assemblea per discutere il problema Senio. Sono presenti autorità comunali e tecnici della provincia. Al di sopra di ogni proposta, i cittadini di Biancanigo, unici veri conoscitori del movimento delle acque zonali, chiedono con urgenza lo sboscamento del tratto del fiume Biancanigo-Ponte di Castello, la pulizia delle frane, lo sterramento dell’alveo. L’autorità riconosce l’urgenza e si impegna a programmare un primo lotto di lavori prima dei pericoli invernali. Passano molte settimane di silenzio. Finalmente, in dicembre, viene nuovamente convocata l’assemblea a Biancanigo.
Presenti le autorità comunali e provinciali, i tecnici, inaspettatamente, presentano un nuovo progetto-soluzione, spostando la questione dal fiume Senio al Rio Cupa.
Gli abitanti di Biancanigo si ribellano, documentano l’assurdità del progetto, dicono che sono soldi buttati e ribadiscono all’unisono l’urgente necessità della pulizia dei fiume come unica salvezza. Conclusione amara e per niente diplomatica dell’autorità comunale che rifiuta i suggerimenti dell’assemblea e dichiara di porre esclusiva fiducia nell’operato dei tecnici. Poi è ritornato il silenzio generale. Sono passati tre mesi di sole: settembre, ottobre, novembre, e non si è fatto nulla. Se la colpa degli allagamenti debba scaricarsi o no sull’innocuo Rio Cupa, credo lo abbiano potuto constatare “de visu” le autorità comunali e provinciali la sera di venerdì 16 febbraio u.s. Ma è vero anche che non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere. Dunque, signori responsabili del Comune, siete decisi di aspettare l’acqua del fiume Senio sulle soglie dei palazzo Municipale? Signori tecnici della provincia, non è il caso di lasciare da parte certe elocubrazioni che sanno di fantasioso e scendere a livello pratico?
E’ quanto aspettiamo: a nostro vantaggio e a vantaggio del paese.

Un cittadino di Biancanigo


Articolo tratto da Vita Castellana, dicembre 1978

Divergenze sui modi di intervento sul fiume Senio

Negli ultimi mesi si sono svolte due assemblee coi cittadini della zona «Biancanigo» e recentemente anche il Consiglio comunale nella seduta del 14-12 ha espresso un parere favorevole sulla necessità di realizzare con urgenza opere di ripristino e di consolidamento agli argini di difesa del fiume Senio, che anche nel corso di questo anno ha ancora una volta allagato molte case e prodotto danni considerevoli.
Il nostro Gruppo pur valutando positivamente nel complesso il progetto dei tecnici che recentemente hanno affrontato i problemi del fiume Senio nel nostro territorio, ha comunque accompagnato il parere espresso con una precisa riserva intendendo con ciò valorizzare le risultanze emerse nell’ultima assemblea cittadina di Biancanigo ove unanimemente un folto gruppo di cittadini presenti ha indicato con competenza e praticità i modi e i tempi per avviare a definitiva soluzione i problemi in questione come segue:
1) Avvio immediato dei lavori di pulizia dell’alveo del corso d’acqua in questione nel tratto compreso tra Biancanigo e il Ponte del Castello e a valle della ferrovia procedendo contemporaneamente al ripristino delle numerose frane esistenti onde permettere un regolare scorrimento delle acque fino a riportare entro limiti di non pericolo i livelli di massima piena.
2) Congiuntamente a questi provvedimenti e fino a esaurimento del finanziamento attualmente disponibile (circa 200 milioni, IVA compresa) si dovrebbe rialzare l’argine sinistro che di fronte al centro abitato di Biancanigo risulta più basso di 80-90 cm e realizzare una saracinesca o botola automatica che in caso di piena nel fiume impedisca l’immissione di acqua ne! rio « Via Cupa » che ovviamente allagherebbe Biancanigo prima e il centro abitato di Castelbolognese poi.
3) I cittadini di Biancanigo, consapevoli che eventualmente potrebbe esistere anche un rischio pur minimo di allagamento proveniente dalle acque del rio Via Cupa, hanno proposto che si esamini la possibilità di una tombinatura dello stesso, evitando così che il rio medesimo, in caso di non ricettività del fiume Senio, tracimi e provochi allagamenti.
Il tutto in alternativa alle proposte dei tecnici e della Giunta comunale che invece hanno prospettato la tesi dì intervenire arginando il rio Via Cupa congiuntamente a un parziale lavoro di pulizia dell’alveo del fiume; si tratterebbe infatti di privilegiare l’intervento sul rio Via Cupa a tutto danno del ripristino delle frane esistenti nel fiume Senio e ciò per carenza di finanziamenti a disposizione.
Le due diverse tesi, che peraltro non contrastano ma si diversificano solo in ordine alle priorità hanno trovato il nostro Gruppo consiliare schierato con le proposte dei cittadini e bene avrebbe fatto la Giunta a dare un senso e un significato alla consultazione effettuata.


IL CONSOLIDAMENTO DEL FIUME SENIO

Il fiumie Senio, a carattere torrentizio, per il suo andamento sinuoso, con l’alveo quasi a livello di campagna, crea molti problemi in occasione di precipitazioni eccezionali. Per evitare allagamenti è necessario tenere costantemente sotto controllo le opere di contenimento, sia nel nostro territorio che nella parte a monte, ed
intervenire per regolare le sezioni di deflusso, rinforzare gli argini, riprendere le frane, disboscare l’alveo per rendere scorrevole il deflusso delle acque in piena.
La competenza diretta è della Regione, che interviene su propria iniziativa o per richiesta del Comune. I lavori vengono finanziati con piani poliennali dalla Regione stessa.
Con la legge regionale n. 27 del 1974, in dieci anni, sono stati eseguiti nel fiume Senio, nel tratto a monte della via Emilia, i lavori per i seguenti importi:
1974 £ 29.680.000
1979 £ 200.000.000
1980/82 £ 15.000.000
1981/82 £ 70.000.000
1982/83 £ 303.000.000
1983/84 £ 80.000.000
1984 £ 165.000.000
1985 £ 138.000.000

(tratto da: Franco Gaglio sindaco fra la gente, Bacchilega, 2016)


Commento di Franco Gaglio alla pagina sull’alluvione del 1966, datato 2 novembre 2016

Interessante. Sarebbe bello poter leggere della successiva alluvione degli anni 1978-80. La ricordo perché ero Sindaco e mi recai in auto col Vice Sindaco Otello Franzoni e trovammo della contestazione contro l’Amministrazione Comunale. Successivamente riuscimmo a coinvolgere il Geometra del Genio Civile e dopo un inizio di trattativa con Bartoli Gildo, proprietario della terra dove si doveva fare l’intervento, riuscimmo nella Sala del Consiglio Comunale a raggiungere l’accordo. Il Genio Civile realizzò l’intervento e da allora non vi è stata alluvione, nonostante non siano mancate grandi piene. L’intervento è stato consistente e ben fatto. Ne fu soddisfatto lo stesso Bartoli.

Album fotografico inedito di Vincenzo Zaccaria (che si ringrazia sentitamente)

 

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S. Antonio a S. Maria della Pace https://www.castelbolognese.org/miscellanea/s-antonio-a-s-maria-della-pace/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/s-antonio-a-s-maria-della-pace/#respond Thu, 16 Jan 2025 20:05:51 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12229 da una memoria edita di Giovanni Bagnaresi Bacocco ripubblicata su Vita Castellana del gennaio 1976 Quando eravamo giovani si desiderava che il 17 di Gennaio cadesse in una bella giornata, perché ci dava modo di godere un pomeriggio di svago, anche se la neve fosse stata alta sul terreno. Si …

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da una memoria edita di Giovanni Bagnaresi Bacocco ripubblicata su Vita Castellana del gennaio 1976

