Fatti Storici Archives - La Storia di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/category/fatti-storici/ Mon, 13 Jan 2025 18:07:53 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.7.1 Gennaio 1945: notte fonda https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/gennaio-1945-notte-fonda/ https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/gennaio-1945-notte-fonda/#respond Mon, 13 Jan 2025 18:07:53 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12223 di Paolo Grandi 1- Si prolunga la sosta del fronte Ormai il fronte si era stabilizzato sul Senio da due settimane; i due eserciti: alleato e tedesco si fronteggiavano e, con alterne vicende e perdite umane, dal primo venivano conquistati lembi di terra poi persi quasi subito. A farne le …

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di Paolo Grandi

1- Si prolunga la sosta del fronte

Ormai il fronte si era stabilizzato sul Senio da due settimane; i due eserciti: alleato e tedesco si fronteggiavano e, con alterne vicende e perdite umane, dal primo venivano conquistati lembi di terra poi persi quasi subito. A farne le spese era l’abitato di Castel Bolognese e la sua campagna, entrambi devastati dalla furia dei combattimenti. Meteorologicamente, il 1944 si era chiuso sotto una fitta nevicata che continuò anche nel giorno di Capodanno. In questa mattina, siccome nel crollo del campanile di S. Francesco era rimasto salvo un piccolo locale attiguo alla Sacrestia che conteneva parecchi arredi, con l’aiuto di alcuni sfollati questi furono estratti con grande fatica ed enormi rischi e trasportati nel Monastero delle Domenicane sotto la guida di don Garavini. Notevole attività aerea e di artiglieria si registrò senza sosta notturna- nei primi cinque giorni del mese. Poi un’altra nevicata fermò i belligeranti per alcuni giorni, salvo qualche sparo qua e là. Ma fu calma apparente e Franco Ravaglia ci elenca bombardamenti ed incursioni aeree quotidiane per tutti i restanti giorni di gennaio. Il bombardamento del 24 gennaio infierì pesantemente su Palazzo Mengoni e distrusse il teatro comunale.

2- Viene costituita la Consulta Comunale e si richiedono gli aiuti

Cominciava frattanto tra la popolazione a scarseggiare il cibo. Le autorità cittadine, con l’arrivo del fronte si erano praticamente dissolte poiché i loro rappresentanti, tutti legati al regime, erano fuggiti; Ravenna era irraggiungibile, i servizi comunali non funzionavano e l’Annona era scomparsa. Iniziarono quindi i contatti tra i vari rappresentanti dei rinati partiti politici per la costituzione della Consulta Comunale, promossi specialmente dal dott. Carlo Bassi. A farne parte l’arciprete don Giuseppe Sermasi, Arnaldo Cavallazzi (anarchico), Michele Bernabè (comunista) che poi lasciò a fine mese, Giuseppe Dari (repubblicano), il dottor Antonio Bosi (democristiano), Giovanni Dalprato (repubblicano), Tommaso Morini (socialista), il notaio Gustavo Gardini quale segretario ed in qualità di componenti supplenti Mons. Vincenzo Poletti e Stefano Violani (socialista). La prima necessità fu stabilire i contatti con la Provincia per cercare aiuti, medicinali, sussidi, cibo; il 2 gennaio, giorno successivo alla costituzione, su proposta del Cavallazzi, si decise di chiedere l’appartenenza temporanea alla provincia di Bologna e fu deliberato che alcuni componenti avrebbero recapitato, con mezzi di fortuna, una lettera di tal richiesta alla città madre. Dei tre designati, il giorno successivo solo Arnaldo Cavallazzi si presentò per partire, conscio dei pericoli che avrebbe dovuto affrontare. Lo accompagnò nel viaggio di andata Giacomo Cani che tuttavia preferì rimanere a Bologna. In quella città Cavallazzi cercò anche oriundi castellani come il farmacista Mario Santandrea, per promuovere un aiuto alla nostra popolazione. La missione diede i suoi frutti: giunse a Castel Bolognese un mezzo della Croce Rossa con medicinali, latte, viveri e denaro e queste visite furono rese settimanali. Arnaldo Cavallazzi tuttavia ebbe notevoli difficoltà per il ritorno, in mezzo a una fitta nevicata che aveva già ricoperto la via Emilia, sfidando il gelo e allo stremo delle forze fu ospitato per qualche ora da una famiglia a Castel San Pietro prima di riprendere il cammino. Intanto la Consulta Cittadina strinse un accordo con il CLN di Imola alla ricerca, fruttuosa, di ulteriori aiuti. Da segnalare l’opera di mons. Vincenzo Poletti che ricoprì la carica di sub-commissario prefettizio e si prodigò per tenere i rapporti tra la Consulta cittadina e la Provincia di Bologna.

3- Fu un atto di collaborazionismo?

Una recentissima pubblicazione (1), facendo una fredda ricostruzione di quegli avvenimenti, accusa i componenti della Consulta Comunale di collaborazionismo. Non ritengo assolutamente giustificata questa accusa. Certamente, la decisione di richiesta di aiuto formulata alla Prefettura di Bologna, che, certamente, era Organo amministrativo della Repubblica Sociale Italiana (ma non è provato che chi ne facesse parte e chi vi operasse fosse collaborazionista), fu sofferta ma necessaria per salvare la popolazione dalla fame, dalla miseria e dalle epidemie. Ognuno può immaginarsi con che spirito uno schietto anarchico come Arnaldo Cavallazzi si possa essere presentato davanti alle autorità Repubblichine! Ma questo non ne fa un collaborazionista, anzi lui corse il rischio di essere arrestato per tradimento! Così scrive Angelo Donati: “dobbiamo collegarci con Bologna, con le autorità provinciali di un Governo esistente “de facto” senza approvarne né l’istituzione, né l’operato (…) Gli uomini che ad essa si accingono non hanno paura, anche se basta un delatore per farli imprigionare e condannare”. (2) E non si dimentichi che molti di questi castellani furono decorati al valor civile per l’opera meritoria svolta durante la sosta del fronte.
Spiace piuttosto constatare che il Comune promuovendo questa pubblicazione abbia di fatto sovvertito il giudizio delle precedenti Amministrazioni di qualsiasi colore politico, su queste specchiate persone alle quali in questi ottant’anni hanno dedicato strade, edifici pubblici, luoghi. Per coerenza, ora se ne dovrebbe revocarne la dedica a meno di una smentita che si attende, spero, a breve. Occorre quindi dire piuttosto che questo atto della Consulta Comunale, così come quello di prendere contatto col CLN di Imola furono mossi dallo stato di necessità della popolazione castellana piuttosto che da un disegno politico.

4- La vita religiosa

Intanto, i Sacerdoti presenti in città continuavano il loro servizio nelle “catacombe”; vi erano impegnati l’Arciprete don Sermasi, don Francesco Preti il parroco di Campiano, i Cappuccini e don Garavini. Nella cantina della Domenicane ogni domenica don Vincenzo Zannoni celebrava la Messa animata nel canto dalle Orfanelle della Barsana, mentre don Francesco Bosi la celebrava nella Cappella delle Maestre Pie, al momento agibile e non colpita dall’artiglieria.

5- Gli eccidi e i ferimenti

Questo mese fu funestato da tre tragici eccidi di civili, dovuti questa volta alle bombe dei liberatori. Il 5 gennaio perirono presso la casa del podere “Cassiano” in via Gradasso, nella Parrocchia della Pace sei innocenti: in quella casa, sebbene parzialmente distrutta, vivevano ancora i fratelli Poletti con le rispettive mogli ed i figli. Il fumo proveniente dal camino della casa provocò il sospetto agli anglo americani che alcuni militari tedeschi vi soggiornassero; perciò i bombardieri in zona cercarono di colpirla. Una prima bomba cadde nei campi e così le famiglie cercarono rifugio in due diverse buche scavate nell’aia e coperte da assi e terra, distanti poche decine di metri l’uno dall’altra. Una seconda bomba cadde dentro l’ingresso di uno dei rifugi, il più capiente, ove c’erano sei persone di età compresa tra i 50 ed i 2 anni. La seconda strage avvenne in pieno centro il 24 gennaio: nella cantina del macellaio Felice Borghi, sulla via Emilia lato valle, erano rifugiate numerose famiglie. Una granata colpì il cortile della casa e penetrò nella cantina uccidendo sette persone, delle quali cinque appartenenti alla famiglia Fenara, bolognesi qui rifugiatisi dai pericoli che sarebbero potuti incombere sulla città. Il terzo fatto di sangue accadde il 29 gennaio quando durante un bombardamento alleato fu colpita “la Palaza”, un palazzo di tre piani su viale Umberto I ove ora c’è Castel Verde: il bilancio fu di un morto e tre feriti.
Da segnalare, infine, il ferimento di Arnaldo Cavallazzi in Piazza Camerini il 23 gennaio, poi medicato all’Ospedale e di Nerina Monti il 26 gennaio, ragazza sedicenne che perse un piede ed alla quale il dott. Carlo Bassi dovette amputare la gamba sotto il ginocchio, praticamente da sveglia, solo con una iniezione di morfina per calmare il dolore, mancando l’Ospedale di anestetici.

(1) SUZZI R.: Politica e Amministrazione a Castel Bolognese dalla Resistenza alla ricostruzione postbellica (1943 – 1951), dicembre 2024.
(2) DONATI A.: Sul Senio il fronte si è fermato, Castel Bolognese, 1977, pag. 72.

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Dicembre 1944: quando si nasceva in cantina… https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/dicembre-1944-quando-si-nasceva-in-cantina/ https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/dicembre-1944-quando-si-nasceva-in-cantina/#respond Fri, 27 Dec 2024 22:50:41 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12198 di Andrea Soglia Tanti di voi conosceranno Paolo Menzolini, barbiere, per oltre 60 anni al servizio dei castellani. Molti non sapranno, invece, la storia della sua nascita, avvenuta nel pieno della sosta del fronte bellico lungo il fiume Senio. Come si è sempre raccontato, già a fine novembre-inizio dicembre 1944 …

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di Andrea Soglia

Tanti di voi conosceranno Paolo Menzolini, barbiere, per oltre 60 anni al servizio dei castellani. Molti non sapranno, invece, la storia della sua nascita, avvenuta nel pieno della sosta del fronte bellico lungo il fiume Senio.
Come si è sempre raccontato, già a fine novembre-inizio dicembre 1944 i castellani trovarono rifugio nelle tante cantine del paese. La famiglia di Paolo fu ospitata nelle cantine della famiglia Zanelli, notissima in paese per l’antica attività della loro locanda e poi per l’attività di commercio di fiori medicinali. La casa Zanelli e le relative attività erano ubicate nella zona che attualmente ospita il supermercato Despar e arrivavano ad affacciarsi sulla via Emilia con gli edifici recentemente demoliti. Sesto Menzolini, padre di Paolo, lavorava per la famiglia Zanelli e viveva nei paraggi, per cui fu abbastanza automatico per lui rifugiarsi nelle cantine Zanelli assieme alla moglie Maria Borzatta (in attesa di Paolo), al figlioletto primogenito Mario e alla madre Giulia Medri.
Le cantine Zanelli, come ricorda Mario Zanelli, erano abbastanza affollate. Vi trovarono riparo Mario con i genitori e il fratellino Piero di pochi mesi; sua zia Cornelia Zanelli e il prozio Epaminonda, l’ultimo garibaldino di Castel Bolognese, già volontario nella Prima guerra mondiale; la prozia Elettra Contavalli, da poco rimasta vedova di Oreste Zanelli, con le figlie Tinetta, Valeria e Silvana (futura moglie di Edmondo Fabbri) e una sorella.
Era il 28 dicembre 1944. Erano in corso i “soliti” bombardamenti e Maria Borzatta entrò in travaglio. La situazione pericolosa impedì ad Antonietta Guidi (Tina Bèglia) di intervenire, per cui Cornelia Zanelli si improvvisò ostetrica. Tutto andò nel migliore dei modi. Una gioia per tutti, in mezzo a tanti lutti. E Cornelia Zanelli, morta nel 2023 a 104 anni e mezzo, ha sempre considerato Paolo anche un po’ figlio suo.

