Edifici e Monumenti Archives - La Storia di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/category/edifici-e-monumenti/ Thu, 11 Jul 2024 16:48:15 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.6.2 «deCostruire un Luogo dell’incontro e della memoria» https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/decostruire-un-luogo-dellincontro-e-della-memoria/ https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/decostruire-un-luogo-dellincontro-e-della-memoria/#respond Sun, 28 Apr 2024 13:26:29 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11630 (presentazione) Decisa e organizzata dall’Amministrazione Comunale, lunedì 22 aprile 2024, in Sala Consiliare, si è tenuta la conferenza celebrativa del Quarantennale del Monumento Nazionale ai Caduti per la Bonifica dei Campi Minati, inaugurato il 15 aprile 1984. Particolarmente apprezzato è stato l’intervento scritto per l’occasione dall’architetto Erminio Ferrucci, progettista del …

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(presentazione) Decisa e organizzata dall’Amministrazione Comunale, lunedì 22 aprile 2024, in Sala Consiliare, si è tenuta la conferenza celebrativa del Quarantennale del Monumento Nazionale ai Caduti per la Bonifica dei Campi Minati, inaugurato il 15 aprile 1984. Particolarmente apprezzato è stato l’intervento scritto per l’occasione dall’architetto Erminio Ferrucci, progettista del Monumento. Per tale ragione di seguito pubblichiamo il testo integrale della sua relazione, appositamente elaborata per questo evento celebrativo. E, inoltre, pubblichiamo una serie di immagini fotografiche (molte delle quali inedite) che, poste a corredo, illustrano alcuni momenti significativi riferiti a questo nostro complesso monumentale (a cura di A.S.).

Castel Bolognese (RA), 22 aprile 2024

CELEBRAZIONI PER IL 40° ANNIVERSARIO DEL MONUMENTO NAZIONALE AI CADUTI B.C.M.
https://it.wikipedia.org/wiki/Monumento_nazionale_ai_caduti_per_la_bonifica_dei_campi_minati

Relatore: Prof. Arch. ERMINIO FERRUCCI
https://ferrucci-marziliano.it/erminio-ferrucci/
https://ferrucci-marziliano.it/

In premessa desidero ringraziare tutti i presenti, i promotori e gli organizzatori di queste celebrazioni che si svolgono per il quarantennale del Monumento ai Caduti B.C.M. che ho iniziato a progettare sul finire degli anni Settanta del secolo scorso. Un ringraziamento e un affettuoso ricordo desidero rivolgere a tutti i Membri del Comitato Promotore e agli amici carissimi: Franco Gaglio (che, in quell’epoca, era sindaco di Castel Bolognese), Bruno Violani (ex sminatore) e Angelo-Anzulè Biancini, con i quali abbiamo condiviso un dibattito culturale che è perdurato addirittura per cinque anni, allo scopo di precisare e perseguire tutti gli obiettivi che il Comitato Promotore del monumento si era prefissato.

Un ulteriore ringraziamento e un affettuoso ricordo devo poi ad Alberto Andreatti e a Giovanni Guardi, presidenti dell’ANGET Associazione Nazionale Genieri e Trasmettitori d’Italia – Sezione di Bologna; e, inoltre, anche alla Presidenza Nazionale ANGET di Roma che, per questa mia opera che è stata definita «una architettura d’avanguardia», ha voluto onorarmi conferendomi la medaglia d’oro-vermeil. E infine, ultimo ma non ultimo, il mio ringraziamento è rivolto al Presidente della Repubblica Sandro Pertini per il monito solenne e le parole ispirate che ha voluto dedicarci nel telegramma inviato in occasione dell’inaugurazione ufficiale del nostro monumento.

Purtroppo molte tra queste persone da me appena citate non sono più tra noi, poiché sono già trascorsi ben 45 anni dall’inizio di quel nostro questionare finalizzato alla costruzione del monumento. 45 anni. In effetti tutto ebbe inizio alla fine degli anni ’70 del secolo scorso: erano anni attraversati dalla contestazione giovanile, in un presente che allora sembrava voler superare e dimenticare le sofferenze patite nel periodo bellico che, in tal modo, perdevano progressivamente interesse in un processo di accantonamento ed estraniamento dalla memoria collettiva.