Quando eravamo giovani si desiderava che il 17 di Gennaio cadesse in una bella giornata, perché ci dava modo di godere un pomeriggio di svago, anche se la neve fosse stata alta sul terreno. Si era sicuri di trovare la via Emilia nel mezzo e tutto il sagrato di Santa Maria della Pace spazzati. Se poi le vie erano libere dalla neve e la giornata soleggiata, era un piacere vedere la strada Maestra andare salda di gente dalle porte del Castello fino al Ponte. L’attrattiva maggiore era data dalla consuetudine, antica, che offriva agli intervenuti lo spettacolo della estrazione a sorte di due maialetti, mercé una lotteria, che si iniziava e si compiva coram populo, senza bisogno di carta e di registri bollati, ma fiduciaria ed allegra.
Non vi era l’osteria al Ponte: ma la gente si spargeva presso i contadini ed il villaggio del Ponte, dove erano sicuri di trovare larga ospitalità: un buon bicchiere di vino e una migliore merenda. Noi non sentivamo bisogno né di bere, né di mangiare. Una melarancia o un po’ di castagna e di anseri (cucciarul), presi da una di quelle bancherelle, che si allineavano ai lati della Chiesa, bastavano a farci contenti. Le giovani, vestite con maggiore semplicità di adesso, senza belletti ed altri cosmetici, col volto un po’ acceso dall’aria frizzante e accaldate dal camminare, ci parevano tanto belle e tanto necessarie al compimento della festa. Ma, mentre esse entravano nella Chiesa ad assistere alla benedizione, noi andavamo al Ponte a fare leggere, a chi non la conosceva, la iscrizione romana, trascritta in una lastra di arenaria posta sotto l’antico ponte: Q.F. Pol. = P.B.O.L.D.D.I.P.Z., iscrizione che venne poi coperta, quando il Ponte, che dicevano antichissimo, fu allargato.
La festa di Sant’Antonio per i parrocchiani della Pace è riconosciuta come la maggiore dell’annata: pochi giorni prima i contadini, i casanti e i carrettieri della località uccidono il maiale per avere la soddisfazione di farsi mangiare dagli invitati il giorno diciassette i ciccioli (grassul), di fegato, la salciccia e l’altra roba insaccata.
La mattina si vedevano venire in paese i contadini e le loro donne, vestiti a festa, acquistare i panini benedetti, che davano per devozione poi da mangiare alle loro bestie, quando ritornavano a casa. Ed era una festa cosi rispettata che ricordo quest’episodio. Un campagnolo aveva un impegno abbastanza importante a Faenza; ma avverti la persona, con cui doveva trovarsi, che non sarebbe andato, perché il cavallo doveva riposare il giorno di Sant’Antonio.
Nel contado anche adesso non vi è casa che nella stalla non abbia murato in una nicchia la sacra immagine. Anche l’uscio d’entrata e gli assiti delle porte ne vanno adorni. Questi della Pace si lamentavano di non aver un vistoso simulacro del protettore del loro bestiame e finalmente, una quarantina di anni fa, il loro padrino, ancor vivo e vegeto, nei suoi 85 anni, poté accontentarli, acquistando nell’argentano una statua grande al naturale.
Nell’antico tempo l’anacoreta della Tebaide si figurava accompagnato soltanto dal porco, che simboleggiava la castità contro l’impurità; ma col volgere del tempo si aggiunsero le fiamme, rappresentanti il fuoco sacro, detto anche di Sant’Antonio, quando verso il Mille una grave epidemia corse a devastare l’Europa. Sotto la protezione di esso santo al porco si unì prima il cavallo, poi il bue, la pecora e gli altri animali da cortile. Anche l’iconografia moderna lo rappresenta colla sua asta pastorale e colla sua grande barba bianca in atto di proteggere il bestiame che ha d’intorno. Così sembra di riprodurre la bella scena, che ogni giorno si rinnova, quando la reggitora verso sera richiama l’innumerevole schiera di pennuti e dà loro il becchime. Il periodo della festa di sant’Antonio comincia dopo l’Epifania detta anche la Pasquetta, e continua per tutto il carnevale. Questa spezzatura della festa nelle diverse domeniche di carnevale dà il modo di dimostrare la grande venerazione che il Santo gode presso i contadini, ma anche l’occasione da dare principio allo scambio dei pranzi e dei ritrovi invernali fra di loro. Infatti comincia l’epoca del maggior passatempo e una parrocchia invita l’altra e la gioventù dei due sessi affronta il freddo e il lungo cammino per ritrovarsi a queste riunioni, che sanno di sacro e di profano. La chiesa, nella sua lunga esperienza secolare, ha assecondato questa umana tendenza di allegrare lo spirito durante il riposo della stagione invernale. Comincia Casalecchio l’11 gennaio, il 17 la Pace e Campiano, poi Biancanigo, indi Casanola. La domenica «galinera», cioè quella penultima di carnevale, ha luogo sant’Antonio al Borello e la domenica precedente la quaresima, detta Lova, la stessa festa ha luogo alla Serra… Questo periodo godereccio pare adatto, perché avviene durante il riposo invernale e nelle giornate più fredde della annata.
Si comincia con San Mauro, che avviene il 15 Gennaio: San Meuver, che fa tarmè e cadever; poi al diciassette Sant’Antonio: Sant Antogni dalla berba bianca; al venti cade San Bas-cian che fa tarmè la coda e can, e così tutti gli altri Santi del freddo. A vincere il freddo niente è piu giovevole di una vita sana, movimentata, con cibo nutriente, condito con qualche bicchiere di vino buono.
La compagnia di Sant’Antonio, della quale fanno parte i reggitori delle case coloniche della parrocchia, elegge ogni anno due priori, incaricati di raccogliere le offerte in denaro e in natura, che devono sopperire alle spese della festa. Essi accompagnano il Padrino nel giro della parrocchia e, mentre il parroco benedice la stalla, i priori ritirano le offerte. Poi combinano le modalità del pranzo, il numero delle persone e quali autorità da invitare il giorno della festa. Mi contò Pirita d’Caldarè, che una volta riuscì priore con Ciurlò. Essi accompagnavano don Leopoldo Savini nel giro. L’uno teneva il paniere delle uova e l’altro il calice e l’aspersorio, ma tenevano in custodia anche il denaro raccolto. Passando dallo spaccio dei sali e tabacchi del Ponte, mentre don Poldino era entrato a benedire alcune stalle di quei birrocciai, essi pensarono che potevano prelevarsi dal denaro raccolto due soldi per uno per l’acquisto di un toscano. Poi tutti assieme proseguirono nelle visite, ma, per il fatto di aver defraudato S. Antonio di quattro soldi, ebbero nell’annata a patire la perdita l’uno di un vitello e l’altro di due maiali.
La mattina del 17 accorrono tutte le famiglie alla chiesa di Santa Maria della Pace ad assistere alle funzioni propiziatrici e, quando ne escono, portano seco uno o più invitati. Tutte le piccole strade sono allora percorse da questa gente indomenicata, che non sente il freddo e che sa che si va avvicinando il mezzogiorno. Parenti ed amici s’assidono attorno al fuoco nella grande stanza, che serve anche da cucina, la quale da un lato ha due cassoni di noce massiccia ripuliti per l’occasione, dall’altro il buratto per cernere la farina e da un terzo lato il tagliere affisso al muro, con sopra l’asse del pane, due panchette, oltre ad un certo numero di sedie che servono per sedere: le panche per quelli di casa e le sedie per i parenti. Gli uomini stanno chiacchierando, mentre le donne finiscono di cuocere i cappelletti nel grande paiuolo pieno di brodo. Sopra la loro testa da una pertica pendono i codeghini e le salciccie ed il resto della roba insaccata. Quando la minestra è in tavola e le fondine sono piene, la reggitrice invita tutti a mettersi a tavola. Adesso comincia la prova dei buoni stomaci, che si servono due o tre volte dalle terrine che sempre si riempiono. Dopo la minestra viene il lesso composto di varie carni; segue l’arrosto di pollo e di coniglio e si finisce con la zuppa inglese e la ciambella dolce. Fra ciarle e discorsi allegri gli uomini si mettono a giocare al fotecchio o alla bestia, e le donne accudiscono alla pulizia degli oggetti da cucina ed alle altre faccende.
Da quest’ora la casa è una specie di corte imbandita e viene il fabbro, il falegname, il calzolaio, e gli amici a bere e a mangiare un pezzo di ciambella. Anche la canonica accoglie ospiti. I priori vi hanno portato ognuno due fascine e un mezzo quintale di schiappa per riscaldare l’ambiente; inoltre ognuno una damigiana di vino per dare da bere a chi verrà nel pomeriggio. Essi sono stati a pranzo dal padrino cogli invitati, fra cui il comandante la stazione dei carabinieri, il medico ecc. Durante il pomeriggio sono essi che fanno il servizio d’ordine e sanno mettere a posto, se bisogna, qualche sfaccendato, che volesse non tenersi al suo posto. La benedizione la sbrigavano presto per dare il tempo necessario allo svolgimento della lotteria, giacché in gennaio le giornate sono corte e viene presto la sera. Due o tre tavolini con un giovanetto seduto accanto, tenevano un registro aperto e segnavano le poste di quelli che giocavano ai maialini. Per concorrervi si scrivevano le cosiddette voci. Si dicevano voci i cartellini o schedine concorrenti al premio, perché rievocavano con esse i nomi cari di persone defunte. Una madre, che avesse avuto la disgrazia di perdere un figlio o una figlia fai ava scrivete il nome del defunto col segno della morta cosi: Maria Callegari messa da Callegari Antonia della parrocchia di Casanola. Cosi una figlia il nome del padre, un figlio quello della madre, un fratello il nome del fratello. Ricordando il nome dei loro cari, che non erano più, speravano che, per il bene che si erano voluti in vita, i cari defunti potessero dall’al di là aiutarli a vincere anche il piccolo premio.
Ma non tutti mettevano parenti: chi si raccomandava alla Madonna, chi ai Santi, persino alle anime benedette del Purgatorio. Altri lasciando in pace i morti ed i Santi mettevano nelle voci cose allegre. Una giovane si raccomanda a San Antonio che le prepari la dote: Ann ch’am uvleva maridè, / a mes a e porz e in me vus d’è; / S’un m’aiuta Sant’Antogni / um va da mel e matrimogni. / Un altro scrive la sciocchezza seguente: E tira la boffa, / E scosa la cocla, / Mamma la breva, / e bab us arroffa. / Un altro, se non vince, fa il proponimento di non giuocare mai più: A met a e porz e mei an l’ho, / se in me dà, anmi met piò.
Ma ad un tratto si aprono le imposte verdi della finestra del piano superiore della casa parrocchiale e s’affaccia il viso roseo e rubicondo di Antonio Landi, il cuoco del pranzo, che continua a rendere giuliva la giornata. Tutto pulito, mentre si ferma gli occhiali sul naso e fa una riverenza al pubblico, pronunzia una specie di zirudella. Si vede la figura ben portante con la giubba nera, il corpetto verde, gesticolare; ma la voce viene accolta da fischi ed ironiche esclamazioni. Egli rimane impassibile e compie le ultime operazioni preliminari della lotteria. In una federetta bianca di bucato sono contenute tutte le voci che concorrono al premio. Egli addita una scatoletta posata sul davanzale della finestra, in cui, misti a molti cartellini bianchi, se ne trovano pochi altri, che hanno scritto la parola «Grazia». La folla si riversa e continua a convenire sotto la finestra ed il Landi a rallegrarla tra i fischi e le urla. Non per nulla egli faceva la parte di Dulcamara in una ricordevole mascherata ideata dal Maggiore Leonida Marzari e che si produsse qui e nei paesi vicini. Fra un relativo silenzio una bambina estrae dalla federetta la prima voce e il Landi legge forte: Quatter ragazzi in t’una nosa, / S’ai ho e porz am faz la sposa. / S’un m’aiuta Sant’ Antogni, / Um va da mel e matrimogni, messo da me Sante Bacchilega della parrocchia di Tebano.
Una bambina, sempre in vista del popolo, toglie la schedina, che il Laudi guarda e dice: — Bianca —. Indi estrae un’altra voce: Sant’Antogni e sta là drett. / cun la panza pina d’caplett, / ma i dis, che un è vera gnint, / i caplett ui ha magnè i prit. / Poi un’altra voce: E pont de Castel, / e pont dla Turretta, / e ai ho e porz / ai e met a la vetta. Da osservarsi che sono i due ponti estremi nel territorio di Castel Bolognese. Poi un’altra voce: Quatter cochel int una nosa, se ai ho e porz am faz e spos /. Finalmente si estrae quella che è accompagnata dalla schedina portante la parola «Grazia». Allora il Landi dice il nume della persona che ha vinto il primo maiale. L’estrazione prosegue finché un’altra voce è seguita dalla parola «Grazia». Detto il nome che ha vinto il secondo maialetto, il Landi pronunzia un discorso in versi col quale si ringrazia il popolo dell’onore fatto a Sant’Antonio. Le ultime parole sono urlate e fischiate e la festa è finita. La gente sfolla verso il paese, mentre i ragazzi, abbandonati a ve stessi, cantano in coro:
Sant Antogni, becca l’ova, / l’è imbariegh cum è una troia: / l’è imbariegh cum è un guten; / Sant’Antogni ballaren /.
Castel Bolognese, 17 gennaio 1931.