Un’altra storia a lieto fine ebbe luogo in una delle cantine quasi di fronte alla chiesa di San Petronio, dove il 22 dicembre 1944 è nato Gabriele Martelli. E’ stato straordinario, per me, nel marzo del 2024, sentire raccontare questa storia direttamente dalla principale protagonista, ossia Zaura Zaccherini, madre di Gabriele. Alessia e Cristiana Bruni l’avevano conosciuta casualmente qualche mese prima al cimitero di Castel Bolognese, quando erano in visita alle tombe dei rispettivi congiunti. Zaura era accompagnata dal figlio Gianpaolo, che già conosceva Cristiana, e quindi fu immediata la decisione di rivedersi tutti, con me presente, per raccogliere la straordinaria testimonianza nella sua casa di Faenza. Purtroppo Zaura, classe 1925, è scomparsa nel settembre 2024 a 99 anni di età (riposa nel cimitero di Castel Bolognese, ndr). Quando, alla presenza del figlio Gianpaolo, l’abbiamo intervistata, aveva più volte scherzato sull’arrivo della “Giacomina”, nomignolo con cui i romagnoli, e specialmente i faentini, chiamano la morte.
La storia di Zaura (il cui particolare nome di battesimo fu dovuto ad un errore di comunicazione del padre all’anagrafe di Imola: avrebbe dovuto chiamarsi Zaira, al padre veniva in mente Laura, ma ricordava che il nome cominciava con la Z) era iniziata nella vicina frazione di Selva di Imola, dove il padre Domenico gestiva l’osteria–sali tabacchi tuttora presente. Lì si fermava spesso Antonio Martelli (Tonino di Furlot) che dalla natia Castel Bolognese si recava quotidianamente a Imola dove lavorava come meccanico presso la Fiat. Nacque una reciproca simpatia e Tonino, che aveva 13 anni più di Zaura, le chiese di fidanzarsi. Zaura, dopo una lunga riflessione, accettò e il 26 dicembre 1943, nella chiesa di Zello, Tonino e Zaura si sposarono. Zaura ricordava ancora divertita l’aneddoto che, a suo dire, era quello che aveva fatto innamorare definitivamente Tonino. Un giorno, mentre Zaura aiutava i genitori nell’osteria, un signore le chiese se avessero una ritirata. Zaura, ricordandosi le raccomandazioni di suo babbo Minghì (“Quando un signore richiede qualcosa che non abbiamo, rispondete sempre che l’abbiamo appena terminata”) rispose proprio così, perché non sapeva che la ritirata altro non era che la toilette. Tonino era presente e per anni lui e Zaura ridevano moltissimo nel ricordare l’episodio.
Dopo il matrimonio Tonino e Zaura si trasferirono a Imola. Il 13 maggio 1944 Zaura si trovava in stazione a Imola per ritirare delle tomaie e fu testimone del grande bombardamento della città che portò alla distruzione della stazione (ove morì Lodovico Galeati, capostazione, originario di Castel Bolognese). Zaura e Tonino decisero di sfollare, dapprima a Riolo e poi a Castello, appoggiandosi ai genitori di Tonino. Speravano di “andare incontro agli alleati” e invece si trovarono in prima linea. Si rifugiarono quindi in cantina (dove in totale vi erano 18 persone), e quel che accadde lo lasciamo raccontare da Zaura in una testimonianza rilasciata alle pronipoti:

“Gabriele è nato in una cantina di una casa di fronte alla Chiesa di San Petronio, a Castel Bolognese. In quella casa c’erano anche tre o quattro tedeschi al piano di sopra. Noi invece stavamo sempre giù in cantina.
A metà scala c’era una cucina economica dove, a turno, si poteva cucinare quel poco che avevamo e tutto senza sale (questa cosa mi dava molto fastidio).
I tedeschi sapevano bene che noi c’eravamo… bisognava stare attenti quando avevano bisogno di fare dei lavori pesanti. In qual caso, se vedevano degli uomini, li “prendevano” e li “usavano”. Comunque non erano “cattivi”. Ormai erano “messi male”, non avevano neppure i calzini… ( che impressione quando era così freddo!!). E da mangiare glielo portavano solo ogni tre giorni…
Le case intorno erano tutte distrutte… Ogni notte lanciavano tredici granate… Le contavamo… Spesso c’era un polverone che si faticava a respirare.
La casa dove era la nostra cantina aveva il portico. La finestra della cantina permetteva di avere un po’ di luce, ma faceva entrare anche tanta sporcizia, tanta polvere.
In cantina non c’erano topi… forse qualcuno li mangiava (non sarebbe poi così strano: alla Selva c’era uno che li caccia con le trappole e poi li mangiava!!!).
Quando è stato il momento per Gabriele di venire al mondo, c’era in corso un bombardamento… Per fortuna poté venire ad aiutarmi un’ostetrica. Riuscì ad arrivare senza troppi pericoli perché le cantine/rifugi erano state collegate con dei tunnel sotto terra.
Tonino faceva luce con una bici (cosa che si usava solo in casi urgenti). Una bimba che era nel rifugio aveva detto a Tonino: “Fatti coraggio, Tonino”. Tutti erano andati poi sulle scale fino alle 13:45: ora della nascita di Gabriele!
Avevo preparato qualche cosina per vestirlo usando maglie vecchie. Poi avevo qualche vestitino vecchio che mi avevano regalato. In quei giorni con noi c’era zio Mino (che mi fece andare in chiesa per una benedizione di cui non ho capito il significato), c’erano anche Camilla, Carlì e Ghina (che ci avevano ceduto i loro letti e così avevano dovuto dormire, molto sacrificati, in sedie a sdraio).
Siamo rimasti lì fino a metà febbraio, con poco cibo, poca pulizia, con i pidocchi in testa, fitti, fitti… Ogni tanto Marina (sorella di Zaura, ndr), a piedi o in bici, riusciva a portarci un po’ di latte: la ringrazio ancora. Non ne potevamo più. C’erano persone che, in cambio di denaro, portavano notizie a Imola o da Imola. Tramite queste persone, chiedemmo aiuto ai miei. Allora la mamma e mia sorella Rosa vennero a prenderci con un carretto. Per fortuna nessuno ci fermò. Fu molto difficile perché ovunque c’erano macerie. Arrivammo faticosamente alla Selva dove c’erano dei tedeschi; ci fermammo forse perché Elda doveva prendere qualcosa da casa sua. Arrivammo a Imola e oltrepassammo il ponte sul Santerno; noi eravamo impauriti mentre qui le persone erano fuori tranquilli!! Tonino aveva la barba lunga e incolta e “me aiera ardotta!!” Mi vengono in mente quelle scene, è difficile togliersele dalla testa”.

Aggiungiamo che nel tragitto da Castel Bolognese a Imola, con Tonino nascosto in un armadio per sfuggire al lavoro coatto per l’esercito tedesco, si trovarono per strada assieme ad un frate (o presunto tale, purtroppo pare impossibile accertarsi della sua identità) su un somaro, che fu con loro fino a Selva quando Zaura e gli altri si fermarono per presentare Gabriele al resto della famiglia. Riprendendo il cammino, qualche centinaio di metri più avanti trovarono il frate e il somaro morti lungo la strada, colpiti da una bomba. La sosta a Selva aveva salvato la vita a Zaura e a tutti gli altri.
Storie a lieto fine quelle che raccontiamo, in mezzo a tanta desolazione portata dalla guerra. A Castel Bolognese, 80 anni fa, nei giorni di fine dicembre 1944 (e anche successivamente) i bambini venivano al mondo in abituri anche peggiori di quello di Betlemme… Purtroppo, però, la storia non ha insegnato niente e ancora oggi, in altre parti del mondo, queste storie si stanno ripetendo.

Si ringraziano Paolo Menzolini, Mario Zanelli, Alessia e Cristiana Bruni.
Un ringraziamento particolare alla famiglia Martelli

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Dicembre 1944: cala la lunga notte https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/dicembre-1944-cala-la-lunga-notte/ https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/dicembre-1944-cala-la-lunga-notte/#respond Thu, 12 Dec 2024 17:49:32 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12138 di Paolo Grandi 1. La prima quindicina del mese 1a L’evolversi del fronte e la conta dei danni Il fronte stava avanzando verso ovest lungo la via Emilia, ma ogni fiume era un ostacolo: gli argini, spesso molto alti, servivano ai tedeschi come trincea difensiva ed imponevano agli alleati di …

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di Paolo Grandi

1. La prima quindicina del mese

1a L’evolversi del fronte e la conta dei danni

Il fronte stava avanzando verso ovest lungo la via Emilia, ma ogni fiume era un ostacolo: gli argini, spesso molto alti, servivano ai tedeschi come trincea difensiva ed imponevano agli alleati di esporsi al fuoco nemico per avanzare. Grande fu il tributo di sangue, reso per lo più dai soldati inglesi facenti parte del Commonwealth. Dal 3 al 15 dicembre infuriò la battaglia per la conquista di Faenza che fu liberata il 17 dicembre dalle truppe neozelandesi, mentre i tedeschi già da due giorni si erano ritirati al di qua del Senio, ove, lungo il suo corso, si sarebbe stabilizzato il fronte. Certamente l’esercito tedesco era ridotto quasi allo stremo ma essi erano consapevoli che se si fosse rotto qui il fronte non sarebbe stato per loro possibile creare una valida difesa fino al Po. Si parlava del basso morale delle truppe, Maria Landi racconta che, addirittura, i tedeschi avevano requisito quasi tutti i veicoli a due ruote e li avevano stesi per le campagne con un palo centrale messo in maniera che sembrasse un cannone per far credere agli Alleati in una potente batteria di difesa! Ma i Tedeschi erano fermamente convinti che Hitler avrebbe di lì a poco adoperato la “nuova arma” che avrebbe invertito le sorti delle guerra.
Il centro di Castel Bolognese fu oggetto di tiri di artiglieria e bombardamenti quasi quotidiani a partire dal 1 dicembre. Franco Ravaglia nel suo diario annota incursioni aeree alleate con bombardamenti in centro nei giorni 1, 4, 10 e 15 dicembre e caduta di granate il 2, 5, 6, 7, 8, 9, 11 e 15 sul centro abitato, il 3 al Ponte del Castello ed il 9 nelle campagne. L’8 dicembre, solitamente festa grande per l’Immacolata, furono danneggiate le chiese di San Petronio per la prima volta, di San Francesco e del Suffragio. Colpiti anche tutti i campanili. Il Suffragio fu addirittura crivellato, mentre San Francesco fu colpita in tutte le sue parti in modo orribile. I tedeschi, che affollavano il centro, intanto facevano razzia nelle case, asportando tutto ciò che capitava utile, mentre nelle chiese arrivarono pure a gesti sacrileghi sfondando tutte le mense degli altari in San Francesco immaginando trovarvi chissà quali tesori e violando anche il grande armadio del Reliquiario; nella chiesa del Suffragio razziarono tutta la cera per illuminare i loro rifugi. A metà del mese la cella campanaria di San Francesco crollò trascinando nella rovina il presbiterio ed il settecentesco coro ligneo, mentre più di un terzo dell’abside dell’Arcipretale precipitò sotto i colpi di artiglieria devastando parte dell’altare maggiore e la bancate del coro. Anche gli edifici privati e pubblici del centro e del Borgo subirono in questo periodo danni anche ingenti.
Qua e là negli immediati dintorni del centro si vedevano grandi fuochi ardere le case saccheggiate o bruciate per rappresaglia. In ogni dove continuavano le razzie e furono visti i soldati germanici impacchettare stoviglie, bicchieri, posate o piccole cose d’arredo per spedirle a casa.

1b La vita dei civili

Pian piano, già a partire dagli ultimi mesi di novembre, tutte le cantine del centro storico poste sulla via Emilia, su via Garavini e sulle altre strade laterali si riempirono di sfollati. La gente si rifugiava là con ciò che poteva servirgli e che aveva di più caro, abbandonando al loro destino le proprie case. L’opinione generale, tuttavia, era che nel giro di una settimana, dieci giorni al massimo la buriana sarebbe passata. Tra le cantine più gremite vi erano quelle delle Monache Domenicane poste verso la via Emilia; qui già da metà novembre si erano rifugiati molti abitanti della Pace fuggiti dalle case poste a ridosso del fiume e a metà dicembre giunse pure il parroco don Vincenzo Zannoni con la propria famiglia e altri parrocchiani. L’8 dicembre i tedeschi portarono nella medesima cantina su interessamento di Mons. Sermasi, con l’inganno perché era stato promesso loro il ritorno a casa, sette Ancelle del Sacro Cuore di Faenza con trenta orfanelle della Piccola Opera della Divina Provvidenza di età compresa tra i 2 ed i 18 anni, tutte sfollate a Celle. Per propria sicurezza, i tedeschi misero in comunicazione tutte le cantine tra l’8 ed il 15 dicembre. Nelle cantine si viveva di stenti cercando tuttavia una possibile normalità, qualche famiglia aveva portato la cucina che condivideva con altri; la luce era assicurata da lumi a petrolio o a carburo oppure dalle candele; acqua e servizi igienici non esistevano ed occorreva uscire col pericolo sempre in agguato.

1c L’ospedale e il sacrificio di Moschetti e Donati

Il 7 dicembre il dott. Carlo Bassi decise di trasportare nelle cantine centrali dell’Ospedale tutte le attività di cura, degenza ed operatorie. Nella cantina posta sotto l’ala sud furono ospitati i Cronici, le Orfanelle dell’Orfanotrofio Ginnasi, le partorienti e gli infettivi. Nella cantina centrale furono ospitati i degenti, il tavolo operatorio ed un a stufa ove erano messi a sterilizzare i ferri chirurgici e le siringhe, mentre in quella adibita a cucina stavano il Cappellano, le Suore di Carità, oltre alla Squadra di Pronto Soccorso che ebbe in quei giorni il suo tributo di sangue. Il 15 dicembre, mentre alcuni di loro si soffermavano nell’atrio della porta d’ingresso dell’Ospedale, osservando un aeroplano alleato che volteggiava nel cielo, dal medesimo fu sganciata una bomba che cadde proprio nel mezzo della strada non lontano dal luogo dove essi sostavano. Due di essi un po’ più esposti furono colpiti in pieno dalle schegge: Antonio Donati e Pierino Moschetti (quest’ultimo era il capo squadra) decedettero all’istante.

1d La vita religiosa

Don Garavini nella sua cronaca descrive questi frangenti come il periodo delle Catacombe. Infatti, il 2 dicembre fu celebrata l’ultima funzione in San Petronio: il funerale di Francesco Paolo Liverani. Poi tutte le celebrazioni religiose si trasferirono nelle cantine. Quasi tutti gli abitanti rifugiati là sotto facevano a gara per avere la Santa Messa che naturalmente si celebrava or qua or là solo a turno, dovendo portare pure ogni volta tutto l’occorrente. Per queste si prestavano continuamente l’Arciprete mons. Sermasi, il parroco della Pace e il padre Damiano Cappuccino. Nelle cantine poi vi era un certo numero di sacerdoti rifugiatisi dalle parrocchie di campagna che collaboravano con l’Arciprete, come don Francesco Preti parroco di Campiano che ebbe chiesa e canonica bombardate, il Priore di Valsenio Don Bosi, Don Pasquale Budini, Don Pasquale Cani, don Cleto Venturi della diocesi di Faenza, alcuni seminaristi come Italo Drei, Carlo Marabini e Giuseppe Dal Pozzo. I frati Cappuccini erano rifugiati in una delle loro cantine, mentre le altre erano state requisite dai tedeschi.