Soprattutto per tale ragione ad alcune personalità illuminate parve urgente la necessità di procedere senza indugio alla realizzazione di un monumento specificamente inteso a recuperare il ricordo degli sminatori che, non soltanto nel periodo bellico, si erano immolati per la sicurezza della popolazione bonificando i territori minati. Un monumento che, celebrando il sacrificio degli sminatori, potesse essere di ammonimento perenne per far rammentare le loro valorose gesta tramandando il ricordo di quei martiri che, anche a guerra finita, con il loro oscuro sacrificio hanno reso possibile la ricostruzione del nostro Paese.

Fin da subito Franco Gaglio e Angelo Biancini mi coinvolsero (per meglio dire: mi costrinsero) e mi affidarono gli onori e gli oneri della progettazione del monumento, e pertanto con loro e con tutti i Membri del Comitato fin da subito iniziammo a dibattere su quali fossero le finalità da perseguire nel progetto di un complesso celebrativo che avrebbe dovuto caratterizzarsi con l’allegoria della distruzione, della ricostruzione, e quindi del rinnovato fluire della vita ricomposta nei suoi atti di pacata quotidianità.

Già nei nostri primi incontri informali, tenutisi a Firenze nel 1979, in seno al Comitato Promotore vennero stabilite le caratteristiche del monumento che non avrebbe dovuto rappresentarsi con una semplice definizione antropomorfa ma, piuttosto, avrebbe dovuto segnalarsi in virtù di una forte valenza simbolica rappresentata come rimando citazionale al Bunker (ossia a un complesso di costruzioni erette con finalità militari e difensive). Dunque il monumento che la committenza voleva erigere allo scopo di onorare i Caduti per la bonifica dei campi minati avrebbe dovuto essere configurato con esiti evocativi di espressività “modernissima”, ossia aggiornata culturalmente e rivolta alle menti – e ai cuori – delle nuove generazioni.

Promosse informalmente dal Comitato Promotore del monumento (costituito da appartenenti alla Regione Militare Tosco-Emiliana, da ex sminatori, da amministratori di Castel Bolognese e della Comunità Montana dell’Appennino Faentino), le nostre riunioni proseguirono regolarmente per circa due anni, sino alla costituzione ufficiale del Comitato Promotore avvenuta in data 27 giugno 1981. In quella occasione ne venne stabilita anche la sede: a Castel Bolognese, ossia nel luogo ubicato al centro di una vasta area fatta ripetutamente oggetto delle bonifiche di sminatura all’interno della Regione Militare Tosco-Emiliana.

Era nostra opinione che l’evocazione delle devastazioni belliche, e la successiva volontà di rigenerazione, dovesse necessariamente escludere ogni statuaria con sembianze umane. Inoltre si volle porre in evidenza la solidità della materia in maniera rigorosa, a significare la solidità di una Nazione che rinasce, e per questa ragione si scelse di adottare il cemento armato. Tale impostazione brutalista (1) appare evidente nelle diverse revisioni del progetto, ma non già nella prima idea che proponeva un cumulo di blocchi lapidei policromi sui quali svettava l’Albero della Pace come metafora della continuità della vita. Nel mio progetto definitivo (che fu addirittura acclamato da tutti i Membri del Comitato), appare ben evidente la scelta decostruttivista orientata alla riflessione consapevole, che supera anche l’approccio strutturalista opponendosi altresì agli stilemi cari al pensiero post-moderno, predominante nel dibattito culturale architettonico di quegli stessi anni.

Non volevamo un monumento che fosse retorico o enfatico, ma neppure minimalista, banale o vernacolare. E pertanto, discussione dopo discussione, confronto dopo confronto, negli anni abbiamo precisato e revisionato molte ipotesi progettuali, fino a pervenire alla decisione di voler frantumare le consuetudini da secoli vigenti per l’ordinaria progettazione dei Celebrativi. E, infine, senza titubanze, abbiamo deciso il superamento della sterile percezione del “già noto” (e quindi riconoscibile) ed estetizzante, con una intenzionalità espressiva dichiaratamente decostruttivista e brutalista dove non ho (non abbiamo) voluto rappresentare le sembianze umane dell’eroe in azione e/o gli strumenti in uso per far ‘brillare’ le mine.