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Frammenti di vite sotto i portici di via Garavini https://www.castelbolognese.org/miscellanea/frammenti-di-vite-sotto-i-portici-di-via-garavini/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/frammenti-di-vite-sotto-i-portici-di-via-garavini/#respond Sat, 07 Dec 2024 22:39:36 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12100 di Andrea Soglia “Se questi muri potessero parlare!”… Mai questo vecchio adagio potrebbe risultare più azzeccato per lo scopo che ci prefiggiamo, ossia ricostruire le vicende relative ad un edificio che di certo sarà stato testimone di tante storie di vita vissuta. Ci riferiamo all’attuale “Casa don Carlo Cavina” di …

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di Andrea Soglia

“Se questi muri potessero parlare!”… Mai questo vecchio adagio potrebbe risultare più azzeccato per lo scopo che ci prefiggiamo, ossia ricostruire le vicende relative ad un edificio che di certo sarà stato testimone di tante storie di vita vissuta. Ci riferiamo all’attuale “Casa don Carlo Cavina” di via Garavini 12-14, che fino alla fine del 2022 ha ospitato anche una storica cartoleria.
Un’abitazione civile, di non particolare pregio architettonico, con annesso negozio, che si trova nella parte più antica del nostro Castello e che quindi è coeva alla fondazione del nostro paese. Se i muri parlassero, potremmo scrivere la sua storia fin dalla fine del ‘300, ma ci accontentiamo di partire da inizio ‘800, quando in quella casa nacquero due sacerdoti che hanno fatto la storia del nostro paese e di Lugo: don Tommaso Gamberini e don Carlo Cavina.
Era il 1812 quando nella casa di via Garavini vide la luce Tommaso Gamberini, che fu arciprete di Castel Bolognese dal 1838 al 1888: cinquanta lunghi anni che fecero la storia d’Italia. A don Gamberini è stata dedicata una via del paese e, nel 2014, una monografia curata da don Paolo Ravaglia, già cappellano della parrocchia di San Petronio.
Pochi anni dopo, nel 1820, nella stessa casa nacque don Carlo Cavina, dichiarato Venerabile nel 2019 da papa Francesco. Don Cavina svolse la maggior parte del suo ministero sacerdotale a Lugo, come prevosto e parroco della Parrocchia Collegiata dei santi Francesco e Ilaro. Fondò, nel 1872, una nuova congregazione: le Figlie di San Francesco di Sales. Numerose pubblicazioni ricordano l’operato di don Carlo Cavina; Castel Bolognese l’ha omaggiato dedicandogli dapprima una targa posta sulla sua casa natale (1980, centenario della morte) e poi, in anni più recenti, una via del paese.
Un salto avanti di 100 anni ci porta circa negli anni ’20 del Novecento, quando la casa è di proprietà di Paolo Zannoni, noto come Pavlè d’Pipetta. In una carrellata dei negozi di Castel Bolognese, scritta da Paolo Grandi sui ricordi di Romana Zannoni (che di Pavlè era nipote), troviamo le prime notizie dell’uso commerciale del pianterreno della casa di via Garavini, utilizzata in quel periodo per la vendita di frutta e verdura che vedeva impegnato Paolo Zannoni, sicuramente coadiuvato dalla moglie e dalle tre figlie (chiamate le Pirre), Antonietta, Angelina e Pierina. Alla morte di Paolo le sue proprietà vennero suddivise fra le sue figlie, e ad Antonietta toccò la casa di via Garavini.
Antonietta Zannoni (1908-1983) fu una pioniera del movimento cattolico castellano. Nel 1924 (centenario dimenticato), assieme ad alcune coetanee, diede vita al movimento femminile di Azione Cattolica, fondando il Circolo Santa Agnese. Ben presto l’associazione ebbe l’adesione di numerose giovani, che trovarono in Antonietta una guida spirituale per la loro formazione. Le socie appoggiarono tante iniziative parrocchiali: coro, teatro, conferenze, giornate eucaristiche, manifestazioni religiose ed esercizi spirituali. Fin all’ultimo periodo della sua vita la Zannoni partecipò alla catechesi dei fanciulli.
Tornando all’attività commerciale, già prima della Seconda guerra mondiale a Pavlè era subentrata la sorella Idda Zannoni, che proseguì nella vendita di frutta e verdura coadiuvata dalle figlie Armanda e Giuseppina Mazzotti. Paolo Leonelli, figlio di Giuseppina, ricorda che nel periodo natalizio si vendeva anche l’oca già macellata, come era nella tradizione castellana, e che la vendita si svolgeva anche la notte di Natale, quando tante persone si fermavano dopo la Messa e, a lume di candela, si pesava la carne sulla stadera. Armanda morì tragicamente a guerra finita: il 2 maggio 1945, di ritorno da Faenza, mentre con uno zio spingeva un carretto pieno di viveri e medicinali per i castellani, fu travolta da un mezzo militare polacco.
Arriviamo poi negli anni ’50, quando nasce la storica cartoleria che arriverà fino ai giorni nostri e la cui attività è intimamente connessa con quella di una delle due tipografie castellane attive in quel tempo. Ma qui occorre fare un passo indietro.
Già dagli anni ’20 era attiva a Riolo (allora Bagni), la tipografia Pollini e Aramini, che aveva annessa una fornitissima cartoleria. La tipografia aveva una succursale a Castel Bolognese, in alcuni locali di via Gambarelli, di proprietà di Paolo Zannoni (e, alla sua morte, della figlia Angelina). Nel Dopoguerra Zaffi Aramini (più noto col nome di Saffi o, erroneamente, Saffo), co-titolare della tipografia, si trasferì a Conselice (sua città natale) e Giusto Pollini proseguì nella sua duplice attività fino all’inizio degli anni ’50, quando cedette tipografia (e relativa succursale) e cartoleria ad Enrico Robbia e la moglie Tina Zanelli. Ben presto, poco dopo la metà degli anni ’50, si pensò di ingrandire l’attività aprendo una cartoleria anche a Castel Bolognese che, dopo la cessazione della cartoleria delle sorelle Cavallazzi sulla via Emilia interna, era rimasto con la sola cartoleria di Elsa Benelli in piazza Bernardi. Il negozio di via Garavini era in una posizione strategica, vista l’ubicazione a due passi dalla Scuola Media (sita fino al 1967 nell’attuale edificio dell’Unicredit) e a un tiro di schioppo dall’unica scuola elementare, e non mancò la competizione con l’altra cartoleria. A gestirlo la sorella di Tina, Margherita Zanelli (1927-1998), da tutti conosciuta come “Ghita”. A Ghita non mancava di certo l’intraprendenza, visto che alla fine della guerra, con altre pioniere, fu fra le fondatrici della cooperativa La Confezionatrice (purtroppo di breve durata), tutta al femminile, che riuniva decine di sarte.
Ben presto, nel retrobottega della cartoleria, fu trasferita anche la succursale della tipografia Robbia, abbandonando i locali di via Gambarelli. E quindi nella casa di via Garavini si iniziarono anche a stampare i manifesti, soprattutto quelli funebri (fino agli anni ’70 di formato 100×70, tutti neri, con le scritte color oro) usando l’antico torchio ivi installato. L’unica altra macchina della succursale, la “pedalina”, fu invece spostata presso il vicino stabilimento stracci dei Fratelli Santandrea: essendo utilizzata solo per stampare sugli imballaggi di quella ditta, si pensò di metterla direttamente in un angolo dello stabilimento, risolvendo non pochi problemi logistici. E al primo piano della casa di via Garavini fu riservata una stanza alla tipografia, dove poter dormire o cucinare a seconda dei bisogni.
La cartoleria di Ghita viene ricordata come molto fornita dai ragazzi dell’epoca. Ghita volentieri si circondava di bambini, parziale consolazione per lei dopo che la sua unica figlia Paola, generata dall’unione con Edgardo, era morta subito dopo la nascita e Ghita non aveva potuto avere altri figli. Sapeva essere anche molto severa, se occorreva, con i giovani clienti più indisciplinati. Dopo una quindicina di anni, anche per alcuni problemi di salute, Ghita passò la mano, ma il negozio, per alcuni anni, rimase in famiglia: dapprima a gestirla fu Gianpaolo Robbia e poi, in attesa di entrare di ruolo come maestra, Adelinda Baruzzi, fidanzata e poi moglie di Francesco Robbia.
Alla fine degli anni ’70 la cartoleria passò a Luisa Piancastelli in Emiliani (si veda la pubblicità del 1979) e il torchio della tipografia Robbia fu trasferito in via Pallantieri. Successivamente, con la denominazione di “Scarabocchio”, la cartoleria fu gestita da Sabrina De Giovanni e, nel 2014, da Patrizia Piancastelli che ha cessato l’attività nel 2022, curiosamente come la vecchia cartoleria “antagonista” negli anni ’50-’60.
Nel frattempo, però, l’intero edificio è stato acquistato dalle Figlie di San Francesco di Sales che hanno voluto così omaggiare il loro fondatore don Carlo Cavina, e alcune suore dell’ordine vi abitano già da alcuni anni.
E questa è la storia che siamo riusciti a scrivere anche grazie ai racconti di Gianpaolo Robbia, Sante Garofani (che ringraziamo anche per le notevoli fotografie messe a disposizione), Sergio Galeati, Paolo Leonelli e Paolo Grandi, sperando di non aver dimenticato qualche gestore della cartoleria.
Certo se i muri potessero parlare… Un giorno potrebbero raccontare che dall’8 al 18 dicembre 2024 la ex cartoleria ha ospitato anche la mostra di pittura di Rosetta Tronconi e scultura di Stefano Zaniboni dal titolo “Luce dell’Ombra”.
Su stimolo dei due artisti abbiamo scritto queste righe che speriamo siano gradite e possano essere arricchite, in futuro, di storie e di immagini. E magari sapremo presto la destinazione futuro dello spazio a pianterreno, oggi inutilizzato, che per decenni ha visto i bimbi entrare a comprare cancelleria e giocattoli.