2. Un triste Natale

2a La sosta sul Senio e gli ulteriori danni; addio ai campanili

Tra il 15 e il 19 dicembre il fronte si attestò definitivamente sul Senio; il giorno 16, come ricorda Maria Landi, toccò al ponte della Via Emilia sul Senio, che da secoli valicava il fiume ed aveva inglobato lacerti romani, essere vittima della distruzione e poco dopo fu anche fatto saltare il vicino ponte ferroviario. Intanto in centro continuavano i tiri alle chiese, ai campanili e le distruzioni di case e palazzi. Franco Ravaglia informa che in questa seconda parte del mese non vi furono incursioni aeree ma solo tiri incrociati di granate quasi quotidianamente ed a volte anche nella notte. Naturalmente gli obiettivi principali erano i campanili e la torre, possibili luoghi di vedetta.
Il 24 dicembre, giorno solitamente dedicato ai preparativi del Natale, verso mezzogiorno crollò per un buon terzo il campanile di S. Petronio distruggendo il cornicione, l’organo (un prezioso Traeri), il parapetto dell’orchestra, e sprofondando nei gradini dell’altare e nel presbiterio. Il colpo ferale al campanile di San Petronio fu sparato da un militare di origine polacca: Henryk Strzelecki (1925-2012). Costui, disegnatore di moda in tempo di pace, abbandonata l’idea di tornare nella natia Polonia piombata nel comunismo, si trasferì in Gran Bretagna e lì, mutato il nome in Henri Strzelecki fondò nel 1963 a Manchester insieme ad Angus Lloyd la famosa firma di moda Henri Lloyd. Lo Strzelecki tornò due volte a Castel Bolognese tra gli anni ’90 ed i primi del presente secolo recandosi dall’allora Arciprete per consegnare una somma “in riparazione” dei danni da lui causati al campanile. Anche la chiesa delle Domenicane, in una notte di poco precedente al Natale, subì una grave offesa restando in parte scoperchiata. Nella notte del 29 dicembre i tedeschi minarono e fecero saltare in aria campanile e sacrestia di San Francesco; la notte seguente toccò al Suffragio. La Torre civica, ferita e in parte smozzicata, rimase al momento l’unica guardiana di Piazza Bernardi.

2b La vita dei civili e l’eccidio di Biancanigo

Così racconta Maria Landi “Nel buio più assoluto caricammo su un carretto di fortuna le nostre povere cose: la stufa, quattro reti per il letto con i materassi, pentole, tegami e tutto quello che avevamo in casa di commestibile, qualche fagotto con lenzuola e vestiti, il maiale ucciso al momento, le galline dentro un sacco. Noi avevamo indossato un doppio cambio di indumenti ed in una tasca nascosta avevamo i soldi: i risparmi di una vita. E così ci incamminammo verso Castello”. Così descrive la cantina delle Domenicane don Garavini: “La cantina rigurgita di tutte le sorti: oltre i giacigli per gli sfollati, e un po’ di bottame con relativo vino, reti, brande, sofà, sedie, attrezzi da cucina, gli scarsi viveri che sinora si sono potuti salvare, l’ingombrano in gran parte valige e involti che si celano un po’ dappertutto. Non c’è altro che un piccolo passaggio in mezzo per consumare i magri pasti”.
Il parroco di Biancanigo, don Tambini, aveva issato sul campanile il vessillo giallo/rosso vaticano e, in una qualche maniera, riuscì a salvare chiesa e canonica benché fossero a due passi dal Senio. Non fu così invece per i rifugiati nelle cantine di Villa Rossi, a pochi metri dall’argine del Senio. Lì vi erano rifugiate in due cantine non comunicanti, nella prima un certo numero di cieche con la Direttrice ed alcune inservienti provenienti dall’Istituto Ciechi di Bologna, dall’altra le famiglie Montanari. Cristoferi e Lama, le prime due coloni dei poderi annessi alla villa. Quando i tedeschi decisero di far saltar il complesso, avvisarono le cieche, che si rifugiarono in fretta e furia nella canonica di Biancanigo, ma non i coloni che, solo per caso, si accorsero all’alba che la villa era stata minata ed un Montanari tagliò i fili delle mine cosa che tuttavia non fu sufficiente a salvare i rifugiati: poco dopo la villa saltò in aria seppellendo ventuno innocenti di età compresa tra gli 84 ed i 2 anni.
Poco prima di Natale i tedeschi minacciarono lo sfollamento delle Via Garavini, Borghesi e Roma dal macello fino alla Filippina. Ma su interessamento e con l’insistenza dell’Arciprete Sermasi presso il comandante della Piazza fu sventato il pericolo, perché una volta sfollate le case, i tedeschi vi sarebbero entrati facendo man bassa di tutto.

2c Natale in cantina

Parecchie Messe furono celebrate nell’altarino della sacrestia dalla Domenicane, una delle quali dal parroco della Pace, cantata dalle Suore e dalle orfanelle rifugiate in cantina una delle quali, racconta Maria Landi, aveva una bellissima voce. L’ultima delle 10 fu celebrata da don Garavini all’altare maggiore della Chiesa, sfidando i pericoli del caso. In tante cantine di Castel Bolognese fu celebrato il Natale dai vari Sacerdoti presenti in città con partecipazione e devozione, riferisce Angelo Donati, i cui figli prepararono anche il Presepe in cantina.

2d Una Rifugiata particolare

Don Antonio Garavini era sordo, perciò non sentiva i rumori dei bombardamenti e per questo motivo li sfidò cercando di salvare il più possibile arredi sacri e opere d’arte presenti nelle chiese castellane. A lui si deve la messa in salvo di tutti i reliquiari presenti nel grande armadio dell’altare di San Francesco, poi devastato dalle bombe. Non riuscì tuttavia a salvare le opere d’arte presenti nella chiesa del Suffragio, in particolare la grande tela del Cignani.
Ma il 31 dicembre una rifugiata d’eccezione andò ad aggiungersi alla folla presente nelle cantine delle Domenicane: verso le ore 14 fu prelevata dalla chiesa di San Francesco l’Immagine della Madonna della Concezione, Patrona principale di Castel Bolognese e del suo territorio e fu portata nella cantina delle Domenicane, a fianco dell’altare posticcio, qui posta sopra il basamento processionale. Davanti a Lei don Zannoni, all’imbrunire cantò il Te Deum con la Benedizione Eucaristica e tutti quella notte si coricarono con la speranza che il nuovo anno portasse l’alba del nuovo giorno.

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Novembre 1944: l’inizio dell’apocalisse https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/novembre-1944-linizio-dellapocalisse/ https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/novembre-1944-linizio-dellapocalisse/#respond Wed, 20 Nov 2024 14:30:36 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12048 di Paolo Grandi Ai primi di novembre 1944 il fronte finalmente raggiunse a Forlì ma per liberare la città ci vollero addirittura alcuni giorni e così mentre l’aeroporto fu conquistato nella notte tra il 7 e l’8 novembre, i carri armati della North Irish Horse entrarono in Piazza Saffi solo …

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di Paolo Grandi

Ai primi di novembre 1944 il fronte finalmente raggiunse a Forlì ma per liberare la città ci vollero addirittura alcuni giorni e così mentre l’aeroporto fu conquistato nella notte tra il 7 e l’8 novembre, i carri armati della North Irish Horse entrarono in Piazza Saffi solo sabato 11. Il meteo non aiutò sicuramente l’avanzata: dopo l’esondazione del Senio a fine ottobre, sono segnalate piogge abbondanti per tutta la prima decade e poi tutto il mese continuò con brevi sprazzi di sereno e tanto maltempo.
Nelle campagne di Castel Bolognese i tedeschi erano in piena attività per rafforzare le difese, piazzando ovunque pezzi di artiglieria e sparando pesantemente a lunghi intervalli verso levante; ad ogni tiro rispondeva l’artiglieria inglese. Le case di campagna lungo il Senio furono in gran parte state fatte sfollare ed i contadini si rifugiarono dove possibile, ma essendo autunno inoltrato e in previsione dell’inverno cercarono riparo nelle cantine cittadine. I guastatori tedeschi seminarono le mine e scavarono ovunque buche e trincee per posizionarvi cannoni e mitragliatrici. Angelo Donati tuttavia segnala che il morale della truppa era basso, spesso questi soldati erano laceri ed affamati ed assieme agli Ufficiali dediti al vino e alle ubriacature. La popolazione di campagna era atterrita: gli animali da cortile furono facile preda per gli oppressori e le povere “Arzdore” costrette, anche sotto il tiro delle armi a cucinarli per la truppa. In città invece i maschi presenti, specie i più giovani non ancora atti al servizio militare o gli anziani ancora attivi erano oggetto di rastrellamento da parte degli occupanti ed erano costretti al lavoro forzato per esigenze militari.
Mezzi corazzati furono posizionati anche nel centro urbano. Angelo Donati riferisce che un carro armato si muoveva in città sparando da punti diversi per non farsi individuare. Secondo don Garavini ve n’era più d’uno, rifugiati sia sotto i loggiati di Palazzo Mengoni che sotto quelli della via Emilia ed uno, manovrando, urtò la Torre civica, quasi ai piedi dell’arco verso la piazza producendovi una grave lesione. Qualche testimone riferisce che un carro armato sprofondò nella cantina dell’osteria di Badò sulla via Emilia.
“Pippo” intanto continuava a volare quasi quotidianamente, segnando la linea del fronte e gli obiettivi da colpire; di giorno fioccavano le granate inglesi che caddero in gran parte nelle campagne. La notte, i riflettori germanici puntavano sulle colline vicine al Senio facendo tutto il giro della cerchia fino alla Vena del gesso e verso Bologna; e perciò spesso non c’era pace per i castellani, svegliati dalla sirena perché giungevano sempre numerose le granate inglesi; quindi molti preferirono iniziare a trascorrere la notte nelle cantine. I tiri incrociati di artiglieria si intensificarono nella seconda metà del mese ed il giorno 28 novembre, come annota il giovane Franco Ravaglia nel suo diario, caddero le prime due granate nel centro di Castel Bolognese. L’attività si ripeté anche nei giorni seguenti ove vi furono pure bombardamenti che provocarono gravi danni specialmente nel Borgo, e qualche ferito. I primi feriti del centro, trasportati dalla Squadra di Pronto Soccorso, furono Igino Sgalaberni ed Aldo Castellari. Curioso il loro ferimento: lo Sgalaberni gestiva assieme alla moglie Romana Zannoni una tabaccheria sotto il portico della Via Emilia, adiacente all’attuale Farmacia Ghiselli. Lo spaccio era chiuso ed i gestori assieme al Castellari si trovavano in cucina, posta nel retrobottega. Cadde una granata sulla via Emilia ed una scheggia trapassò la saracinesca e la vetrina della tabaccheria, si diresse in cucina sfondandone la porta, si piantò nella coscia dello Sgalaberni, trapassandola e poi fermandosi nella gamba del Castellari. Ma le schegge provocarono anche una vittima, seppur non umana: il maiale che le Monache Domenicane avevano ingrassato nel loro cortile e che contavano di macellare per Sant’Antonio.
Dato che il centro urbano era diventato un bersaglio per i bombardieri e quindi era necessario liberare i luoghi colpiti dalle macerie, salvare i feriti, recuperare i morti e mettere in sicurezza le rovine, il 30 novembre il Commissario Prefettizio del Comune mobilitò Arnaldo Cavallazzi perché costituisse e dirigesse la squadra di soccorso dell’UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea), che senza alcun compenso si occupò di dare questi soccorsi e inoltre svolse servizio antincendio e anticrollo, tra molti pericoli (lo stesso Cavallazzi restò ferito a un piede da una scheggia di granata, e due componenti della squadra, tra cui suo genero Ariovisto Liverani, morirono). Salvò inoltre dalla completa distruzione l’Archivio comunale e l’affresco di Girolamo da Treviso della Chiesa di S. Sebastiano, colpita dai bombardamenti. La Squadra UNPA operò fino al 15 maggio 1945.
Anche l’Ospedale, pur tra enormi difficoltà, continuava a rendere il suo servizio sotto la direzione del dott. Carlo Bassi, il quale, così riferiva mio padre, non disdegnò di salvare qualche sospetto collaborazionista e/o antifascista ricoverandolo in Ospedale e facendolo poi trasferire a Imola per maggior sicurezza, naturalmente rischiando anche la vita. E sempre mio padre riferiva che capitò una di queste persone che occorreva trasferire in fretta a Imola, compito in quel momento ancora riservato alle ambulanze dell’Esercito Tedesco. Il Capo Posto Militare tuttavia, vedendo il (finto) ammalato, non ne ritenne così urgente il trasferimento ed ebbe un alterco col dott. Bassi, il quale, di tutto punto, vergò un certificato medico ove lo si diceva affetto da una malattia contagiosa (ed i Tedeschi erano terrorizzati di essere contagiati da qualsiasi malattia) e grave che clinicamente si nominava cutis anserina (pelle d’oca!). Il soldato non capì l’inganno e tosto un’ambulanza partì di gran carriera per l’Ospedale di Imola con il finto ammalato.
In novembre continuarono anche i saccheggi promossi dai tedeschi ma seguiti dalla popolazione: il primo novembre toccò alla villa Centonara, sul viale Cairoli e alla segheria dei fratelli Villa al Serraglio; il giorno seguente fu preso di mira il laboratorio di maglieria della ditta “Sgarbanti” di Bologna, posto nel Palazzo Ginnasi sulla via Emilia. Prima cominciarono a svaligiare i tedeschi, in seguito sempre in base al principio che “se non la prendo io la portano via o la distruggono i tedeschi” una vera folla imbestialita diede l’assalto al residuo.
Nonostante l’incombente pericolo si tennero ugualmente le Funzioni per il giorno dei Santi e dei Morti e nella chiesa del Suffragio, riparata e tamponata nelle varie parti lesionate la notte del 28 settembre, si celebrò anche l’Ottavario dei Defunti. La terza domenica di novembre si fece l’ultima festa in San Petronio: quella di Sant’Omobono e la sera del 28 novembre in un San Francesco già lesionato iniziò la Novena dell’Immacolata, che tuttavia si interruppe dopo tre giorni a causa dei bombardamenti.
Verso fine mese Brisighella fu liberata ed il comando alleato stava pensando ad una sosta del fronte per far passare l’inverno. I Castellani ricevettero la notizia tramite “Radio Londra” che si ascoltava nelle cantine e sperarono che ciò avvenisse dopo la liberazione della nostra città. Ma non fu così e l’apocalisse maturò nei mesi successivi.