Dunque l’intera fase ideativa intendeva elaborare una architettura d’avanguardia (così come mi era stato espressamente richiesto da quella assai peculiare e composita committenza), in grado di sovvertire il sistema di valori plastici tradizionali del tutto insufficienti nel dare risposta alla complessità delle istanze poste in essere dai Membri del Comitato Promotore. Per tale ragione, e con tali finalità, il progetto compone un’opera architettonica in cemento armato in rapporto rispettoso e dinamico con il contesto urbano; un’opera non soggiacente ad alcun modello figurativo di riferimento e che utilizza soluzioni formali disposte per evocare in termini oppositivi il male e il bene, il caos e l’ordine, la morte e la vita, la distruzione e la ricostruzione, in una configurazione spaziale densa ma frammentata, mediante quattro massicci volumi dalla geometria inattesa.

Consapevoli che forse l’opera architettonica non sarebbe stata immediatamente comprensibile, abbiamo comunque deciso di adottare un linguaggio articolato che appare spaesante, poiché all’epoca non era mai stato applicato in nessun’altro Celebrativo: infatti l’insieme delle espressioni strutturali, morfologiche e tecnologiche è del tutto originale e, all’epoca, non era comparabile a nessuna altra opera commemorativa. Il complesso monumentale, dalle superfici di cemento grigio (con specifiche casserature in parte levigato, e in parte graffiato), si rappresenta in una configurazione ordinata: i blocchi verticali si accostano a quelli orizzontali, distaccati ma contigui e prospicienti; contrapposti, ma semanticamente collegati dall’Albero della Pace (scultura realizzata dall’Atelier di Angelo Biancini, scultore e ceramista) che è situato come cerniera tra assialità orizzontale e verticale, tra distruzione e ricostruzione, tra morte e vita, poiché i suoi rami sono gremiti di colombe che, come è noto, rappresentano la pace e la riconciliazione.

«Coordinamento perfetto, che rende l’atmosfera serena, e di una architettura d’avanguardia»: con queste parole, che Angelo Biancini vergò a mano sul cartiglio di una mia Tavola di progetto, si concluse l’annosa e difficoltosa stagione ideativa e progettuale. I Membri del Comitato con questa dedica vollero esprimermi la loro più viva soddisfazione, elogiando il progetto che, infine, venne approvato all’unanimità nella Seduta consiliare del 22 febbraio 1984. Immediatamente diedi inizio ai lavori di cantiere per la costruzione del monumento che venne inaugurato in data 15 aprile 1984 alla presenza delle massime autorità civili e militari della Nazione.

Si era dunque conclusa con successo la nostra avventura, intrapresa allo scopo di tenere in vita il ricordo degli sminatori immolatisi per consentire la rinascita della Nazione. E tra i tanti messaggi elogiativi ricevuti in quell’occasione, desidero qui citarne uno in particolare: quello del Presidente della Repubblica Sandro Pertini.

«Caduti Bonifica Campi Minati.
A tutti i fratelli caduti nella bonifica dei campi minati il popolo italiano deve ammirazione e riconoscenza profonda. Il Monumento che in loro onore viene oggi inaugurato a Castel Bolognese varrà a consacrare per sempre, tra le generazioni a venire, la memoria di una epica impresa senza la quale le pagine della nostra ricostruzione e del progresso del nostro Paese non sarebbero mai state scritte. Il Presidente della Repubblica Italiana: [Firmato] Sandro Pertini».

La cronistoria del monumento è stata puntualmente restituita in una pubblicazione di cui è autrice l’architetto Maria Giulia Marziliano (2) https://ferrucci-marziliano.it/maria-giulia-marziliano/ che ha collaborato con me in tutte le diverse fasi, sia progettuali che esecutive. In questo suo libro è riportata anche la Relazione Tecnica di progetto, e pertanto in esso sono indicate le tecniche da adottare per la protezione delle superfici del monumento, e le azioni che all’epoca avevo indicato affinché fosse eseguita l’indispensabile, corretta – e continua – gestione manutentiva dell’opera.

Questa precisazione è doverosa, poiché su tale argomento sono stato ripetutamente interpellato con segnalazioni preoccupate e critiche verso una totale e inspiegabile assenza di manutenzione. Logicamente, nel corso degli anni l’incuria ha provocato un conseguente degrado del complesso celebrativo: un degrado rilevante che era già ben evidente venti anni fa, come si può percepire dalle immagini fotografiche pubblicate anche in https://ferrucci-marziliano.it/gallery/ e scattate in occasione delle celebrazioni promosse per il ventesimo anniversario del monumento.