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C’era una volta l’asilo nell’Orfanotrofio femminile Ginnasi… https://www.castelbolognese.org/miscellanea/cera-una-volta-lasilo-nellorfanotrofio-femminile-ginnasi/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/cera-una-volta-lasilo-nellorfanotrofio-femminile-ginnasi/#comments Tue, 26 Nov 2024 19:52:43 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12062 di Andrea Soglia Possiamo solo ipotizzare quando iniziò (e terminò) l’attività l'”Asilo Ginnasi” che si affiancava allo “storico” Asilo Camerini-Tassinari che era nato nel 1879: il disastro dell’alluvione ci ha portato via la possibilità di consultare gli archivi delle Opere Pie e di fare una ricerca puntuale, per cui, sperando …

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di Andrea Soglia

Possiamo solo ipotizzare quando iniziò (e terminò) l’attività l'”Asilo Ginnasi” che si affiancava allo “storico” Asilo Camerini-Tassinari che era nato nel 1879: il disastro dell’alluvione ci ha portato via la possibilità di consultare gli archivi delle Opere Pie e di fare una ricerca puntuale, per cui, sperando in un miracoloso recupero delle vecchie carte, al momento siamo obbligati a fare congetture.
Ospitato nei locali dell’Orfanotrofio femminile fondato nel 1935 da Maria Regoli Ginnasi, probabilmente l’Asilo Ginnasi cominciò a funzionare alla fine della guerra, andando in soccorso sia al disastrato Asilo Camerini che aveva dovuto trasferire la propria sede nel piccolo Villino Brunelli in attesa della ricostruzione della grande casa Dal Prato che Santina Sangiorgi aveva lasciato in beneficenza all’ente Asilo (ciò avverrà solo nel 1955, ndr), sia all'”asilo” che era attivo presso le suore Maestre Pie, i cui locali pure furono molto sinistrati. L’Orfanotrofio, che essendo ai margini del paese aveva subito pochi danni dai bombardamenti, riprese quasi subito a funzionare e i suoi ampi locali si rivelarono fondamentali per fare ripartire anche servizi scolastici quali l’Avviamento che, in attesa del recupero della Scuola Bassi, collocò alcune aule nei locali del seminterrato.
E probabilmente in questo periodo, come già anticipato, riteniamo possa essere iniziata l’attività dell'”Asilo Ginnasi”, anche se non possiamo escludere che fosse partita anche prima. I bimbi venivano accolti in una stanza a piano terra, che si affacciava sulla via Emilia nel lato sinistro dell’edificio, sotto la responsabilità di una delle suore “Figlie della Carità” che erano presenti nell’Orfanotrofio. A coadiuvare la suora responsabile (che era suor Maria Luisa) c’erano anche le orfanelle più grandi, che, specialmente nel pomeriggio, erano libere da impegni scolastici o altre mansioni all’interno dell’Orfanotrofio.
L'”Asilo Ginnasi”, che riteniamo possa aver funzionato fin quasi alla chiusura dell’Orfanotrofio nel 1969, rimane nella memoria di chi l’ha frequentato, fra cui Giuliana e Bruno Monte, Pina Dalpozzo, Iride Chiarini e Velella Garofani. E proprio dall’archivio di Velella Garofani è spuntata una grande foto di gruppo che ritrae le bimbe dell’Asilo nel 1950. Vestite quasi tutte con un grembiulino sul quale era ricamato il nome della proprietaria (ma non era raro che il nome fosse quello di una sorella o fratello maggiore da cui si era ereditato l’abito), le bimbe in posa nella foto ci forniscono una traccia indelebile dell’esistenza di un’istituzione che per alcuni decenni ha garantito un servizio fondamentale per i bimbi castellani.
Nell’attesa che spuntino altre notizie storiche o altre fotografie, per intanto vi proponiamo questa fotografia messa gentilmente a disposizione da Velella.
Velella Garofani e Iride Chiarini, compagne d’asilo, si sono sforzate, prima separatamente e poi in un incontro, di riconoscere tutte le bimbe (e un bimbo) ritratte nelle foto. Solo alcuni nomi non sono emersi, ed altri rimangono un po’ incerti, ma chissà, magari lanciando nel web la foto qualcuna delle “miss x” si riconoscerà o sarà riconosciuta.
Per intanto grazie a Velella e Iride, e a Sante Garofani che si è preoccupato di appuntare tutti i nomi che man mano emergevano dalla memoria di due delle ex bimbe dell’Asilo Ginnasi.

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La Madòna ‘d l’acva e la Madòna de sol: oltre alle preghiere e alle processioni delle “Rogazioni” https://www.castelbolognese.org/miscellanea/la-madona-d-lacva-e-la-madona-de-sol-oltre-alle-preghiere-e-alle-processioni-delle-rogazioni/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/la-madona-d-lacva-e-la-madona-de-sol-oltre-alle-preghiere-e-alle-processioni-delle-rogazioni/#respond Sun, 03 Nov 2024 17:29:31 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12017 di Paolo Grandi Oggi di fronte a questo clima impazzito qualcuno, forse a ragione, dice che la causa possa anche essere quella che non si prega più come una volta. Guardiamo allora in questo breve excursus come si pregava un tempo per ottenere l’intervento celeste sul clima. Le Rogazioni Le …

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di Paolo Grandi

Oggi di fronte a questo clima impazzito qualcuno, forse a ragione, dice che la causa possa anche essere quella che non si prega più come una volta. Guardiamo allora in questo breve excursus come si pregava un tempo per ottenere l’intervento celeste sul clima.