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Ottobre 1944: la guerra inesorabilmente si avvicina https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/ottobre-1944-la-guerra-inesorabilmente-si-avvicina/ https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/ottobre-1944-la-guerra-inesorabilmente-si-avvicina/#comments Thu, 17 Oct 2024 16:07:24 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=12003 di Paolo Grandi Nell’ottobre 1944 il fronte stava lentamente avanzando sulla via Emilia, mentre nel nostro Appennino i Tedeschi erano stati cacciati dalle alte valli del Lamone, del Senio e del Santerno e procedevano, anche qui molto lentamente, verso la pianura. Così Firenzuola fu liberata il 19 settembre ma a …

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di Paolo Grandi

Nell’ottobre 1944 il fronte stava lentamente avanzando sulla via Emilia, mentre nel nostro Appennino i Tedeschi erano stati cacciati dalle alte valli del Lamone, del Senio e del Santerno e procedevano, anche qui molto lentamente, verso la pianura. Così Firenzuola fu liberata il 19 settembre ma a causa del bombardamento anglo americano del precedente giorno 12 il centro venne quasi raso al suolo; Palazzuolo su Senio fu liberato il 24 settembre ed il giorno successivo toccò a Marradi. L’obiettivo principale delle forze anglo-americane era in questo momento conquistare Forlì. La città romagnola aveva un duplice significato: era la città del Duce e la sua liberazione era un segnale forte nei confronti dell’oppressore ma anche verso gli italiani: liberando la città di Mussolini, si sarebbe liberata l’Italia tutta. L’altro, forse più importante obiettivo era quello di impadronirsi del suo aeroporto che con la pista in cemento poteva essere usato in qualsiasi stagione; inoltre era il primo aeroporto disponibile nella pianura padana. Tuttavia, gli alleati incontrarono una strenua resistenza dell’esercito germanico che fu cacciato da Forlì solo nei primi giorni di novembre.
Castel Bolognese quindi si trovava nelle retrovie, a poco meno di 30 kilometri dal fronte e doveva ora fare i conti con un nemico germanico sempre più agguerrito e maldisposto nei confronti della popolazione inerme e alle Brigate Nere che andavano rastrellando le campagne in cerca di renitenti alla leva, collaboratori e partigiani.
Durante i primi giorni d’ottobre a Tebano vi furono scene di terrore: persone fucilate sommariamente, case saccheggiate e incendiate, abitanti prelevati e trasportati come delinquenti alla villa di San Prospero, che si trova all’inizio della strada di Castel Raniero, dov’era il comando delle Brigate Nere agli ordini del famigerato faentino Raffaele Raffaeli; qui restarono in attesa di giudizio e di condanna. Tra i prigionieri c’era pure don Antonio Lanzoni parroco di Montecchio sopra la Pideura, in Diocesi di Faenza, ottantenne, accusato di aver dato rifugio in Canonica a partigiani; nelle settimane successive fu portato a Bologna e là venne fucilato. Anche a Biancanigo il 6 ottobre parecchi uomini e donne furono prelevati dalle loro case e internati nel cortile della chiesa con la scusa del controllo dei documenti. Solo verso l’imbrunire, dopo una giornata passata sotto la pioggia e a digiuno, il Raffaeli arrivò per il controllo, tuttavia alcuni, con la complicità di don Tambini, il parroco, riuscirono a fuggire, mentre altri vennero trasportati alla villa San Prospero.
Il 28 settembre, verso le 23 tutta la città fu svegliata da ripetuti e furiosi rimbombi. Da un apparecchio alleato proveniente da ovest e diretto verso est furono sganciate tre bombe: una in Piazzale Poggi, una davanti alla Torre dell’orologio che colpì il Caffè della Torre, una terza presso la casa detta dei “Camerini” di là dagli orti. Il terrore fu indescrivibile. Gli abitanti e gli sfollati fuggirono all’aperto e molti cercarono rifugio nelle trombe dei due campanili di San Petronio e di San Francesco. Si interruppe anche la corrente elettrica. Per fortuna non vi fu alcuna vittima, ma danni gravissimi specialmente ai fabbricati della “Fonda” (ove sorge oggi la Biblioteca Comunale, allora Convento delle Agostiniane), in Piazza Bernardi e in Via Garavini. La chiesa del Pio Suffragio ebbe la porta e tutte le imposte spalancate per la violenza dello scoppio e tutto il porticato della facciata fu tempestato dalle schegge che forarono persino i muri interni e i quadri della chiesa. Una di queste andò a conficcarsi tra lo stipite e la porta maggiore dell’Arcipretale. Tutte le vetrate delle altre chiese e di tanti edifici pubblici e privati si frantumarono.
Il 15 ottobre nel pomeriggio fecero irruzione in centro i militi delle Brigate Nere, bastonando e rastrellando a più non posso, mentre in serata venne saccheggiata barbaramente e quasi con ferocia inaudita dai civili, su istigazione dei tedeschi, la stazione ferroviaria; qui infatti era stato rifugiato del materiale dalla stazione di Bologna: soda, lampadine elettriche, filo metallico e altro. Di tutto si fece tabula rasa. Nei giorni seguenti passarono i guastatori tedeschi e distrussero tutti i pubblici servizi: telegrafi, telefoni ecc. Anche l’edificio della stazione ferroviaria fu fatto saltare con un’esplosione terribile.
Infine, il 21 ottobre le Brigate Nere arrestarono un barbiere del centro assieme al figlio; i due furono portati a Faenza e con loro furono arrestate anche le sorelle Cavallazzi, proprietarie di una tipografia, accusate di propaganda sovversiva forse solo perché figlie dell’anarchico Raffaele. Ma anche sul barbiere i fascisti fecero un errore: invece di prelevare Luigi Baldrati, Lissorum, noto comunista, che aveva la bottega sulla via Emilia sotto i portici a monte, portarono via dalla sua bottega nei portici a valle il barbiere Ernesto Rani assieme al figlio adolescente. Mentre le due donne ed il giovane furono rilasciati quasi subito, Ernesto Rani fu a lungo interrogato, bastonato e torturato, ma essendo la persona sbagliata non rilasciò alcuna dichiarazione. Fu liberato una settimana dopo.
Maria Landi ricorda che a settembre non riaprirono le scuole. I contadini provvidero comunque a vendemmiare e a seminare con grave rischio e pericolo. Durante il mese di ottobre piovve oltre ogni norma ed il Senio tracimò nei pressi del Ponte del Castello allagando campi ed alcune case di quella frazione. Purtroppo molti abitanti del luogo, che avevano scavato buche per seppellire le loro cose più care, magari anche di parenti lontani e di amici, le persero perché quelle buche si riempirono di mota che rovinò ogni cosa, subendo così la beffa di non aver perso i propri beni per la guerra ma per un’alluvione.

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2 e 3 luglio 1944: vengono bombardate le stazioni ferroviarie di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/2-e-3-luglio-1944-vengono-bombardate-le-stazioni-ferroviarie-di-castel-bolognese/ https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/2-e-3-luglio-1944-vengono-bombardate-le-stazioni-ferroviarie-di-castel-bolognese/#respond Fri, 12 Jul 2024 16:39:34 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11782 di Paolo Grandi Passata la paura dei primi giorni di marzo la sensazione generale fu che la guerra si stesse avvicinando. Quasi quotidianamente la sirena, sistemata dal Comune sulla Torre Civica, lanciava il suo lugubre e straziante urlo, avvisando del pericolo imminente e la popolazione si rifugiava dove poteva, specie …

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di Paolo Grandi

Passata la paura dei primi giorni di marzo la sensazione generale fu che la guerra si stesse avvicinando. Quasi quotidianamente la sirena, sistemata dal Comune sulla Torre Civica, lanciava il suo lugubre e straziante urlo, avvisando del pericolo imminente e la popolazione si rifugiava dove poteva, specie nella campagna, per timore dei bombardamenti che, tuttavia, risuonavano ancora lontani. Anche fare scuola, racconta Angelo Donati, si era fatto difficile e spesso le lezioni terminavano sotto le acacie, lontano dal centro cittadino. I militari tedeschi si impadronirono di molte case di campagna ed i residenti furono spesso costretti a sfollare. Anche in cielo appariva sempre più di frequente il ricognitore alleato che a volte mitragliava anche qua e là; la gente lo chiamava scherzosamente “Pippo”.
Ma domenica 2 luglio ed il successivo lunedì 3 un pesante bombardamento colpì le due stazioni ferroviarie di Castel Bolognese. Quella delle Ferrovie dello Stato fu resa inservibile interrompendo così sia i collegamenti con Bologna e Rimini che quelli con Ravenna; Una voragine si formò al posto dei primi due binari di corsa, il fabbricato della stazione venne pesantemente danneggiato e quello del ristorante subì notevoli danni. Anche il deposito delle locomotive e la “Casona”, un grande edificio, forse nato come deposito delle carrozze, posto in prossimità del passaggio a livello di via Lughese e destinato a deposito di materiale per l’allestimento dei treni per le truppe furono quasi rasi al suolo. Non si salvò dal fuoco dei bombardieri inglesi neppure la piccola stazione della Ferrovia di Riolo, ormai fuori servizio da un decennio e trasformata in abitazione privata, che fu colpita tanto da essere sventrata.
Anche le Monache Domenicane, rifugiatesi nelle proprie cantine ove pure spesso passavano la notte, restarono atterrite dal cupo rombo dei motori degli aerei che le sorvolavano e quel 2 luglio buona parte delle vetrate del Monastero andò in pezzi. Siccome il pericolo aumentava di giorno in giorno e la situazione delle Religiose si stava facendo piuttosto preoccupante, per consiglio e con l’aiuto della Autorità Ecclesiastica, l’8 luglio diciotto suore furono sfollate a Bagnara di Romagna; tra costoro le più giovani e alcune ammalate, bisognose di continua assistenza. Con loro partirono la Madre Priora Suor Maria Luisa Cenni e la Maestra del Noviziato Suor Maria Teresa Moro. Il dolore del distacco tra le consorelle che si rifugiavano in luoghi ritenuti più sicuri (ma di fatto non sarebbe stato così) e quelle poche che restavano nel pericolo a guardia del Monastero e delle cose ivi esistenti, fu commovente e foriero di qualche lacrima. Le consorelle sarebbero rientrate solo a guerra conclusa.
Questi primi bombardamenti poi misero in luce la necessità di organizzare un soccorso ai feriti che, in questi primi momenti, erano lasciati alle cure dei famigliari. L’Arciprete don Giuseppe Sermasi, assieme alle Opere Pie Raggruppate, promosse l’iniziativa di istituire un servizio di Pronto Soccorso feriti, al quale aderirono per lo più i giovani dell’Azione Cattolica. La Squadra, sotto la direzione di Pierino Moschetti, si costituì il giorno 20 luglio 1944; il dott. Amos Bargero, delegato locale della C.R.I., ne assunse la presidenza.
Infine, anche la gente si cominciava a preparare per salvare il salvabile: Maria Landi ricorda che in campagna, in previsione dell’avvicinarsi del fronte, in tutte le case si cominciò a scavare buche sia nei pavimenti delle stanze che all’esterno per preservare il più possibile le cose ed i ricordi di famiglia.