Come alcuni di voi ricorderanno, nell’aprile 2004 infatti si è svolta la cerimonia celebrativa per il Ventennale con la presenza delle scolaresche cittadine portate al cospetto del complesso architettonico, dove si intonarono canti e si recitarono prose e poesie. In quell’occasione, l’amico Franco Gaglio ricordò agli astanti che il nostro monumento è stato ideato, progettato e costruito (decostruito) per conferire perpetuo ricordo agli sminatori, ossia a coloro «che dichiararono guerra alla guerra». Richiamando alla memoria collettiva il valore eroico di quegli uomini, il monumento intende rievocarne il ricordo affinché questo resti intatto e venga recepito dalle giovani generazioni. Con l’auspicio che le giovani generazioni ne sappiano trarre fonte di ispirazione per «sentimenti di amore, pace, rispetto e dovere verso tutti gli altri uomini».
Grazie per l’attenzione.

(1) Nato come superamento del Movimento Moderno in architettura, il Brutalismo è una tendenza culturale che sostiene uno stile ben riconoscibile: gli oggetti architettonici, privi di ornamenti, sono costruiti utilizzando il cemento lasciato visibile sulle superfici nude, senza aggiungere intonaco né rivestimento alcuno. Il termine deriva dal francese béton brut, ossia cemento grezzo, e intende porre attenzione particolare alla precisione geometrica e alla forza delle forme. L’architettura moderna, e in special modo la corrente architettonica del Brutalismo, ha fatto sempre più riferimento all’espressività del calcestruzzo lasciato “a vista”. Pertanto il concetto di Brutalismo si riconosce nelle scelte morfologiche e tecnologiche adottate, collegate a un particolare uso del cemento e delle sue superfici, mentre i criteri estetici – e il cosiddetto “brutto” e il cosiddetto “bello” – in questo caso sono considerate parole vuote, superate e del tutto prive di senso.

(2) M.G. Marziliano, deCostruire un Luogo dell’incontro e della memoria: il Monumento Nazionale ai Caduti per la Bonifica dei Campi Minati, Maggioli Editore, Rimini, 2007. Con il patrocinio di FSP – Fondazione Sandro Pertini; e con il patrocinio di ANGET – Associazione Nazionale Genieri e Trasmettitori d’Italia.

Documenti tratti dall’Archivio Ferrucci & Marziliano Architetti

1) Cartiglio di una Tavola di progetto dell’architetto Erminio Ferrucci, su cui Angelo Biancini ha vergato di proprio pugno il giudizio finale espresso dal Comitato promotore, all’atto dell’approvazione unanime ed entusiasta che concludeva la lunga (e annosa) fase ideativa del complesso monumentale: «Coordinamento perfetto, che rende l’atmosfera serena, e di una architettura d’avanguardia. A. Biancini 27 aprile 1983»

2) Cartolina postale emessa dal Ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni in occasione dell’inaugurazione del Monumento Nazionale ai Caduti BCM con lo speciale annullo postale che, impresso sulla cartolina, riporta in sintesi estrema le linee del Monumento di Castel Bolognese

3) Dettaglio dello speciale annullo postale emesso dal Ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni che sancisce e dichiara il rango nazionale del Monumento di Castel Bolognese

4) Riproduzione del telegramma inviato dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini in occasione dell’inaugurazione ufficiale del Monumento. Il telegramma è indirizzato a Pietro Billone (ufficiale dell’esercito ed ex-sminatore), Presidente del Comitato promotore per la realizzazione del Monumento Nazionale ai Caduti per la Bonifica dei Campi Minati