Le Rogazioni

Le Rogazioni sono processioni propiziatorie sulla buona riuscita delle seminagioni, arricchite di preghiere e atti di penitenza. Hanno la finalità di attirare la benedizione divina sull’acqua, il lavoro dell’uomo e i frutti della terra e si tenevano nei tre giorni che precedono la festa dell’Ascensione, cioè lunedì, martedì e mercoledì quando l’Ascensione era sempre il giovedì, quarantesimo giorno dopo la Domenica di Pasqua. L’origine di questo rito risaliva al sec. V in Gallia, nel Delfinato, dove dopo varie calamità naturali e un terremoto, il vescovo Mamerto di Vienne indisse un triduo di preghiera e digiuno insieme a solenni processioni verso le chiese della sua diocesi. La pratica poi si diffuse e venne estesa a tutta la cristianità nei secoli successivi. Da Roma, dove il rito fu introdotto da papa Leone III nell’816, la pratica religiosa si propagò in tutte le parrocchie per chiedere la protezione divina sul lavoro dei campi e sui frutti della terra. La processione partiva dalla chiesa parrocchiale di buon mattino e, al canto delle litanie dei Santi, si percorrevano anche lunghi itinerari. Nei tre giorni veniva raggiunta tutta la superficie della parrocchia, anche se vasta. Significative le soste in punti particolari del percorso per speciali invocazioni accompagnate dalla benedizione con la croce o con l’immagine della Vergine verso i quattro punti cardinali. La preghiera che si recitava, prima del Concilio in latino, poi in italiano così diceva: «Ab omni malo, libera nos Domine», cioè: «Da ogni male, liberaci, o Signore»; «A fulgure, et tempestate, libera nos Domine», cioè: «Dal fulmine e dalla tempesta, liberaci, o Signore»; «A peste, fame, et bello, libera nos Domine», ovvero: «Dalla peste, dalla fame e dalla guerra, liberaci o Signore»; «A flagello terraemotus, libera nos Domine», ossia: «Dal flagello del terremoto, liberaci o Signore»; «A subitanea et improvvisa morte, libera nos Domine», cioè «Dalla morte improvvisa, liberaci, o Signore» . Seguivano poi le seguenti invocazioni. «Ut misericordia et pietas tua nos custodiat, te rogamus audi nos» cioè «Affinché noi siamo custoditi per la tua pietà e misericordia, ti preghiamo, ascoltaci»; «Ut Ecclesiam tuam sanctam redigiri, et conservare digneris, te rogamus audi nos» cioè «Affinché tu ti degni di indirizzare e conservare la tua santa Chiesa, ti preghiamo, ascoltaci»; «Ut Episcopos et Praelatos nostros, et cunctas congregationes illis commissas in tuo sancto servitio conservare digneris, te rogamus audi nos» cioè «Affinché tu ti degni di conservare i Vescovi, i Prelati e tutte le Congregazioni a loro assegnate per il tuo santo servizio, ti preghiamo, ascoltaci»; «Ut cunctum populum christianum pretioso tuo sanguine redemptum conservare digneris, te rogamus audi nos» cioè «Affinché ti degni di conservare l’intero popolo cristiano redento dal tuo prezioso Sangue, ti preghiamo, ascoltaci»; «Ut fructus terrae dare, et conservare digneris, te rogamus audi nos» cioè «Affinché ti degni di darci e conservarci i frutti della terra, ti preghiamo ascoltaci»; «Ut pacem nobis dones, te rogamus audi nos» cioè «Affinché tu ci dia la pace, ti preghiamo, ascoltaci»; «Ut loca nostra et omnes abitantes in eis visitare et consolari digneris, te rogamus audi nos» cioè «Affinché tu ti degni di visitare e consolare tutti gli abitanti dei nostri luoghi, ti preghiamo, ascoltaci»; «Ut civitatem istam, et omnem populum ejus protegere, et conservare digneris, te rogamus audi nos» cioè «Affinché ti degni di conservare e proteggere tutto il popolo di questa città, ti preghiamo, ascoltaci»; «Ut omnibus fidélibus defunctis requiem aeternam dones, te rogamus audi nos» cioè «Affinchè tu doni il ripo eterno a tutti i tuoi fedeli defunti, ti preghiamo, ascoltaci»; « Ut nos exaudi dignéris, te rogamus audi nos» cioè «Affinché tu ti degni di esaudirci, ti preghiamo, ascoltaci». E il rito si chiudeva con la benedizione ai presenti, alla città e alla campagna. Teresa Giacometti Rosato ricorda il passaggio della processione delle Rogazioni lungo il Viale Cairoli e la sosta davanti alla chiesina della Villa Centonara ove veniva impartita la Benedizione nella pubblicazione “Il voto della Pentecoste e la tradizione religiosa castellana “ edita in occasione del 350mo anniversario dalla preservazione della peste nel 1981.
Nella parrocchia di San Petronio le processioni delle Rogazioni furono sospese nella seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso. Infatti, con la soppressione delle feste infrasettimanali la solennità dell’Ascensione, che veniva dieci giorni prima della solennità della Pentecoste, fu portata alla domenica precedente la Pentecoste, cosicché le tre processioni delle Rogazioni si vennero a trovare a poco più di una settimana da quelle votive di Pentecoste, anch’esse nel numero di tre. Durante le processioni delle Rogazioni veniva trasportata per le strade cittadine l’immagine della Madonna della Cintura che si trova nell’altare centrale della navata destra di San Petronio. Con la soppressione delle processioni delle Rogazioni durante le processioni di Pentecoste, negli angoli estremi raggiunti dalla sacra Immagine, si dicono tuttora le preghiere e le invocazioni che un tempo erano recitate per le Rogazioni.
In molte parrocchie di campagna di Castel Bolognese si tengono tuttora le processioni delle Rogazioni, così come in altre Parrocchie della nostra Diocesi e, con la massima solennità nella città di Imola ove viene portata solennemente in Cattedrale l’immagine della B. V. del Piratello.

La Madòna ‘d l’acva

In caso di prolungata siccità veniva scoperta l’immagine della Madonna della Cintura in San Petronio. Parlo di scopertura poiché le Immagini per le quali vi era maggiore devozione venivano tenute normalmente coperte e la loro apparizione era solo per le rispettive festività o per avvenimenti speciali. Per esempio ricordo da bambino che durante la Novena dell’Immacolata, mentre si recitava il Rosario l’immagine era nascosta dietro l’altare ed iniziava a salire solo durante il canto delle Litanie. Ebbene, con l’Immagine scoperta poteva venire indetto un Triduo o una Novena e, in casi gravi di siccità prolungata, la si portava in processione.

La Madòna de Sol

Se invece era in corso un periodo di maltempo con piogge abbondanti e prolungate si provvedeva a scoprire in San Francesco l’immagine della Madonna della Concezione, Patrona cittadina e invocata per il ritorno del meteo favorevole. Anche in questo caso, se la sola scopertura, col concorso delle preghiere dei fedeli non bastava, si ricorreva a Tridui, Novene ed anche a processioni in casi particolarmente gravi.

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Echi dei cantastorie di 80 anni fa https://www.castelbolognese.org/miscellanea/echi-dei-cantastorie-di-80-anni-fa/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/echi-dei-cantastorie-di-80-anni-fa/#respond Fri, 25 Oct 2024 17:18:24 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12008 di Andrea Soglia Un tempo il cantastorie (come scrive il sito del Museo storico della giostra) era tra i protagonisti della vita quotidiana di un paese. Vi era tanta gente che accorreva per ascoltare dalla sua viva voce le notizie del giorno, fatti delittuosi, avvenimenti realmente accaduti, storie fantastiche illustrate …

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di Andrea Soglia

Un tempo il cantastorie (come scrive il sito del Museo storico della giostra) era tra i protagonisti della vita quotidiana di un paese. Vi era tanta gente che accorreva per ascoltare dalla sua viva voce le notizie del giorno, fatti delittuosi, avvenimenti realmente accaduti, storie fantastiche illustrate su grandi tabelloni che rendevano visibili la scienza per un pubblico per lo più analfabeta.
Di certo i cantastorie si aggiravano dalle nostre parti anche nel periodo della Seconda guerra mondiale e, soprattutto, nel periodo immediatamente seguente alla sua fine, quando finalmente era tornata la libertà di parola.
Vi proponiamo quattro brani, a cui abbiamo attribuito un titolo estrapolato dal testo, parodie di brani molto famosi, che sono rimasti nella memoria di due nostri concittadini, Franca Ricchi e Terigio Pandolfi.
Al periodo più buio, del 1944, risale il testo che ci ha cantato Franca Ricchi, sulle note dell’inno fascista All’armi (siam fascisti). A Franca l’ha trasmesso il padre, che l’aveva appreso da un giovane (con fisarmonica) che era ricoverato con lui all’ospedale di Imola. Franca ce l’ha gentilmente cantato e l’abbiamo filmata (amatorialmente) durante la mattina di un mercato del venerdì. Si canta l’inferno della guerra, con la speranza del ritorno del “buonumor”. Chissà, magari il giovane ricoverato ad Imola era un cantastorie rimasto ferito… oppure un musicista di una qualche importanza. Di certo le parole sono di una attualità disarmante.
Ecco il testo:

“Di all’armi siamo stanchi”

All’armi
Di all’armi siamo stanchi
le mine son nei campi
La guerra è diventata cosa seria
non ci ha lasciato altro che miseria
Feriti e morti siamo tanti e tanti
i vivi non san come andare avanti
O Padreterno, questo è l’inferno
distrugge il mondo senza aver pietà
Ma una speranza in fondo al cuor
che il buonumor
ritornerà

Nel 2013 l’indimenticato Terigio Pandolfi ci aveva dettato i testi di tre canzoni che aveva sentito (e memorizzato) da un cantastorie transitato a Castel Bolognese qualche tempo dopo la fine della guerra.
Sulle note di “Lili Marleen” si cantava la fine dei dittatori Hitler e Mussolini.