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10 marzo 1944: 80 anni fa il primo bombardamento di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/10-marzo-1944-80-anni-fa-il-primo-bombardamento-di-castel-bolognese/ https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/10-marzo-1944-80-anni-fa-il-primo-bombardamento-di-castel-bolognese/#respond Wed, 13 Mar 2024 19:27:21 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11498 di Paolo Grandi Fino all’autunno del 1943 la guerra, che pur infuriava da più di tre anni, rimase lontano da Castel Bolognese. Quell’8 settembre nel quale gli altoparlanti e la radio annunciarono l’armistizio diede alla popolazione la speranza in una prossima fine del conflitto; ma il peggio per l’Italia tutta …

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di Paolo Grandi

Fino all’autunno del 1943 la guerra, che pur infuriava da più di tre anni, rimase lontano da Castel Bolognese. Quell’8 settembre nel quale gli altoparlanti e la radio annunciarono l’armistizio diede alla popolazione la speranza in una prossima fine del conflitto; ma il peggio per l’Italia tutta doveva ancora arrivare e quella gioia durò quanto un fuoco di paglia.
Anche a Castel Bolognese negli anni della guerra uomini e donne avevano donato le “fedi” di matrimonio per l’oro alla Patria poi gli oggetti di rame per uso domestico; infine nel maggio del 1943 toccò alle campane delle chiese che furono requisite per fonderne il bronzo a favore dell’industria bellica.
Proprio in quel settembre 1943 dal nord Italia scesero molti soldati tedeschi che si impossessarono delle città ed anche Castel Bolognese. Qui, racconta Maria Landi: arrivarono un’automobile ed una motocicletta con alcuni ufficiali i quali diedero le consegne e condizioni al Podestà, ai Carabinieri, al personale della ferrovia. Era la prima volta che gli elmetti germanici apparivano tra di noi e poco a poco occuparono ogni spazio ed ogni casa.
Fu imposto il coprifuoco, cosicché la Messa di Natale fu celebrata in un San Petronio semibuio alle diciassette del 24 dicembre, seppur animata dai soldati tedeschi che cantarono Stille Nacht, fra le reminiscenze del “Sant’Ambrogio” di Giuseppe Giusti. Ma il nuovo anno era carico di venti di guerra.
Il 14 febbraio 1944, poco dopo le ore 13, preceduto dal passaggio di un nugolo di aeroplani anglo-americani, si udì un formidabile scoppio che terrorizzò tutta la popolazione. Per sfuggire alla caccia tedesca essi liberarono nove bombe che caddero e scoppiarono in mezzo ai campi presso la località “La Selva” in comune di Imola, poco oltre la Torretta, senza apportare danni all’infuori di qualche vetro frantumato.
Ma il 10 marzo, come ricorda don Antonio Garavini nella cronaca parrocchiale (1), Castel Bolognese ebbe il suo battesimo del fuoco: la sera verso le 22.20 si udì uno scoppio che fece tremare tutti i vetri e dopo dieci minuti un altro più forte e più prossimo. Il primo era avvenuto nella vicina stazione ferroviaria di Faenza, il secondo nel nostro Borgo, quest’ultimo fortunatamente senza vittime. Un autocarro che stazionava nel Borgo coi fari accesi fu mitragliato da un aereo alleato; il bersaglio fallì perché il camion restò illeso ma i proiettili caddero sopra le ultime case del Viale dei Cappuccini abitate tutte da operai. Le schegge si conficcarono nei muri e si sparsero un po’ dovunque. L’unico danno un po’ sensibile, oltre una buona dose di spavento, fu la caduta di alcune pietre dentro la stanza del giovane barbiere Peppino Roda, degente a letto da parecchi mesi per il mal di cuore. Esse caddero proprio vicino al letto, senza minimamente toccarlo. Da quella notte le poche luci pubbliche schermate furono spente, e il buio più completo regnò in tutto la città.
Pochi giorni dopo, il 22 marzo e per la prima volta, verso le 14,30 suonò l’allarme anche a Castel Bolognese mediante la campana maggiore dell’Arcipretale, salvatasi dalla requisizione. Poco dopo, proveniente da est, passò in più ondate a quota altissima una fitta formazione di apparecchi anglo – americani in direzione ovest, valutata tra i 200 ed i 400 velivoli. Si accese sul cielo della città una lotta tra un apparecchio alleato ed un caccia tedesco che ebbe la peggio, fu abbattuto e precipitò in aperta campagna presso il monte della Giovannina vicino a Campiano. Il pilota si salvò col paracadute, andando a finire alla Serra. La popolazione, terrorizzata, in parte fuggì in aperta campagna, altra si rifugiò nei sotterranei. I negozi rimasero chiusi per più ore e rari passanti si videro per le strade. Poi, allontanatisi gli apparecchi, come se fossero a poca distanza, rintronarono i colpi delle bombe, scuotendo fragorosamente le vetrate e perfino il suolo. Sulle 17 vi fu il ritorno della formazione aerea che attraversò il cielo senza conseguenze, così la popolazione con un senso di sollievo ma sempre in preda a un certo panico tornò alle case e alle proprie occupazioni. Di lì a poco il campanone di San Petronio a distesa diede il segnale del cessato allarme.

(1) In realtà nella cronaca parrocchiale, probabilmente scritta qualche tempo dopo nel marasma che stava travolgendo il paese, don Garavini data il primo bombardamento all’11 marzo 1944. La vera data è il 10, come riporta Il Piccolo del 19 marzo che descrive la parte dell’episodio avvenuta a Faenza:
Faenza subisce la prima incursione aerea.
Circa le ore 22,15 di venerdì 10 corrente un aereo nemico [sic!] sorvolando la stazione ferroviaria lasciava cadere una bomba sul deposito macchine colpendo una locomotiva in pressione che scoppiava di schianto. Si sono avuti danni materiali, crollo di parte del fabbricato e del muro di cinta di fronte alla strada di San Silvestro e rottura di vetri e porte in stabili prospicienti e retrostanti la stazione stessa. Soprattutto si sono avuti a lamentare otto feriti e tre morti nelle persone dei ferrovieri Calderoni Domenico, Cecotti Armando e Maraci Enrico. Alle rimpiante vittime del dovere la cittadinanza, raccogliendo l’invito fattole con pubblico manifesto dal Commissario Prefettizio, ha tributato funerali imponentissimi”.
Domenico Calderoni è sepolto nel cimitero di Castel Bolognese. Nativo di Ravenna, risultava residente a Bologna ma, probabilmente, era domiciliato a Castel Bolognese
(nota a cura di Andrea Soglia)

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Storia di nonna Fina e di sua figlia Giovanna https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/storia-di-nonna-fina-e-di-sua-figlia-giovanna/ https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/storia-di-nonna-fina-e-di-sua-figlia-giovanna/#respond Sat, 11 Nov 2023 17:38:48 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11153 di Ivana Tonini (introduzione) Il 23 agosto 2023 è mancata Ivana Tonini. Nata il 13 marzo 1945, a guerra in corso, castellana di origine, viveva da molto tempo a Bologna. Io l’avevo conosciuta nel 2012, quando preparavo il volume sulle donne partigiane, e cercavo notizie di Giovanna Mingazzini, madre di …

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di Ivana Tonini

(introduzione) Il 23 agosto 2023 è mancata Ivana Tonini. Nata il 13 marzo 1945, a guerra in corso, castellana di origine, viveva da molto tempo a Bologna. Io l’avevo conosciuta nel 2012, quando preparavo il volume sulle donne partigiane, e cercavo notizie di Giovanna Mingazzini, madre di Ivana, una delle castellane che aveva fatto la staffetta fra il 1944 e il 1945. Mi ero rivolto a Matteo Tonini, libraio a Ravenna ma castellano doc, cugino di Ivana, che mi diede il suo recapito.
Incontrai Ivana in piazza Galvani a Bologna, e parlammo seduti sulle panchine poste ai piedi del monumento all’illustre fisico. Mi raccontò alcune cose, e io le spiegai il progetto del libro. Era mia intenzione intervistarla per scrivere la storia di sua mamma, ma lei, non so perché, aveva capito che le chiedevo di scrivere direttamente lei la storia.
Ci mise un impegno incredibile (questo lo seppi dopo, dalla sua storica amica Mig Brandinelli), perché, a causa dei gravi problemi di salute che l’avevano tormentata sin da ragazza, a seguito di un ennesimo malore aveva perso completamente la capacità di leggere e di scrivere (lei che era una stimata insegnante a Bologna) e quando l’avevo incontrata si stava riprendendo e stava imparando nuovamente daccapo.
Scrisse un pezzo molto bello, dedicato a sua madre Giovanna Mingazzini, a sua nonna Fina e parlò di suo padre, pur egli partigiano, Francesco Tonini (Chicò d’Vegna). Voleva rendere loro un pizzico di giustizia e con tanta determinazione si mise a scrivere il bellissimo pezzo che qui di seguito riproponiamo, già pubblicato sul volume “Non ho poi fatto tanto”.
Ivana Tonini venne alla presentazione, al circolo ARCI, nell’autunno del 2013, e rivide alcune sue storiche amiche d’infanzia. Fu quella sera che Mig Brandinelli, che l’aveva accompagnata, mi rivelò che la preparazione dello scritto aveva consentito ad Ivana di riprendersi notevolmente dal malore che aveva subito, e mi aveva ringraziato. Io le dissi che alla base di tutto c’era stato un fraintendimento, ma che forse tutto questo non era avvenuto così per caso, e che ero contentissimo del doppio successo che la mia iniziativa aveva avuto.
Ora sulla tomba di Giovanna e Francesco c’è anche il ricordo di Ivana. Era una donna molto bella, al punto, come ricordava lei stessa sorridendo, che quando era una ragazzina i comunisti castellani, irriverenti, avevano organizzato una sorta di processione civile e avevano issato lei su un carretto, a mo’ di Madonna. Ivana mi disse che conservava anche una foto di quella goliardata, assieme ad altri documenti castellani. Mi aveva promesso di farmeli consultare, ma poi la salute peggiorò nuovamente e purtroppo non ho avuto più il piacere di rivederla. La ricordo con affetto e con nostalgia, nonostante l’abbia vista 4 o 5 volte in tutto, e penso che il modo migliore di omaggiarla sia ricordarla assieme ai suoi genitori e a sua nonna Fina. (A.S., 11 novembre 2023).

Premessa

Quando, alcuni mesi fa, lo storico Andrea Soglia mi chiese di scrivere i miei ricordi sull’ impatto che le guerre mondiali avevano prodotto sulla mia famiglia, in particolare sulle donne, fui molto contenta di poter rendere un pizzico di giustizia a tanto coraggio, tanta volontà e tanta sofferenza. Purtroppo i protagonisti di questi ricordi se ne sono andati per sempre quando io ero ancora giovane e non mi ero data nessun compito di rendere sistematiche le loro memorie. Perciò quello che resta nel mio ricordo è solamente un insieme di episodi singoli, racconti occasionali, considerazioni del tipo di quelle che si sentono in famiglia, gli “amarcord” di coloro che, pur essendo stati protagonisti, hanno sempre pensato, come diceva mio padre, di avere fatto soltanto “quello che c’era da fare”.