CON COMMOSSI SENTIMENTI MI ASSOCIO ALLA NOBILE INIZIATIVA
GRAZIE ALLA QUALE I COMUNI DELLA VALLE DEL SENIO HANNO
INTESO RICORDARE ED ONORARE UNA CATEGORIA CHE COME POCHE
SI È RESA BENEMERITA AL COSPETTO DELLA PATRIA (.)
FU GRAZIE AL GENEROSO CORAGGIO DI POCHE MIGLIAIA DI
VOLONTARI CHE IL TERRITORIO NAZIONALE (,) ALL’INDOMANI
DI UN ASPRO CONFLITTO ARMATO (,) POTE’ ESSERE
DEFINITIVAMENTE AFFRANCATO DALL’INSIDIA DI ORDIGNI
CHE SENZA PIETÀ MIETEVANO VITTIME TRA LA POPOLAZIONE
CIVILE (.) MOLTI CADDERO IN QUESTA SFIDA TEMERARIA (;)
MOLTISSIMI – TRA I SUPERSTITI – TUTTORA RECANO SUL
CORPO I SEGNI DEL MORTALE RISCHIO AFFRONTATO (.)
A QUESTI VALOROSI (,) A TUTTI I FRATELLI CADUTI NELLA
BONIFICA DEI CAMPI MINATI IL POPOLO ITALIANO DEVE
AMMIRAZIONE E RICONOSCENZA PROFONDA (.)
IL MONUMENTO CHE IN LORO ONORE VIENE OGGI INAUGURATO
A CASTELBOLOGNESE VARRÀ A CONSACRARE PER SEMPRE (,)
TRA LE GENERAZIONI A VENIRE (,) LA MEMORIA DI UN’EPICA
IMPRESA SENZA LA QUALE LE PAGINE DELLA RICOSTRUZIONE
E DEL PROGRESSO DEL NOSTRO PAESE NON SAREBBERO MAI
STATE SCRITTE.
SANDRO PERTINI

Le Istituzioni che aderirono al Comitato d’Onore appositamente costituito per la solenne inaugurazione del Monumento Nazionale di Castel Bolognese furono:

Presidente della Repubblica Italiana
Presidente del Consiglio dei Ministri
Presidente del Senato
Presidente della Camera dei Deputati
Ministro della Difesa
Capo di Stato Maggiore della Difesa

5) Monumento Nazionale ai Caduti per la BCM, 1984-2004: Celebrazioni del Ventennale del Monumento, 12 aprile 2004. Si riconoscono: a sinistra Silvano Morini, all’epoca sindaco di Castel Bolognese; al centro Franco Gaglio, Membro del Comitato promotore e sindaco nel 1984; e a destra Erminio Ferrucci, Membro del Comitato promotore e progettista del complesso architettonico (Archivio fotografico Ferrucci & Marziliano Architetti)

6) Medaglia Vermeil (con relativo attestato) conferita da ANGET (Associazione Nazionale Genieri e Trasmettitori d’Italia) all’architetto Erminio Ferrucci

7) Particolare dell’attestato relativo alla Medaglia Vermeil, con le firme dei Generali Alberto Clava e Maurizio Cicolin

8) Lettera di apprezzamento inviata dal Generale Vittorio Bernard all’architetto Erminio Ferrucci (16 maggio 2008)

«Egregio Architetto,

quale Generale della riserva dell’Arma del Genio e quale Presidente del “Gruppo di Sminamento Umanitario Italiano” ONG composto prevalentemente da quadri dell’Esercito Italiano, che hanno operato, prima da militari in servizio e poi da civili, in tale particolare rischiosa attività, a beneficio di popolazioni vittime della guerra in diversi paesi, Le esprimo il mio più vivo compiacimento per la iniziativa di commemorare i caduti nella bonifica dei campi minati in Italia e di redigere il bel testo grafico di cui mi ha fatto dono l’amico Alberto Andreatti [NOTA: Presidente Onorario della Sezione Anget di Bologna].

Noi ci sentiamo oggi gli eredi morali di quegli sminatori, che hanno ben meritato per ridare sicurezza alla gente e fornire un contributo alla ricostruzione dell’Italia dopo la 2a Guerra Mondiale.

Mi è piaciuta la presentazione del monumento ed il monumento stesso che, nella sua straordinaria originalità, ha ben rappresentato, a mio avviso, l’opera di grande rilevanza degli sminatori ed il sacrificio dei caduti per eliminare gli effetti assassini della guerra.

Vogliamo auspicare che la divulgazione del libro ed il ripetersi delle cerimonie al monumento dei valorosi caduti serva a stimolare anche nelle nuove generazioni sentimenti di solidarietà patriottica e di pace. – Chianciano, 16/05/08 – Vittorio Bernard».