“Son morti gli assassin”

O Mussolini infame traditor
fosti tu in Italia a spargere il terror
Ma non sei solo, un altro c’è
che è una carogna più di te
Sono due gli assassin
Hitler e Mussolin

O Mussolini tu t’alleasti un dì
con l’infame Hitler che fece noi soffrir
tutta l’Italia la spogliò
persino i treni li diportò
Ma il giorno è giunto già
che la Germania pagherà

Son stati fatti i loro funeral
sopra c’era scritto son morti gli animal
Nessun pianto o ben si sa
e tutto il mondo canta già
son morti gli assassin
Hitler e Mussolin

Sulle note di “In cerca di te (perduto amor)” di Natalino Otto, nota anche come “Solo me ne vo per la città”, si cantava invece la fame che si pativa e il terribile flagello della borsa nera.

“Con la sporta vo per la città”

Con la sporta vo per la città
oggi da mangiare che si fa
perché col mercato nero
io sono a zero
che li possino ammazzar

Io cerco invano di economizzar
però la fame non si può scordar
d’un pollo arrosto non ricordo più il sapor
quattro patate un po’ di pane e un pomodor
sempre così tutti i dì

Con la sporta vo per la città (rit.)

Sulle note di “E’ arrivato l’ambasciatore” del Trio Lescano si cantava invece la fine della dittatura e la speranza di un nuovo inizio, tutti in fratellanza.

“E’ arrivato l’ambasciatore”

E’ arrivato l’ambasciatore con la falce e col martello
è arrivato l’ambasciatore è sparito il manganello
Se uniti saremo tutti contro gli approfittator
su compagni al lavor siamo tutti fratel
ora basta col manganel

Per vent’anni abbiamo patito col regime di schiavitù
se non eri iscritto al partito di parlare non avevi diritto
soffocavano tutte le idee con la forza strozzavan i pensier
ma gli eventi del mese d’aprile hanno fatto gioire tutto il mondo inter

E’ arrivato l’ambasciatore (rit.)

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Quatar ciacar s’e’ Pont ‘d Zola https://www.castelbolognese.org/miscellanea/quatar-ciacar-se-pont-d-zola/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/quatar-ciacar-se-pont-d-zola/#comments Sat, 21 Sep 2024 22:23:37 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11984 di Andrea Soglia Era un salotto molto particolare, esauritosi alla fine degli anni ’80, quello de e Pont d’Zola. Io l’ho visto con i miei occhi e non l’ho mai dimenticato, e quando uno dei figli di Pippo ed Pilastar (morto recentemente) me l’ha rammentato, mi è venuta una botta …

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di Andrea Soglia

Era un salotto molto particolare, esauritosi alla fine degli anni ’80, quello de e Pont d’Zola. Io l’ho visto con i miei occhi e non l’ho mai dimenticato, e quando uno dei figli di Pippo ed Pilastar (morto recentemente) me l’ha rammentato, mi è venuta una botta di nostalgia, soprattutto perché tanti dei “salottieri” non ci sono più.
All’incrocio della via Casanola con la via Rezza c’è tuttora un ponticello che consente di attraversare il grande fossato che costeggia la via Casanola per alcuni chilometri. Un fossato soggetto a piene violente in caso di forti piogge, ma che generalmente vedeva o, meglio, sentiva un fiume di chiacchiere, rigorosamente in dialetto, che si alzavano soprattutto nelle sere d’estate: le chiacchiere che si facevano sul Ponte di Zola, che prendeva il nome dalla grande casa colonica che sorge al suo fianco, affacciata sul grande fosso. Per tanti anni il Ponte aveva goduto dell’ombra di un’enorme e bellissima betulla, e quindi anche di giorno poteva capitare di sostare lì a chiacchierare.
Le due spallette in cemento del Ponte erano utilizzate come panchine su cui sedevano le persone che vivevano nei dintorni. E non erano poche.
Naturalmente i primi ad animare il Ponte erano i componenti della famiglia Cani, i Zola, e soprattutto i loro “vecchi”. Ho ancora nelle orecchie la risata particolare di Fina d’Zola (Giuseppe), personaggio molto simpatico e infaticabile agricoltore. Altrettanto simpatico era Tolmito (in italiano Tolmeito), fratello di Fina, del quale però non ho troppi ricordi perché morto all’inizio degli anni ’80: mio padre diceva sempre, però, che aveva la capacità di muovere le orecchie, alla stregua di quello che faceva Stanlio in una delle tante comiche girate assieme ad Ollio, e le risate a crepapelle le strappava anche Tolmito. Per anni mi sono chiesto da dove derivasse quel nome particolare, finché non ho scoperto che in Libia esiste la città di Tolmeita e sono arrivato alla conclusione che c’entrasse la guerra di Libia, che era in corso quando nacque Tolmeito e forse suo padre o un altro familiare l’avevano combattuta. Ricordo con tanto affetto sua moglie Delinda, sempre gentile con i bimbi del vicinato, morta molto anziana e che ho rivisto tante volte in giro per Castello. Un terzo fratello, Pavlì, era già praticamente cieco all’epoca in cui frequentavo il ponte, e spesso rimaneva in casa. I figli di Pavlì e Tolmito partecipavano al salotto, soprattutto Pierino.
E poi c’erano gli abitanti della borgata di 6 case che costeggia la via Casanola, sulla sinistra, subito dopo l’incrocio con la via Rezza. La borgata veniva detta “la Piccola Russia”, come mi ha raccontato Andrea Sagrini che tuttora abita lì. E quindi sul Ponte si riversavano anche loro, a cominciare dai Gadò, che lasciando accesa la luce esterna della loro casa davano anche un po’ di illuminazione al salotto. Gigì, sua madre Maria, suo zio Carlo (che chiamavano Badoglio, ma il motivo non l’ho mai saputo e lui non gradiva nemmeno molto il soprannome) e i giovanissimi della famiglia venivano sul Ponte. Poi uno dei più assidui era Lucio Sagrini, nonno di Andrea, altra persona che ricordo con affetto per la sua enorme simpatia. Quando veniva a trovarci nella casa dei miei nonni, gli leggevo le barzellette di Gino Bramieri da un vecchio libro e lui, che era quasi cieco, rideva con un gusto che non ho mai più sentito. Leggendaria la sua gag che raccontava spesso, ossia quella di voler fare i “cosp” (gli zoccoli) con mezzi gusci di noce per le zampine della sua gatta Pirisghì (l’altra si chiamava Fufa), in modo tale che si potesse difendere dai rigori dell’inverno. Suo figlio Rino, che per fortuna c’è ancora, ha ereditato da lui il gusto per la battuta e naturalmente partecipava anche lui al ponte, assieme agli altri “piccoli russi”, fra cui “Gigiaza” e Liliana, a cui mia mamma ha continuato a fare visita per tantissimi anni.
E poi c’eravamo anche noi, quando d’estate si faceva tardi in campagna nella casa dei nonni, che tuttora, seppur malmessa, si trova in fondo alla stradina che si prende a sinistra dell’incrocio del ponte.
Non mancavano al salotto i Carampà, che abitavano più in là in via Rezza nella casa detta “del Patater” ma si erano portati dietro il soprannome del podere dove vivevano in precedenza e che ora hanno costruito la nuova casa a due passi dal ponte. E naturalmente si spingevano fino al Ponte gli abitanti dal “Quatar cà”, quelle dell’incrocio più verso Castel Bolognese fra le vie Casanola, Gradasso e Farosi: i Pilastar, i Gambarò, i Gatera.
E poi si aggregavano saltuariamente coloro che transitavano da via Casanola a cui, immancabilmente, si dava “la baia”, visto che ci si conosceva tutti. E fra i tanti che si fermarono almeno una volta al Ponte, pare che ci sia stato anche il grande politico Benigno Zaccagnini.
I Zola si trasferirono poi a Castel Bolognese e il ponte, man mano, si spopolò e perse anche la sua ombra, quando la betulla fu abbattuta non senza rammarico di diverse persone…
Altri tempi, quelli in cui bastavano due spallette di cemento per aggregare allegramente tante persone… Impossibile, per chi li ha vissuti, non averne nostalgia…
“Bôna!”, come diceva Fina quando a sera tarda si alzava dal Ponte e andava a dormire.