Storia di nonna Fina e di sua figlia Giovanna

In Romagna, nel Novecento e soprattutto nella prima metà del secolo, molte persone venivano chiamate con un nome diverso da quello registrato all’anagrafe: poteva trattarsi di un diminutivo o di un’abbreviazione e, comunque, il risultato era una fantasiosa distorsione dell’originale.
Mia nonna si chiamava Giuseppina, in dialetto Jusfena, abbreviato Fena e italianizzato Fina.
Le vecchie foto dell’epoca ci consegnano ancora l’immagine placida e composta di una ragazza bruna e un po’ robusta, dal viso sereno e severo, con grandi e profondi occhi scuri.
Ancora giovanissima si innamorò, ricambiata, di Sante, un ragazzo biondo ed esile che, per una lontana parentela, portava il suo stesso cognome, Mingazzini.
Entrambi provenivano da famiglie contadine, con qualche appezzamento di terra in proprietà, frutto di secoli di durissimo lavoro nelle campagne di ricchi possidenti. Erano abituati a fatiche molto dure, lei nei campi e nei lavori domestici, compreso la cura degli animali da cortile, mentre lui lavorava la sua terra e andava saltuariamente a prestare la sua opera presso il vicino convento di Santa Chiara.
La bruna e vivace ragazza e il biondo giovanotto dai baffetti sottili si sposarono ben presto ed ebbero una bimba, Giovanna, somigliante al padre, con grandi occhi grigi e capelli dorati.
Era piccolissima quando scoppiò la grande guerra e il suo giovane padre fu costretto a partire per il fronte.
Alcuni mesi più tardi, durante una qualunque mattinata di lavoro, Fina fu raggiunta dal postino mentre si trovava da sola nei campi. Dal tipo di lettera che le venne consegnata, la giovane, pur non sapendo leggete, capì: di buste come quella ne aveva già viste altre al paese. Fu costretta a sedersi su una zolla, impietrita dal dolore e dalla paura e così la trovarono due parenti di passaggio alcune ore dopo, mentre continuava a fissare, con gli occhi asciutti, una zona vuota.
I giorni che seguirono non sarebbero andati a far parte dei suoi ricordi e dei suoi racconti. Il pudore dei sentimenti, i bisogni materiali, la bambina così piccola la spinsero ad andare avanti. La morte del giovane marito aveva causato un vuoto importante non solo nel mondo dei suoi sentimenti, ma anche nella conduzione dei lavori agricoli. I parenti furono chiari sull’argomento: Fina poteva restare nella casa che l’aveva accolta il giorno delle nozze, ma avrebbe dovuto raddoppiare il suo impegno nei campi per sostituire chi non c’era più e, ovviamente, occuparsi dei lavori domestici e della bimba.
La giovane vedova di guerra -questa era ormai la sua categoria sociale di appartenenza- accettò.
Del resto non avrebbe potuto fare diversamente poiché quello era il posto che spettava a sua figlia. Però il lavoro era durissimo e il tempo da dedicare alla piccola veramente poco. A questo punto accadde l’imprevisto: dal convento di Santa Chiara giunse un invito. Le suore, grate al giovane Sante che prima aveva lavorato per il Convento, poi era stato chiamato a morire per la patria, si dichiararono disponibili ad accogliere sua figlia come educanda. Fina fu di nuovo travolta da sentimenti dolorosi e contrastanti, ma, alla fine, sull’attaccamento e la tenerezza materni prevalsero la stanchezza e la convinzione che quel luogo, deputato dalle migliori famiglie all’educazione delle figlie , poteva essere veramente una fortuna per la piccola che, così, fu mandata in collegio.
Tutto sommato, se la cavò. Dai suoi racconti e dai suoi silenzi mi fu possibile immaginare una vita interiore non lineare, piena di sentimenti contrastanti, gratitudine e insofferenza, voglia di amicizia e chiusura, desiderio di comunicare e angosciante timidezza. Durante l’estate poteva tornare nella sua famiglia che, eccetto l’amatissima madre, le era sempre più estranea; poi, nei periodi scolastici eccola di nuovo in collegio dove imparò molte cose, l’italiano e la matematica, il latino e il francese, il disegno e il ricamo e perfino la ginnastica: l’educazione di queste fanciulle doveva davvero essere completa, anche se conseguire un diploma non era necessario.
Già adulta, quasi ventenne, Giovanna tornò a casa, cambiò di nuovo il contesto della sua esistenza e dovette imparare nuove regole e nuove mansioni, lavorare nei campi, lavare, cucire e far da mangiare per la numerosa famiglia. Mai, però, permise che il suo nome subisse alcuna modificazione. La mamma le stava vicino, finalmente con l’adorata figlia, ma senza essere capace di manifestarle il suo affetto: non faceva parte della cultura di quei luoghi e di quei tempi e in particolare della sua, che solamente per pochissimo tempo aveva conosciuto la tenerezza. Così anche la giovane, educata, tenera, istruita ragazza aveva fatto il suo ingresso nel duro mondo agricolo, tutto organizzato sui ritmi e sui tempi che andavano dalle semine ai raccolti.
Unico svago le passeggiate in paese nei giorni di festa, che avevano come scopo principale, come ovunque, quello di conoscere altri giovani. Fu così che incontrò Checco, ovviamente Francesco, che, quando la vide per la prima volta da lontano, senza neppure sapere chi fosse, comunicò agli amici: “Quella ragazza la sposo io”. Ciò avvenne dopo poco tempo.
L’ex collegiale, ben educata e timida si innamorò subito di quel giovane focoso e intrepido, che aveva lasciato presto gli studi per insofferenza verso un sistema che non tollerava e dal quale fu ricambiato e che si era distinto invece nell’esercito per il coraggio e la buona affermazione nelle attività sportive, in particolare nella novità del pugilato. A casa lavorava i campi con i genitori e il fratello Marco. Segretamente, però, aveva coltivato ben altri interessi.
In Italia imperversava il fascismo che aveva organizzato una società basata sul consenso obbligato. Questo consenso effettivamente ci fu e in parte fu autentico, ma in parte di comodo, simulato per ottenere o mantenere il lavoro, per non subire attacchi che potevano andare dall’olio di ricino al manganello, dal carcere al confino, in alcuni casi alla morte. Checco non era tipo da adattarsi a queste costrizioni ma in qualche modo riuscì sempre ad evitare rappresaglie e castighi. Segretamente leggeva libri che circolavano nonostante le proibizioni e così si avvicinò al marxismo di cui apprezzava fortemente la teoria dell’uguaglianza, del lavoro e della lotta di classe. Sognava una società libera e giusta, dove tutti avessero potuto dare il meglio di sé e nessuno avesse dovuto patire la fame, le ingiustizie e i soprusi. Odiava quella guerra in cui il fascismo si era impantanato al traino dei tedeschi.
Così, dopo l’ 8 settembre, fu subito nella Resistenza e Giovanna con lui.
Il territorio in cui Checco si impegnò fu quello delle colline sopra Riolo Terme, verso Casola ma talvolta anche verso e oltre Imola, nella direzione di Bologna, per i crinali e i sentieri in mezzo alla boscaglia. Conservo ancora, tra le cose che più mi sono care, una valigetta di legno che usava per trasportare farmaci d’urgenza da una postazione all’altra, dove erano necessari. Non furono solo umanitarie le azioni che mio padre dovette compiere in quella guerra. Purtroppo in ogni guerra esiste il lato più oscuro, più tragicamente violento che non si può evitare. Si può e si deve evitare la guerra, perché, dopo, è sempre troppo tardi. Me lo insegnò proprio mio padre una volta in cui io, giovanissima pacifista, quasi bambina, lo apostrofai con forza, chiedendogli se mai, durante la guerra, avesse ucciso qualcuno. Mi guardò con tanta tristezza e mi raccontò un episodio che gli era accaduto. Una volta, là nelle sue colline sopra Riolo, fu catturato di sorpresa da due tedeschi che, tenendolo sotto tiro, gli misero in mano una vanga e gli ordinarono di scavare una fossa. Fatti del genere ne erano già accaduti: Checco sapeva che la fossa era destinata proprio a lui. Allora, con un gesto fulmineo, con tutta la sua forza e la sua disperazione, fece roteare la vanga, colpì ed abbatté i tedeschi che chiacchieravano distratti e sicuri della loro superiorità, con lo strumento che gli avevano messo in mano. Mio padre concluse il tragico racconto chiedendomi: “Tu cosa avresti fatto?”. Tacqui. Avevo capito, in quel momento, con grande dolore e senso di impotenza, che, quando le guerre sono in corso, il pacifismo è certamente poco praticabile; l’unica, vera soluzione sta nel non farle iniziare mai.
Altri ricordi affollano la mia mente, ma sono ormai soltanto frammenti, suggestioni, immagini di una bambina che non ha mai chiesto nulla di più di ciò che i grandi raccontavano, perché quelle storie facevano paura. In particolare ricordo l’angoscia che mi pervase quando sentii che mio padre era stato condannato a morte in contumacia. Non conoscevo il significato del termine, ma abbinato al resto del discorso, che poi sarebbe stato appeso per il collo con un gancio ed esposto al pubblico, provocò in me uno stato d’animo il cui pensiero ancora mi turba.
E ancora ricordo il racconto di mio padre sull’ ultimo episodio, sulla conclusione della guerra in quella zona, quando il suo gruppo incontrò gli alleati che avanzavano verso Nord. Checco li esortò ad affrettarsi, ma loro, per tutta risposta, gli chiesero di garantire con la sua vita che il territorio fosse completamente libero dai tedeschi. Checco garantì, anche se ovviamente la certezza assoluta nessuno poteva averla. Così proseguirono e non ci furono ostacoli. Era fatta, ma in casa ci si interrogò a lungo su questo atteggiamento degli alleati. Perché non si affrettavano? Perché chiedevano garanzie? Vincere serviva a tutti, non solo ai partigiani. Vero è che doveva esserci un collegamento tra l’avanzata da Nord e quella da Sud, ma a quel punto alcune ore non sarebbero state determinanti. Cosa allora? Scaricare responsabilità, non fidarsi di nessuno? Anche questo appare improbabile. Resta sempre, comunque, l’errore di valutazione che molto offese, comprensibilmente, i nostri.
Giovanna, nel frattempo, cosa aveva fatto? Era rimasta sempre a fianco di Checco e nelle condizioni disperate in cui si trovavano, visse il suo amore di giovane sposa. Rimase incinta per la prima volta di un bimbo che non ce la fece, poi di me, nata poche settimane prima della fine del conflitto. Intanto cercava di aiutare come poteva i partigiani e, mi disse una volta, una donna incinta che camminava dimessa per strada non attirava l’attenzione dei nemici. In questo modo poteva muoversi per portare messaggi e, a volte, anche armi che, a suo dire, il pancione nascondeva bene.
Continuò a correre rischi, per se stessa e anche per me, sia pure involontariamente, anche dopo la mia nascita, avvenuta in una cantina adibita a rifugio, a Riolo. Ma sapeva che i rischi si correvano in ogni modo e che molti erano stati uccisi per caso, perché si trovavano nel posto sbagliato o per sospetto o per rappresaglia. Una volta, pochi giorni dopo la mia nascita, arrivarono nell’edificio alcuni soldati tedeschi e scesero nello scantinato dove mia madre era sdraiata accanto a me. Erano armati e minacciosi, ma l’ufficiale che li comandava li fermò e li fece allontanare. Poi si diresse verso di noi, appoggiò le armi lontano da sè e si sedette. Ci guardò a lungo e mi fece una carezza. Poi si rivolse a mia madre e le disse: “Nella mia famiglia non c’è più nessuno, tutti uccisi. Quando la guerra sarà finita, tornerò a prendervi e vi porterò con me”. Se ne andò rapidamente con i suoi soldati e nessuno lo rivide mai. Mia madre scoppiò in lacrime: aveva avuto tanta paura per me e per se stessa, ma anche tanta pena per quello che era sì un nemico pericoloso, ma anche un disperato che forse un tempo aveva creduto in quella guerra, ma che ormai sosteneva la sua esistenza aggrappandosi a vane suggestioni.
Nonna Fina, intanto, aveva trascorso tutto quel tempo come sempre, come durante la prima grande guerra, lavorando e cercando di procurare cibo per sé e per i suoi cari, quando aveva occasione di vederli. Ma questo conflitto non risparmiò proprio nessuno e in casa di Fina, la vedova di guerra, un giorno arrivò un gruppo di tedeschi e di fascisti che cercavano Checco e che volevano sapere da lei dove si trovasse. Per costringerla a parlare, prima la minacciarono, poi la picchiarono, sempre più violentemente e crudelmente, fino a ridurla a un essere irriconoscibile, coperto di sangue, con alcune vene spaccate, tumefatto fino a non essere più riconoscibile. Poi, in mezzo a quella situazione assassina si levò imperiosa la voce di uno di loro, un italiano: “Basta, lasciatela stare, è chiaro che non sa niente”. Così se ne andarono, abbandonandola a terra, dove fu trovata più tardi da alcuni vicini. Per tutto il resto dei suoi anni Fina ricordò con gratitudine l’uomo che, con disinvoltura, le aveva salvato la vita. “Era uno -diceva- che faceva il doppio gioco. Faceva finta di essere uno di loro, invece era dei nostri”. “E perchè, allora, non ti ha salvato prima e ha rischiato che ti ammazzassero?” Chiedevo io, bambina preoccupata, alla mia nonna .”Perché – mi rispondeva lei – se l’avesse fatto, avrebbe potuto destare sospetti nei fascisti”. Del resto questa persona, neppure dopo la fine della guerra, rivelò mai il suo nome e chiese a chi lo conosceva di rispettare la sua decisione: Fina la rispettò.

 

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“Risento la stretta di una mano ancora nella mia, calda e forte”: i castellani in soccorso dei soldati italiani sbandati dopo l’8 settembre 1943 https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/risento-la-stretta-di-una-mano-ancora-nella-mia-calda-e-forte-i-castellani-in-soccorso-dei-soldati-italiani-sbandati-dopo-l8-settembre-1943/ https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/risento-la-stretta-di-una-mano-ancora-nella-mia-calda-e-forte-i-castellani-in-soccorso-dei-soldati-italiani-sbandati-dopo-l8-settembre-1943/#respond Mon, 10 Apr 2023 16:11:51 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=10581 di Andrea Soglia Uno dei primi effetti dell’armistizio dell’8 settembre 1943 fu quello di lasciare i tanti soldati italiani in balia degli eventi e, soprattutto, nel mirino degli ex-alleati tedeschi che, da amici, divennero improvvisamente nemici. I ragazzi italiani si trovarono spesso allo sbando, non solo sui vari fronti esteri …

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di Andrea Soglia

Uno dei primi effetti dell’armistizio dell’8 settembre 1943 fu quello di lasciare i tanti soldati italiani in balia degli eventi e, soprattutto, nel mirino degli ex-alleati tedeschi che, da amici, divennero improvvisamente nemici. I ragazzi italiani si trovarono spesso allo sbando, non solo sui vari fronti esteri ma anche in Italia, e in grave pericolo. Uno dei primi modi per tutelarsi era quello di disfarsi dell’uniforme militare e di indossare abiti civili. E anche nel territorio di Castel Bolognese ci fu un movimento della popolazione, in parte spontaneo e in parte organizzato, per fornire ai tanti ragazzi i vestiti necessari. Erano giovani di passaggio, magari sulla via del ritorno a casa, e dopo quel breve contatto difficilmente si sarebbero fatti vivi con i loro occasionali benefattori, di cui spesso ignoravano il nome.
Tanti soldati italiani non fecero a tempo a confondersi fra il resto della popolazione e ben presto furono fatti prigionieri dai neo-occupanti tedeschi, con la terribile prospettiva di essere deportati in un campo di concentramento nazista. Di due di questi soldati, in sosta a Castello dopo essere stati catturati, rinchiusi per qualche giorno dentro la scuola elementare (oggi intitolata a Carlo Bassi), divenuta base dei tedeschi, ci rimangono i nomi e le storie, perché, a guerra finita, si rifecero vivi in qualche modo con chi li aveva aiutati. Se in un caso il contatto pare essere stato occasionale, nell’altro la corrispondenza, pure se a fasi alterne, arrivò fino agli anni ’90. Lasciamo alle lettere in nostro possesso il racconto delle due vicende, che non escludiamo possano essersi svolte in contemporanea o in rapida successione con dinamiche identiche.
Nell’archivio parrocchiale di San Petronio è conservata questa lettera:

“Egregio Signor Arciprete,
il 13 ottobre dell’anno 1943 proveniente da Bastia sostai alcuni giorni costì nelle scuole quale prigioniero dei tedeschi. Dopo due o tre giorni di permanenza potei sfuggire smettendo l’abito militare cambiato con indumenti borghesi fornitimi gentilmente da una famiglia poco distante dalle scuole. Ai signori che ci usarono la cortesia di offrirci il modo di fuggire alla prigionia promisi che avrei mandato gli abiti appena le cose si sarebbero cambiate. Ora intenderei inviarli a mezzo posta ma ho perduto l’indirizzo datomi da loro. Essi però hanno il mio nome e cognome. Vi chiederei perciò il favore o di dirlo in Chiesa o di chiedere nelle vicinanze delle scuole se si ricordassero di aver dato gli abiti al sottoscritto Maresciallo Castagna Giovanni di Ceresara Mantova. Uscendo dalle scuole si piegava a destra e poi dopo un po’ a sinistra si entrava in un vicoletto e si accedeva a una bella casa signorile (senza cancellata) con piccolo atrio. V’è anche il salotto in vimini, per arrivare al quale occorre passare per la cucina.
Il signore (circa 45-46 anni) conosceva due signori del mio paese (Sig. Imperatori e Sig. Sbarbada) che sono due dottori in veterinaria. La sua mamma (65 circa) è una signora distinta, corporatura piuttosto tarchiata, al momento della fuga mi consegnò un vestito di lana fresco grigio chiaro, e camicia bianca.
Le sarei grato se volesse interessarsi della cosa e scrivermi quanto prima qualche cosa in merito.
Ringraziandola le invio ossequi.
Castagna Giovanni
Ceresara (Mantova)”