NOTA:
Laureato in Ingegneria Civile presso l’Università di Padova, Vittorio Bernard (1928-2020) comandò la Compagnia Genio pionieri “Julia”, il Battaglione Genio pionieri “Legnano”, la Scuola del Genio di Roma-Cecchignola, il Comando Genio del V Comiliter a Padova e la Brigata meccanizzata “Pinerolo” a Bari. Prestò servizio all’Ufficio Ordinamento dello Stato Maggiore dell’Esercito, fu Addetto Militare presso l’Ambasciata d’Italia in Unione Sovietica dal 1973 al 1976 (e soltanto grazie al Suo interessamento si iniziò il censimento dei sepolcreti militari italiani in URSS); e diresse, quale Vice-Commissario di Governo e Capo Centro Operativo Provinciale di Potenza, i soccorsi a seguito del terremoto del 1980. Divenuto Generale di Corpo d’Armata, ricoprì l’incarico di Sottocapo di Stato Maggiore al Supporto Logistico di SHAPE – Supreme Headquarters Allied Powers Europe – a Mons (in Belgio) per poi concludere la Sua prestigiosa carriera quale Rappresentante Militare Italiano presso il Comitato Militare della NATO – North Atlantic Treaty Organization – a Bruxelles. https://www.quirinale.it/onorificenze/insigniti/314219

9) Lettera di apprezzamento inviata dal Presidente della Sezione Anget di Bologna Giovanni Guardi all’architetto Erminio Ferrucci (6 agosto 2008)

10) Lettera di apprezzamento inviata dal Generale Mauro Piretti ad Alberto Andreatti, Presidente onorario della Sezione Anget di Bologna (14 giugno 2008)

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Riemerge l’antica porta del campanile di San Petronio https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/chiese/chiesa-di-san-petronio/riemerge-lantica-porta-del-campanile-di-san-petronio/ https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/chiese/chiesa-di-san-petronio/riemerge-lantica-porta-del-campanile-di-san-petronio/#respond Thu, 21 Sep 2023 20:11:33 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=11025 di Paolo Grandi La recente alluvione del maggio 2023 ha danneggiato anche il pavimento del campanile di San Petronio, facendolo infossare per alcuni centimetri, oltre a danneggiare l’intonaco delle pareti e la scala per la salita sia all’organo che alla cella campanaria. Per l’occasione don Marco Bassi ha pensato ad …

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di Paolo Grandi

La recente alluvione del maggio 2023 ha danneggiato anche il pavimento del campanile di San Petronio, facendolo infossare per alcuni centimetri, oltre a danneggiare l’intonaco delle pareti e la scala per la salita sia all’organo che alla cella campanaria. Per l’occasione don Marco Bassi ha pensato ad un completo restauro di quell’ambiente con relativa ridipintura che, pertanto, è stato liberato dalle suppellettili presenti ed in particolare da un grosso armadio posto di fronte al vecchio ingresso del campanile rendendolo nuovamente visibile.
Stando alle descrizioni presenti nel libro di padre Gaddoni e rapportandoci con la pianta ipotetica della precedente chiesa riportata in altra parte del presente sito nel capitolo “San Petronio – storia dell’edificio”, questa porta metteva in comunicazione l’angusta sacrestia della precedente chiesa con il campanile. Negli stipiti sono presenti due piccole nicchie che, comunque, sembra siano state modificate nel tempo: infatti quella di destra accenna ad una piccola volta superiore che in quella di sinistra pare cancellata.
Difficile ricostruire a cosa potessero servire. Due sono le ipotesi: se quel passaggio era l’unico accesso alla cella campanaria, allora forse esse servivano a nascondere le maniglie delle porte per rendere più largo il varco (peraltro abbastanza angusto); se era presente un’altra porta che offriva accesso al cortile (che potrebbe essere la medesima ancora presente oggi, seppur modificata in altezza) allora quelle nicchie potevano essere utilizzate entrambe come acquasantiere (ancora oggi è presente una nicchia con acquasantiera nello stipite della porta che collega la Sacrestia al Presbiterio) ovvero una come acquasantiera e la seconda per accogliere la maniglia della porta.
Naturalmente l’altezza del passaggio non è quella originale, poiché nel tempo, specie con la ricostruzione della chiesa avvenuta dopo il 1781 secondo il progetto del Morelli, il pavimento del campanile è stato alzato di alcune decine di centimetri per portarlo a livello di quello della Sacrestia e del Presbiterio. Infatti questa parte del campanile, fino all’incirca al piano ov’è l’accesso all’organo appartiene ancora alla costruzione quattrocentesca della precedente chiesa perché si volle preservare il campanile nella ricostruzione del nuovo tempio morelliano. La parte superiore del campanile, invece, risale al dopoguerra essendo stato bersaglio dell’artiglieria anglo-americana che lo fece crollare nella vigilia di Natale del 1944. Uno degli autori della distruzione fu Henryk Strzelecki (1925 – 2012), conosciuto anche come Henri Strzelecki, un soldato polacco facente parte dell’esercito britannico che nel dopoguerra fondò a Manchester assieme ad Angus Lloyd la famosa casa di moda Henri-Lloyd. Tra il 2000 ed il 2012 Strzelecki è venuto due volte a Castel Bolognese elargendo all’allora Arciprete mons. Dall’Osso una somma di denaro in “riparazione” dei danni al campanile.