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Cinquant’anni di trenini https://www.castelbolognese.org/miscellanea/cinquantanni-di-trenini/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/cinquantanni-di-trenini/#comments Wed, 11 Sep 2024 17:11:33 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11950 di Paolo Grandi Il prologo Estate 1974; siamo in tre amici sedicenni comodi sul dondolo a programmare che cosa si possa fare in queste vacanze scolastiche appena iniziate. Uno di noi, Fabio Camerini, possiede una cantina attrezzatissima e fresca per mitigare la canicola e lì ha inchiodato sopra un asse …

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di Paolo Grandi

Il prologo

Estate 1974; siamo in tre amici sedicenni comodi sul dondolo a programmare che cosa si possa fare in queste vacanze scolastiche appena iniziate. Uno di noi, Fabio Camerini, possiede una cantina attrezzatissima e fresca per mitigare la canicola e lì ha inchiodato sopra un asse i binari della sua ferrovia in scala H0; io ho una modesta collezione di treni H0 Rivarossi provenienti da un regalo della Befana di nove anni prima che si sono aggiunti alle scatole di mio fratello mettendo assieme le quali si può fare un grande ovale con stazione; Filippo Bosi ha una discreta mano nel dipingere. Poi ci passano per le mani un catalogo Faller, costruttore di edifici e stazioni in scala per i plastici, e un residuo di polistirolo comprendente un pezzo cilindrico; quel polistirolo così in un pomeriggio si trasforma nelle rovine del castello presentate dal catalogo Faller. Ma la domanda ora è: cosa ce ne facciamo? Io da tempo avevo pensato di costruirmi un plastico ferroviario e ne avevo già scelto uno, modesto nelle dimensioni, dal “Manuale dei circuiti e dei tracciati” di Rivarossi. Ed ecco cosa fare quest’estate: costruiremo quel plastico nella mia stanza da studio avvalendoci delle competenze che ognuno di noi tre ha e con la minor spesa possibile.

Il primo plastico

Acquistato il piano di legno truciolato della misura richiesta dai “fratelli Villa” che ancora tenevano l’attività al Serraglio di Castel Bolognese, e appoggiatolo al mio tavolo da studio, con gli avanzi in polistirolo delle confezioni realizzammo case e paesaggio (alberi e monti compresi…), con i refill vuoti delle penne biro, una lampadina dell’albero di Natale (i famosi “pisellini”) ed un cono di cartoncino vennero autocostruiti i lampioni e presso un negozio della vicina Faenza, il rimpianto Re Artù che noi tre raggiungemmo in bicicletta, comprai la stazione in rigoroso stile germanico: Zeven. Dal babbo di Fabio Camerini, Giovanni, che allora lavorava in Comune, ottenemmo dei manifesti scaduti che riutilizzammo, incollandoli assieme, per dipingervi con i colori a tempera lo sfondo montuoso che poi fu riutilizzato anche nei plastici successivi, adattandolo alle pareti. Mancava qualche spezzone di binario? La cara Cleofe nel suo negozio/emporio aveva anche quelli Rivarossi e lì mi recavo a comprarne. Il nuovo plastico era l’attrazione di tutto il vicinato e noi tre passavamo interi pomeriggi ad affinarlo, abbellirlo e a far girare i modelli disponibili. Ma alla fine dell’estate però la stanza mi serviva per studiare e… quindi? Ecco venirmi in aiuto la zia Virginia, prima finanziatrice del nuovo arrivo sui binari: la gr 740-233 acquistata a Bologna presso il negozio “Fratelli Pesaro”, che allora si trovava in via Manzoni nell’ex Seminario e dove compravi i trenini sotto le volte affrescate da Guido Reni; la zia si offrì di ospitare il plastico in una stanzetta che, salvo un armadio, era vuota. Il plastico venne portato là e appoggiato a terra, ma subito mi resi conto che occorreva sollevarlo per giocarci meglio ed intervenire nell’impianto elettrico in caso di guasti. Chiesi perciò al falegname Celso Poletti di fabbricarmi tre cavalletti, tuttora in uso, per appoggiarvi il plastico e nel frattempo lo ingrandii con uno scalo merci ed una linea secondaria che portava in un’altra località. La zia, insegnante di italiano, latino, storia e geografia mi impartiva almeno una volta la settimana una lezione di latino e questa terminava, ovviamente, davanti al plastico; anche la domenica mattina, dalle 9 fino alle 11 era tempo dedicato a far muovere i treni, poi seguiva la Messa alle 11.15 in San Petronio, chiesa che era a fianco della casa della zia. La prima “flotta” di materiale rotabile comprendeva una locomotiva gr 835-296 Rivarossi, il locomotore elettrico E424-241 Lima e un locomotore diesel SNCF BB67000 sempre Lima. Le carrozze passeggeri: 2 centoporte a due assi Rivarossi, con relativo bagagliaio a due assi, 2 “Corbellini” Lima. Carri merce: 2 pianali Rivarossi di cui uno con carico di legna, un carro a sponde alte, altri due carri chiusi, il tutto Rivarossi.

Il secondo plastico

Autunno 1977: cominciai l’Università scoprendo gli allora tanti negozi di Bologna che vendevano modellismo ferroviario e per tutto il quadriennio di Giurisprudenza iniziai un acquisto compulsivo che mi portò prima ad ampliare il plastico, a sostituire gli edifici con scatole di montaggio Faller o Vollmer, dando così all’abitato quello stile d’oltralpe che, volendolo ambientare in Italia, mi convinse poi ad intitolare la stazione “Fortezza”. Poi rifeci il plastico completamente, con un nuovo tracciato, sempre preso dal manuale Rivarossi, mentre non si fermava l’acquisizione di modelli per arricchire il “deposito” di casa che era anche materialmente cresciuto con la piattaforma girevole e quattro rimesse Rivarossi. Tra gli edifici, era posta davanti alla stazione una fontana con monumento che funzionava con l’acqua vera; ma, tuttavia, fu foriera molto spesso di allagamenti!
Nel secondo plastico spiccava una stazione con tre binari e possibilità di precedenze ed incroci; comprai una nuova stazione: Altenstein, ed il primo edificio, Zeven, divenne il capolinea della linea secondaria. Per realizzare i rilevati, dopo l’esperimento del polistirolo e poi del gesso, questa volta utilizzai colla e carta da giornale con buon esito. In un primo tempo montai anche una funivia, funzionante, i cui meccanismi furono ricavati dalla mia scatola del “meccano” e le cabine vennero realizzate in polistirolo. Essendo il tracciato tutto formato con materiale Rivarossi, posai i binari sulla massicciata in gommapiuma della stessa Rivarossi ma, tuttavia, dopo alcuni anni, ebbi la sgradita sorpresa di vederla sgretolarsi e così deformare il tracciato.
Ma ciò non bastava; la passione si allargò alla storia ferroviaria ed alle riviste di modellismo; acquistai libri e mi abbonai all’indimenticabile “Italmodel Ferrovie” e quando quella rivista cessò la pubblicazione, di buon grado acquistai il numero 1 di “I Treni – oggi”, e da allora ne sono abbonato. Nei primi anni ’80 feci una modifica importante: scoperti gli scambi in curva riuscii ad allungare il primo binario della stazione; trovai banchine e pensiline compatibili col ridotto spazio lasciato nell’interbinario e, finalmente, acquistai la riproduzione Faller della stazione di Bonn, che ben si adattava ad un plastico in stile italiano e la ribattezzai “Fortezza”; questa è da allora la protagonista dei miei impianti.
Terminata anche l’Università cominciai la pratica forense in uno Studio Legale di Faenza che, ahimè (…o per fortuna!), era distante pochi metri dal negozio di Re Artù che visitavo così quasi quotidianamente; e nella stanza della zia i treni stavano sempre più stretti… Quindi venni assunto al Ministero della Giustizia, cominciai a lavorare nelle piccole Preture della campagna bolognese, poi nel Capoluogo; non mi sembrava vero di ricevere mensilmente uno stipendio parte del quale avrebbe potuto finanziare la ferrovia di casa: fino ad allora, infatti, gli acquisti avvenivano dopo aver opportunamente risparmiato sulla magra paghetta, dagli introiti di un lavoretto che mi occupava non più di un’oretta al giorno e dalla bontà infinita di mia zia Virginia.

Il plastico “matrimoniale”

Nel 1991, nella nuova casa di Viale Cairoli 11/A che sarebbe diventata la casa coniugale dopo il matrimonio del giugno 1992, presi possesso di una stanza di sufficiente ampiezza, era stato lo studio medico di mio fratello, ed iniziai un nuovo plastico, liberando definitivamente la zia Virginia. Questo fu studiato da me per sfruttare l’intera stanza oblunga ed abbandonando il sistema Rivarossi orientandomi verso l’armamento Peco che dopo questa esperienza ho sempre adottato. Al centro del plastico una grande stazione di diramazione con cinque binari per i passeggeri e tre per il fascio merci, attraversata da una linea a doppio binario che poi si dipanava in un grande ovale lungo la stanza e dalla stazione partivano due linee a semplice binario che si concludevano, la prima in una stazione secondaria, la seconda all’interno di una galleria; alla stazione era collegato il deposito delle locomotive con piattaforma girevole e quattro depositi. Ed il plastico fu terminato in occasione di un secondo trasloco.