Gli sviluppi successivi non li conosciamo, e non sappiamo nemmeno se gli ignoti benefattori fossero poi scampati alla lunga sosta del Fronte lungo il Senio. Di certo, aiutando il soldato Giovanni Castagna nella fuga, avevano rischiato la loro stessa vita.
Gli stessi rischi li avevano corsi i coniugi Francesco e Domenica Cortecchia e il loro giovane figlio Carlo, di 16 anni, quando aiutarono contemporaneamente due soldati originari dell’Istria, Joakim (Gioacchino) Hekić Bratulić e Giovanni Sterpin. Paolina Pini, moglie di Carlo Cortecchia, ha conservato le lettere e le cartoline più recenti (le più datate sono irreperibili) spedite da Gioacchino Hekic e ce le ha messe a disposizione. Una lettera in particolare, datata Pola 26 febbraio 1991, ci permette di capire che i rapporti fra Gioacchino e la famiglia Cortecchia si erano mantenuti a lungo salvo poi interrompersi. Fu Gioacchino a riallacciarli e non si arrese nemmeno quando la lettera gli era ritornata indietro in quanto l’indirizzo era sconosciuto: Carlo Cortecchia si era trasferito e suoi genitori erano mancati rispettivamente nel 1975 e nel 1984. Fondamentale fu di nuovo il ruolo della parrocchia: Gioacchino prese la lettera e la mise in un’altra busta indirizzandola al parroco… e naturalmente il nostro don Gianni Dall’Osso impiegò poco a farla avere a Carlo. Riportiamo il testo:

“Signora Cortecchia Domenica
possiedo tutte le quattro lettere di Lei: 12.2.1946, 26.11.1950, 23.8.1961 e 28.9.1964, che poi sono un po’ la storia di Castel Bolognese, da quando con il suo nobile aiuto mi aiutò ad evadere dalla prigionia dei germanici, vestendomi in borghese come fece anche per il mio compagno Giovanni Sterpin, e da dove ci siamo messi per il ritorno in Istria, senza alcun documento.
Prima di questo nel locale ove ci trovavamo, ci portarono vostri generosi cittadini una cena e con loro vennero due sacerdoti: uno più anziano e uno più giovane. Ci si parlava fra noi che sono forse venuti per aiutarci a liberarci, e facevamo conto a dei due rivolgersi, ci siamo rivolti al più giovane pensando che per caso era cappellano militare e abbiamo indovinato, lui ci disse tutto è organizzato basta che entrate in una qualunque casa, sarete vestiti in borghese, e così abbiamo fatto venendo da Lei. Al giovane sacerdote gli dissi che possiedo una bottiglia d’inchiostro e se gli serve che gli do’ – disse proprio bene, non ho l’inchiostro nemmeno per i timbri -. Quando penso a Lei mi viene sempre in mente il ricordo di questi due sacerdoti. (Gli dia a leggere la presente). Il mio pensiero è la preghiera smpre per voi tutti.
Per Pasqua la cartolina della nostra città e con la chiesa della parrocchia ove stavo prima, poi della parrocchia pure.
Se la Madonna vuole al mio prossimo viaggio in Italia auspico che mi aiuti di raggiungervi costà e se voi e i sacerdoti venite qui non dimenticate di visitarmi.
Tanto per ora e in avvenire, spero in Dio di più.
Con immensa gratitudine e immutato affetto abbiate tutti i miei cordiali saluti.
vostro Gioacchino
a Pola lì 26.2.1991″

E’ facile ipotizzare che il sacerdote più anziano fosse padre Francesco Samoggia, che aveva svolto una pericolosa attività clandestina in favore dei prigionieri di guerra, per la quale subì poi l’arresto e rischiò la deportazione in Germania. Ci riesce difficile, invece, identificare il cappellano militare che, a quanto ricordava Carlo Cortecchia, era morto per mano tedesca. Paolina Pini ci ha riferito che, secondo quanto raccontava Carlo, i due prigionieri si erano calati da una finestra del primo piano della scuola elementare, che dava sul retro dell’edificio e Carlo li attese per accompagnarli a casa sua a cambiarsi di abito. Quanto fatto da Carlo non si limitò a questo, come si può leggere dalla risposta alla lettera, scritta da Paolina sotto dettatura di Carlo, della quale Paolina conserva la minuta in uno dei suoi quaderni. Ne riportiamo alcuni passaggi, da uno dei quali abbiamo tratto il titolo di questa pagina:

“Gentilissimo signor Gioachino,
rispondo alla gradita sua […].
Le persone che Lei ricorda purtroppo sono morte da tempo Domenica manca dal 1975, Francesco dal 1984. Mi presento a lei che le scrivo sono Paola moglie di Carlo figlio dei defunti, colui che in bicicletta l’aiutò in quei giorni bui lontani ma ancora tanto presenti nel cuore e nelle menti, la sua presenza giovane e piena di paura, di ansia del resto condivisa si rischiava la vita in due. E’ bello ricordare ora il passato riporta al presente l’umanità che legava gli uomini, valori ormai scomparsi nel tempo.
Ricordo Lei e un altro nella mia casa per un rapito cambio di abiti e via nella notte verso Imola in bicicletta verso casa si sognava ma la casa era lontana e i pericoli ancora tanti. Ora nel ricordo cerco un volto che non trovo ma risento la stretta di una mano ancora nella mia, calda e forte, un abbraccio un grazie fra le lacrime.
Spero che i documenti che a Lei servirono per la pensione e che nonno Francesco con l’aiuto del parroco di allora don Sermasi li procurò con amore e premura […]
Mi chiede del cappellano militare. Lui morì per mano tedesca […]
Speriamo sempre bene per un domani sicuro di nuovo un abbraccio una stretta di mano Carlo e da mia moglie Paola che ha scritto quanto io ho dettato a lei un risentirci mi raccomando non sbagli indirizzo”.

A questa lettera seguirono alcune cartoline fino al 1994, poi il silenzio. Carlo Cortecchia è morto nel 2012.
Le storie di Gioacchino e di Giovanni (di cui speriamo di trovare, in futuro, ulteriori notizie biografiche), e dei castellani che li aiutarono generosamente, e non senza rischi, meritavano un breve ricordo. Rientrano in quelle decine di piccoli ma grandi gesti che hanno contribuito a far avere a Castel Bolognese la medaglia d’argento al merito civile. Storie che negli archivi non risultano e che sono un patrimonio da tutelare. E che a nostro avviso sono assai più affascinanti della inflazionata storia militare del conflitto che ha sempre dimenticato le singole persone.

Si ringrazia sentitamente Paolina Pini per il materiale fornito

 

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Sui soldati tedeschi caduti a Castel Bolognese nel 1944-1945 e la loro sepoltura nel cimitero castellano (1949-1962) https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/sui-soldati-tedeschi-caduti-a-castel-bolognese-nel-1944-1945-e-la-loro-sepoltura-nel-cimitero-castellano-1949-1962/ https://www.castelbolognese.org/fatti-storici/xx-secolo/seconda-guerra-mondiale/sui-soldati-tedeschi-caduti-a-castel-bolognese-nel-1944-1945-e-la-loro-sepoltura-nel-cimitero-castellano-1949-1962/#respond Tue, 14 Mar 2023 09:56:43 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=10392 testo storico a cura di Andrea Soglia; elenchi dei nomi a cura di Andrea Raccagni Dopo la Liberazione e i primi pericolosi mesi successivi con le mine sempre pronte ad uccidere, Castel Bolognese si trovò a contare le vittime civili e a dare a tutte loro una dignitosa sepoltura nei …

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testo storico a cura di Andrea Soglia; elenchi dei nomi a cura di Andrea Raccagni

Dopo la Liberazione e i primi pericolosi mesi successivi con le mine sempre pronte ad uccidere, Castel Bolognese si trovò a contare le vittime civili e a dare a tutte loro una dignitosa sepoltura nei vari cimiteri del Comune, poiché tante di loro, specie in campagna, erano state provvisoriamente seppellite nei pressi della loro abitazione o addirittura rimaste sotto le macerie di esse. Fu smantellato anche il piccolo cimitero provvisorio creato nell’orto dell’Ospedale Civile. Alle 250 circa vittime civili si aggiunsero anche un centinaio di morti fra i militari dell’esercito tedesco che aveva occupato il paese. Erano stati sepolti in numerosi punti del paese e, circa un terzo di essi, nel parco della Villa Centonara (che, ricordiamo, era stata sede principale del Comando tedesco) nei pressi dell’Oratorio Bragaldi.
Fu forse eseguita qua e là qualche mappatura della situazione, fu fatta una piantina del cimitero provvisorio nel parco della Contessa, ma le salme non furono spostate. Solo nell’estate del 1949, a 4 anni dalla fine della guerra, cominciò a muoversi qualcosa. Con lettera datata 30 giugno 1949 la Prefettura di Ravenna, essendo a conoscenza dell’esistenza di salme sparse di militari tedeschi, invitava il Comune di Castel Bolognese ad inviare un preventivo per la traslazione di tutte le salme presso il cimitero comunale in modo da “provvedere alla onorevole sistemazione delle salme”. Il preventivo sarebbe poi stato inoltrato al Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti presso il Ministero della Difesa che avrebbe autorizzato e successivamente rimborsato le spese sostenute. Una volta perfezionate le pratiche burocratiche, il 15 novembre 1949 si diede il via alle operazioni di esumazione, che cominciarono dal parco della Contessa. Il maltempo di quell’autunno e le conseguenti alluvioni ritardarono il recupero delle salme, che, relativamente al parco della Contessa, si conclusero pochi giorni prima di Natale 1949. In una relazione delle operazioni redatta dall’Ufficio Tecnico si può leggere che “tutto quanto si poteva fare per giungere alla identificazione dei caduti è stata fatta con coscienza e scrupolosità” e che “se purtroppo qualche salma non potrà essere identificata, ciò non sarà da addebitare al personale, che, dal necroforo agli operai, ha avuto ogni cura ed ogni zelo, ma piuttosto allo stato di emergenza del momento in cui i morti venivano sepolti”
Nei mesi successivi si recuperarono tutte le salme sparse altrove, per un totale di 94 e il 30 marzo 1950 le operazioni furono dichiarate concluse. La spesa totale fu di 188.548 lire, compresi la manodopera per la raccolta, la tumulazione e sistemazione del terreno del cimitero, il trasporto delle salme, le cassette e le croci di legno, verniciate di chiaro (fornite dal falegname Giovanni Farolfi) e le targhe in alluminio con incisi i nomi (fornite dalla ditta Alberto Gamberini, incisore meccanico di Bologna).
Tutte le salme furono sepolte in un campo dedicato, il n. 6, un rettangolo di 10×18 metri, oggi identificabile con la zona su cui sono sorte tombe di famiglia nell’angolo sud-ovest del campo del cimitero vecchio, non lontano dalla chiesina. Alle 94 salme dei soldati tedeschi (alcune provenienti da altre parti del cimitero) si aggiunsero quelle di due soldati italiani. In archivio comunale si conservano diverse carte relative alla richiesta di notizie riguardo alle salme non identificate: tante famiglie tedesche erano alla ricerca dei propri cari le cui ultime notizie li davano presenti sul fronte del Senio e non di rado si rivolgevano al parroco don Sermasi perché si interessasse presso la autorità civili.
Dal Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti erano arrivate anche istruzioni precise sulla manutenzione delle tombe, che poteva dirsi buona se rispettavano tre condizioni: “1) tumuli sopraelevati, ben individuabili e distinti l’uno dall’altro; 2) croci verniciate in bianco, con targhetta metallica con incise le generalità del caduto, ben confitte nel terreno ed in posizione eretta; 3) sepolture esenti da erbacce cresciute spontaneamente ed incolte”. E di tanto in tanto arrivavano ispezioni o visite per verificare il rispetto delle istruzioni, non solo del Commissariato italiano, ma anche della Volksbunde deutsche Kriegsgräberfürsorge, una associazione umanitaria tedesca, fondata il 16 dicembre 1919, riconosciuta come servizio pubblico, il cui scopo è tuttora la manutenzione delle tombe delle vittime di guerra. L’associazione inviò nel dicembre 1960 il signor Busch-de Costa a visitare le tombe castellane, e successivamente una lettera in cui porgeva alla nostra Amministrazione “l’espressione della nostra vivissima gratitudine per quanto, nel passato, ha voluto fare per mantenere in uno stato irreprensibile le tombe dei Caduti Germanici tuttora sepolti nel territorio del Comune”. Dalla stessa lettera si legge per la prima volta che “tali morti, come è noto, si trovano in attesa di un trasferimento in un Cimitero di Guerra sul passo della Futa, ora in fase di costruzione”.
Dalla Volksbunde deutsche Kriegsgräberfürsorge arrivarono altre lettere con le quali si richiedevano particolari servizi (regolarmente pagati) come l’acquisto di fiori da collocare su una determinata tomba o si annunciava, nel periodo estivo, l’arrivo di gruppi di giovani tedeschi inviati a contribuire alla manutenzione delle tombe. Ad una visita di queste delegazioni di giovanissimi tedeschi assistette casualmente Ubaldo Galli, che ne lasciò memoria in uno dei suoi tanti quaderni oggi conservati nella nostra biblioteca comunale.
“26-7-1960. Abbiamo accompagnato al cimitero la salma della prof. Antonietta Santini di Urbino morta a Castello dove per lunghi anni fu Direttrice didattica delle Scuole Elementari.
Al cimitero ho visto un gruppo di una quindicina di giovanetti in calzoncini corti e maglietta schierati sull’attenti all’arrivo del feretro; non sono di Castelbolognese.
Caroli mi dice che sono giovani tedeschi giunti dalla Germania per ripulire rifare le croci e sistemare le tombe dei soldati tedeschi morti durante la guerra del 40-45 e qui sepolti.
La cosa mi ha colpito profondamente. All’aspetto sono tutti al di sotto dei sedici anni, quindi generazione del dopoguerra.
Quale lezione per noi. I giovani di là vengono educati ad onorare i morti, tutti i morti anche quelli della guerra nazista […]”
Nel 1962, come preannunciato già qualche tempo prima, tutte le salme dei tedeschi ancora presenti nel cimitero di Castel Bolognese (alcune erano state trasferite altrove) furono esumate per essere trasportate al Cimitero militare germanico della Futa nel comune di Firenzuola. Alla Futa sono sepolte 30.683 salme, fra esse anche quelle di soldati tedeschi morti a Castel Bolognese ma sepolti provvisoriamente in altri comuni e quelle di alcuni soldati tedeschi i cui resti sono stati rinvenuti nel territorio comunale successivamente al 1962. Delle tombe castellane ci rimangono la fotografia di quella del soldato Erich Sandrock eseguita nel 1954 dal nostro fotografo Angelo Minarini su richiesta della famiglia e il prototipo della targa relativa alla tomba del soldato Karl Heinz Matschowski.
L’elenco delle tombe castellane e le altri informazioni sono a cura di Andrea Raccagni che da moltissimi anni sta costruendo un database sulle vittime tedesche sepolte alla Futa e che ha trascritto i vari elenchi presenti nel nostro Archivio storico comunale.