Nella casa di via Bargero 80

Anche nella nuova casa acquistata nel 1996 c’era una stanza, seppure più piccola e quadrata, da dedicare al modellismo ferroviario e lì nacque un nuovo plastico adattando nelle misure quello precedente. Recuperai la stazione, il deposito delle locomotive e lo impostai come il precedente. La diversa dimensione della stanza, tuttavia, mi obbligò a modellare un percorso a spirale per conservare modeste le pendenze. Questo plastico è immortalato nel “corto” realizzato dall’amico Francesco Minarini dal titolo: “Grandi…piccoli”.

E oggi in Viale della Repubblica

Ma i traslochi non erano finiti: infatti dal 2006 la nuova casa ha una ampia mansarda con due enormi stanze, la prima delle quali è dedicata a studio e la seconda al nuovo, quinto plastico, talmente enorme che dopo tanti anni non è ancora completato anche perché da un lato ci sono tanti impegni da assolvere, dall’altro la voglia di fare tutto con precisione quasi maniacale. Anche quest’ultimo plastico conserva la stazione così come impostata nel 1991 con cinque binari per i passeggeri e tre per il fascio merci, anche qui attraversata da una linea a doppio binario che poi si dipana in un grande ovale lungo la stanza e dalla stazione partono due linee a semplice binario che si concludono, la prima in una stazione secondaria, la seconda all’interno di una galleria; alla stazione è collegato il deposito delle locomotive con piattaforma girevole e quattro depositi. Dall’altro lato della stazione v’è il deposito diesel con le macchine in sosta. Novità di questo plastico sono due stazioni nascoste con cinque binari che permettono così di far circolare più treni impostando un orario, oppure, manovrando opportunamente gli scambi non visibili, di trasformarlo in un ovale. Una sola cosa non muta in tutti plastici finora realizzati: la prima torre di polistirolo che svetta tuttora sopra uno dei rilievi di cartapesta.
Di pari passo la collezione dei modelli è cresciuta fino ad oggi raggiungendo, per ora, i 1.328 modelli. Il materiale motore: locomotori elettrici, locomotive a vapore, locomotori diesel, automotrici ed elettromotrici sono, salvo qualche unità, tutti appartenenti alle ferrovie italiane, con predilezione per gli anni del secolo scorso. Vetture passeggeri e carri merci invece appartengono alle più disparate compagnie ferroviarie europee, con maggior attenzione ai veicoli italiani.
In particolare, il deposito conta 91 locomotive a vapore, 100 locomotori elettrici, 33 locomotori termici, 27 locomotive da manovra, 181 automotrici termiche, elettriche e rimorchi, 592 vetture passeggeri e 304 carri merce.
Quando qualcuno, sentendo ciò, mi dice che sono malato di treni rispondo che effettivamente sono un malato cronico ed ormai incurabile, destinato a conviverci, spero ancora per lungo tempo, con il vantaggio che poi questa malattia non provoca dolore, anzi ti rende felice e ti riserva tante soddisfazioni.

Galleria fotografica

1974 (fotografie di Giovanni e/o Fabio Camerini)

1975 (fotografie di Giovanni e/o Fabio Camerini)

1978 (fotografie di Giovanni e/o Fabio Camerini)

1985 (fotografie di Giovanni e/o Fabio Camerini)

1993 (fotografie di Paolo Grandi)

1994 (fotografie di Paolo Grandi)

2005 (fotografie di Paolo Grandi)

2021 (fotografie di Paolo Grandi)

2022 (fotografie di Paolo Grandi)

2024 (fotografie di Paolo Grandi)

 

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I sessant’anni della Chiesa dell’Autostrada, tappa dell’itinerario Bianciniano https://www.castelbolognese.org/miscellanea/arte-e-musica/i-sessantanni-della-chiesa-dellautostrada-tappa-dellitinerario-bianciniano/ https://www.castelbolognese.org/miscellanea/arte-e-musica/i-sessantanni-della-chiesa-dellautostrada-tappa-dellitinerario-bianciniano/#respond Sat, 10 Aug 2024 15:38:17 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11868 di Paolo Grandi Durante le fasi costruttive dell’Autostrada del Sole, che si compirono il 4 ottobre 1964 con l’inaugurazione dell’ultimo tratto e dopo solo sei anni dall’inizio dei lavori, la Società Autostrade pensò di edificare una chiesa per ricordare i numerosi caduti sul lavoro durante la costruzione dell’imponente opera. Il …

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di Paolo Grandi

Durante le fasi costruttive dell’Autostrada del Sole, che si compirono il 4 ottobre 1964 con l’inaugurazione dell’ultimo tratto e dopo solo sei anni dall’inizio dei lavori, la Società Autostrade pensò di edificare una chiesa per ricordare i numerosi caduti sul lavoro durante la costruzione dell’imponente opera. Il posto venne scelto simbolicamente perchè è situato alla metà esatta del percorso tra Milano e Roma ed all’incrocio con la già presente autostrada Firenze – mare. Nel settembre 1960 l’incarico per la realizzazione dell’edificio fu affidato a Giovanni Michelucci, architetto che già si era espresso a Firenze realizzando la bellissima e modernissima stazione di Santa Maria Novella.
Il progettista la ideò come una tenda, una sosta, un luogo di silenzio e di preghiera. Allorquando infatti il famoso architetto accettò l’incarico, scrisse e propose: «il concetto strutturale al quale mi sono ispirato è semplice, mi sembra e l’ho chiarito nel primo schizzo che ho fatto: una tenda portata da quattro bastoni». E tale infatti è, fatte le dovute proporzioni, la Chiesa, grandiosa e capace di contenere anche 800 persone. È la tenda dei nomadi del popolo eletto, dei popoli antichi, e dei popoli anche dell’epoca moderna che non hanno una terra stabile; è in fondo la tenda di ogni uomo che è pellegrino verso il Cielo.
La chiesa, dedicata a San Giovanni Battista fu consacrata dall’allora Arcivescovo di Firenze cardinale Ermenegildo Florit il 5 aprile 1964; da allora in poi migliaia di pellegrini, gruppi parrocchiali, viaggiatori, turisti, ingegneri, architetti sono entrati nella “tenda”: chi per pregare e cercare il silenzio e chi per ammirare l’opera architettonica di Michelucci. Spicca tra tutti, il nome di Karol Wojtyla, futuro Giovanni Paolo II, il quale il 14 novembre 1965, allora vescovo ausiliare di Cracovia, si recava a Roma per il Concilio Vaticano II, e qui si fermò, scrivendo nel registro questa dedica-augurio: «Deus adiuvet in ministerio» (Dio aiuti nel vostro servizio).
L’interno è preceduto da un ampio nartece, avente da una parte la funzione di introibo alla chiesa e dall’altra quella di una galleria atta ad ospitare i grandi bassorilievi raffiguranti tutte le città collegate dalla nuova autostrada. La planimetria è molto articolata e richiama l’architettura paleocristiana; la forma della pianta è stata di volta in volta collegata al tema della nave, cioè l’Arca della Salvezza, della montagna, riferendosi al sacrificio del Calvario e dell’albero: l’albero della vita.
Nello spazio centrale si affaccia un soppalco che richiama al matroneo delle chiese romaniche, in pratica una seconda chiesa con altare che il Michelucci immagina come l’altare degli sposi. Qui è pure posto l’organo con 1.600 canne. Infine, un percorso a spirale conduce al battistero, con al centro il fonte battesimale (monolite in granito con coperchio in bronzo di Enrico Manfrini raffigurante l’Arca di Noè, la Crocifissione e la Resurrezione) e su di un lato una statua in bronzo di San Giovanni Battista, e quindi a un’uscita sul fronte Est.
Numerose opere d’arte ornano l’edificio sacro: vi sono le sculture di Emilio Greco, il Crocifisso di Iorio Vivarelli , il portone di bronzo di Pericle Fazzini che nell’insieme costituiscono uno degli esempi di architettura sacra moderna più solidi e affascinanti. Ma anche ad Angelo Biancini fu chiesta un’opera: si tratta di un altorilievo in pietra arenaria raffigurante le Nozze di Cana che adorna, appunto, il cosiddetto Altare degli Sposi.
Esaminando la scultura, pare che Biancini abbia fissato la scena raccontata nel Vangelo di Giovanni nel momento in cui Maria dice al figlio: «Non hanno più vino» e Gesù le risponde: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora»; madre e figlio infatti stanno in primo piano, quasi dandosi la mano, con la Madonna leggermente china davanti al Figlio. Dietro di loro si avvicina un servitore al quale tosto Maria dirà: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».ed alcune giare piene d’acqua gli sono vicine. In secondo piano, ignari di tutto ciò che sta accadendo, stanno a tavola gli invitati di nozze.

Bibliografia di massima:
-https://www.artesvelata.it/chiesa-autostrada-michelucci/
-https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/l-anniversario-della-chiesa-sulla-a1-luogo-di-passaggio/
-https://www.comune.campi-bisenzio.fi.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/3347/

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