(tutte le notizie provengono dal faldone n. 407, 1962, Archivio storico comunale di Castel Bolognese)

1- 09.02.1945 Caporale Maggiore Dubbelfeld Josef 29.05.1919 (rinvenuto presso V. Emilia-C.sa Marcona)

2- 29.01.1945 Caporale Maggiore Michel Heinz 11.09.1925 (11.02.1925) (Sepolto presso V. Emilia-C.se Torretta) (trasferito in data sconosciuta a Bologna/Certosa nel campo 1 tomba 749 (?))

3- 19.12.1944 Aspirante Sergente Kunde Walter 17.09.1926 (Sepolto presso V. Emilia-C.sa Rossetta) (trasferito a Cervia il 19.07.1950 nel blocco V(5)-P)

4- 18.01.1945 Sergente Paracadutista Schön Georg 02.01.1911 (rinvenuto presso via Rezza)

5- 18.01.1945 CaporaleMaggioreArtigliereBöhmAdolf 06.09.1921 (rinvenuto presso via Rezza)

6- 18.01.1945 Caporale Wigger Heinrich 28.07.1924 (rinvenuto presso via Rezza) 

 


 

Le salme dal N° 7 al N° 15 sono state riesumate dai pressi della Chiesa di Campiano
e trasferite nell’area riservata ai Caduti Tedeschi del Cimitero Comunale

7- 17.02.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Härtenberger Anton 23.05.1922 (foto da collezione privata)

8- 18.01.1945 Sergente Franz Walter 26.09.1924

9- 06.03.1945 Paracadutista Waess Ernst 14.07.1925

10- 22.12.1944 Sergente Müller Eugen 07.10.1908 (foto da www.findagrave.com)

11- 15.01.1945 Caporale Schramm Heinz 09.09.1926

12- 23.12.1944 Caporale Hoffmann Hans 04.04.1917

13- 22.12.1944 Caporale Maggiore Thriene Karl 23.12.1907

14- 23.12.1944 Caporale Granatiere Rösch Johann 12.12.1925

15- 18.12.1944 Caporale Maggiore Hampp Max15.08.1915

 


 

16- 18.12.1944 Sergente Medico Freydank Herbert 01.01.1918 (rinvenuto presso via Casolana-C.sa Marra)

17- 18.12.1944 Caporale Hofmann Heinz 30.04.1920 (rinvenuto presso via Gradasso)

18- 06.03.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Mohr Erwin 15.08.1912 (rinvenuto presso S. Rinfosco-Fantina)

19- 28.02.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Bothe Anton 02.10.1914 (rinvenuto presso S. Rinfosco-Fantina)

20- 23.02.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Schroeder Johannes 13.12.1919 Hamburg (deceduto presso Casa Madonna loc. Campiano e rinvenuto presso S. Rinfosco-Fantina)

21- 03.02.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Focke Kurt 20.02.1921 (rinvenuto presso S. Rinfosco-Zolla)

22- 02.01.1945 Caporale Maggiore Schämann Wilhelm 05.02.1924 (rinvenuto via Casolana fondo Banafa)

23- Soldato tedesco sconosciuto (rinvenuto via Casolana fondo Banafa)

24- 19.12.1944 Soldato Medico Reichel Emil 09.06.1906 (rinvenuto via Casolana fondo Banafa)

25- 18.01.1945 Granatiere Lenz Johann 17.11.1912 via Pagliaccina fondo Gadona)

26- Soldato tedesco sconosciuto (rinvenuto presso via Gradasso)

27- 17.12.1944 Caporale Iselt Helmut 26.02.1925 presso via Farosi Palazzo Ginnasi ?)

28- 25.09.1944 Maresciallo Capo Paracadutista Heyer Wilhelm 29.06.1913 (rinvenuto via Morandina F. Morandini)

29- 09.12.1944 Caporale Fesel Werner 06.06.1921 (rinvenuto presso via Biancanigo) (trasferito in data sconosciuta Cervia nel blocco IV(4)-P)

30- 25.10.1944 Caporale dell’Aviazione Reinke Heinrich 28.11.1911 (rinvenuto via Biancanigo fondo Caia)

31- 23.02.1945 Caporale Maggiore Weisbrod Rolf 18.08.1923 (rinvenuto Biancanigo fondo Caia)

32- 23.02.1945 Sergente Paracadutista Flir Hugo 25.07.1924 (rinvenuto presso fondo Caia)

33- 23.02.1945 Sergente Paracadutista Kästner Helmut 22.01.1915 (rinvenuto via Casolana fondo Torretto)

34- 16.12.1944 Caporale Maggiore Zerkowska Paul 20.01.1921 (rinvenuto presso Biancanigo fondo Chiusa)

35- Italiano ignoto (rinvenuto presso via Casolana Torretto)

36- 04.02.1945 Caporale Paracadutista Müller Josef 11.06.1925 (11.07.1925) (rinvenuto presso Renazzo Chiusa Sopra)

37- 18.12.1944 Sergente Granatiere Rössel Rudi 31.12.1913 (rinvenuto strada Morandina fondo Gallina)

38- 18.12.1944 Caporale Maggiore Granatiere Weissert Friedrich 13.07.1924 (ritrovato presso fondo Gallina a ponente di Campiano)

39- Soldato tedesco sconosciuto (ritrovato presso via Serra podere Collina)

40- Soldato tedesco sconosciuto (ritrovato presso via Serra podere Zanelli)

41- Soldato tedesco sconosciuto Landroig Adolph (???) (ritrovato presso via Serra podere Zanelli)

42- 16.12.1944 Caporale Jähnert Rudolf 05.10.1914 (esumato presso presso Cimitero di S. Maria della Pace)

43- 10.01.1945 Caporale Steinfeld Gustav 12.07.1926 (rinvenuto presso Biancanigo-Caia) (trasferito in data sconosciuta nel cimitero di Medicina campo G fila 7 tomba 2)

 


 

Le salme dal N° 44 al N° 73 sono state riesumate il 16 Novembre 1949 dal Parco della Contessa Gottarelli e trasferite nell’area riservata ai Caduti Tedeschi del Cimitero Comunale

44- 06.02.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Hämischer Carl (Hönischer Karl) 06.11.1921

45- 06.02.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Saur Erwin 02.09.1923

46- 08.02.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Mais (Weis..) Heinz 09.08.1919

47- 29.01.1945 Sergente Paracadutista Neubauer Gottfried 26.02.1918

48- 16.02.1945 Paracadutista Aügenendl Heinz (??) 23.03.1915

49- 17.02.1945 Sergente Paracadutista Lang Wilhelm 04.12.1920

50- 18.02.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Lehner Leo 08.01.1922

52- 22.02.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Pelzer Richard 02.05.1907

53- 24.02.1945 Sergente Paracadutista Weiss Günter 08.03.1919

54- 1945 Caporale Maggiore Paracadutista ….olein Johann 05.03.1922

55- 23.02.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Fenz Johann 17.12.1925

56- 23.02.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Sukert Heinz 18.07.1926

57- 24.02.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Müller Willi 19.06.1922

58- 24.02.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Reps Erich 10.03.1917 Halberstadt

59- 01.03.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Sturm Walter 16.09.1924

60- 04.03.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Stirner Hans 11.01.1920

61- 08.03.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Ullrich (Utrich) Willi 17.07.1921

62- 15.01.1945 Sergente Paracadutista Oberle Alfred 20.08.1922

63- 14.03.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Harden Herbert Adolf Johann 26.04.1922

64- 16.03.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Zienert Rudolf 15.04.1918

65- 10.03.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Winter Johannes (Johann) 13.10.1926

66- 24.03.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Laumann Josef 11.11.1922

67- 23.03.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Wild Johann 06.07.1922

68- 26.03.1945 Sergente Paracadutista Friese Willi 10.04.1922

69- 26.03.1945 Caporale Paracadutista Rottkewitz Heinz 24.05.1925

70- 26.03.1945 Caporale Paracadutista Hausin Reinhold 05.02.1924

71- 01.04.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Peklo Ludwig 12.07.1922

72- Soldato tedesco sconosciuto

73- 30.03.1945 Sergente Paracadutista Treubner Franz 08.02.1917

*Nota:
In corrispondenza della croce recante la seguente scritta:
« 24.02.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Matschowski Karl Heinz 07.02.1920» non è stata sepolta nessuna salma

 


 

74- Soldato tedesco sconosciuto 

 


 

Le salme dal N° 75 al N° 86 sono state riesumate dal Cimitero di Casalecchio
e trasferite nell’area riservata ai Caduti Tedeschi del Cimitero Comunale

75- 27.01.1945 Caporale Paracadutista Keune Bernhard 08.02.1926

76- (Grado non identificato) Bonel Ernst

77- (Grado non identificato) Wirle Josef

78- 1945 Caporale Paracadutista Pula Wilhelm 21.06.1925

79- 05.02.1945 (Grado non identificato) Sporn Walter 18.02.1929

80- Soldato tedesco sconosciuto

81- Soldato tedesco Paracadutista sconosciuto

82- Soldato tedesco sconosciuto

83- 11.02.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Lingermann Johann 09.04.1920

84- 11.02.1945 Granatiere Renen Demetti (??) 04.09.1921

85- 14.03.1945 Granatiere Merten Josef 04.09.1921

86- 03.1945 Caporale Maggiore Leissner Horst 25.02.1919

 


 

Le salme dal N° 87 al N° 94 sono state riesumate dal Cimitero Comunale e trasferite nell’area riservata ai Caduti Tedeschi del Cimitero Comunale

87- 1944 Caporale Maggiore Vosts Jon (??) 17.03.1921

88- 25.11.1944 Caporale Maggiore Artigliere Mergenthaler Andreas 15.10.1910 Markt Bibart (Salma proveniente dall’Ospedale da campo presso l’Olmatello)

89- 25.11.1944 Maresciallo di Fanteria Weiss Kurt 24.12.1920 (Salma proveniente dall’Ospedale da campo presso l’Olmatello)

90- 24.11.1944 Caporale Artigliere Wübbenhorst Christoffer 16.09.1924

91- 05.11.1944 Sergente Carrista Ränsch Paul 16.02.1925 (Salma proveniente dai combattimenti presso Forlì)

92- 05.11.1944 Sergente Carrista Karger Richard 17.01.1917 (Salma proveniente dai combattimenti presso Forlì)

93- 19.02.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Sandrock Erich 21.07.1923

94- 05.03.1945 Caporale Maggiore Paracadutista Rudolph Willi 25.09.1924

 


 

Soldati tedeschi tumulati non presenti nella lista ma identificati successivamente

18.12.1944 Caporale Ladwig Erwin 06.02.1920

13.02.1945 Caporale Maggiore Schumann Werner 23.02.1923

1945 Caporale Maggiore Schäckel Heinrich 18.05.1908

18.01.1945 Caporale Berling Johann 31.10.1924 (rinvenuto presso casa Rezza)

 


 

Soldati tedeschi ritovati nel dopo guerra

19 Luglio 1968
Rinvenuto resti mortali di un soldato tedesco presso località «Rossetta/Bolsinetta»

6 Giugno 1969
Rinvenuto resti mortali di 2 soldati tedeschi presso «Podere Caibana» Campiano

5 Novembre 1969
Rinvenuto resti mortali di un soldato tedesco presso «Fondo Caio di Sotto» Campiano

 


 

Block 8 Grab 94 15.12.1944 bei CASTELL BOLOGNESA Friedhof Medicina grab ?? Gefreiter Nelke Karl 22.11.1910

Block 42 Grab 70 04.12.1944 CASTEL BOLOGNESE friedhof BUBANO grab 9 E.R. 3./ A.R.18 -32- Unteroffizier Susallek Paul 27.05.1917

Block 42 Grab 181 08.01.1945 CASTEL BOLOGNESE lesioni da schegge mandibola, braccio sx e gamba sx Friedhof BUBANO grab ?? 15.Kp./Panzer-Grenadier-Regiment 71 (mot) E.M. Stabskp.G.R. 71(mot) -18- (in sostituzione alla perdita di E.M. Stabskp.G.R. 71(mot) -681-)

Gefreiter Klopott Georg 29.09.1923

 


 

Registrati fra gli sconosciuti nelle lapidi del Futa Pass

 

26.01.1945 CASTELBOLOGNESE Obergefreiter Stöckel Ehrhard 07.11.1922

16.03.1945 bei CASALECCHIO Soldat Demuth Henry 04.09.1921

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