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L’Oratorio di S. Antonio da Padova (Oratorio Galeati) nella parrocchia di Borello di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/chiese/loratorio-di-s-antonio-da-padova-oratorio-galeati-nella-parrocchia-di-borello-di-castel-bolognese/ Fri, 07 Jul 2023 20:22:50 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=10836 a cura di Maura Galdini Villa La storia di questo Sacro edificio è riportata nel primo volume delle Chiese della diocesi di Imola, frutto delle ricerche di Padre Serafino Gaddoni e dei suoi collaboratori, dato alle stampe nel 1927 “A breve distanza dalla chiesa del Borello, verso ovest, sul podere …

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a cura di Maura Galdini Villa

La storia di questo Sacro edificio è riportata nel primo volume delle Chiese della diocesi di Imola, frutto delle ricerche di Padre Serafino Gaddoni e dei suoi collaboratori, dato alle stampe nel 1927

“A breve distanza dalla chiesa del Borello, verso ovest, sul podere Casino Galeati e lungo la strada che va a Zello ed a Imola, si trova un piccolo oratorio (m. 6×4,50), a volta, di forma slanciata, con facciata a levante, dedicato a S. Antonio da Padova.
La sua erezione risale al 1692.
Due antiche e distinte famiglie della villa del Borello, i Galeati ed i Baldini, unite fra loro con vincoli di stretta parentela e molto devote di S. Antonio da Padova, sono quelle che lasciarono beni perchè venisse costruito sui propri possedimenti.
Domenico Galeati ed i fratelli Antonio e Giovanni Baldini fanno tutti e tre testamento il 26 agosto 1675 lasciando eredi Sebastiano e Francesco Galeati, con l’obbligo “di edificare ed erigere una chiesa sotto il titolo di S. Antonio da Padova nel comune del Borello sul podere delli detti meser Antonio e Giovanni in fondo il Passo della Volpe, sopra il crociato delle vie pubbliche, di lunghezza piedi 10 (m. 4,39), coll’esporre l’effigie di S. Antonio da Padova”.
Eleggono nella nuova chiesa la loro sepoltura, se pur sarà già costruita, altrimenti in quella del Borello, e dispongono di vari legati da soddisfarsi nel nuovo oratorio.
Don Domenico Maria Minarelli, parroco di Zello, amico dalla famiglia Galeati, con facoltà dell’ordinario, nonostante le proteste del rettore Bernardi del Borello, benedice la nuova chiesuola il 18 febbraio 1692.
Era denominato l’oratorio dei Baldini, e nel 1697 si celebravano in esso quattro messe la settimana e con solennità si festeggiava S. Antonio da Padova (inv. 1697). Francesco Galeati, uno degli eredi che ne curò l’erezione, trovandosi in punto di morte, il 26 marzo 1713 ottiene dal card. Gozzadini, vescovo d’Imola, d’essere sepolto nel proprio oratorio.
Don Pio Galeati fa collocare sopra il medesimo una piccola campana, fusa da Serafino Golfieri, e benedetta l’8 novembre 1833 dal vescovo Mastai Ferretti, la quale oggi si conserva sul vicino casino padronale.
Lo stesso Mastai visita il 19 giugno 1834 l’oratorio, dove trova il tumulo gentilizio della famiglia Galeati (V, P). Nel 1844 vi celebrò la prima messa don Sebastiano Galeati, che divenne poi arcivescovo di Ravenna e Cardinale.
L’ing. Giacomo (m. 1898), fratello del cardinale (m. 1901), è l’ultimo ivi sepolto.
Dopo la morte dell’uno e dell’altro l’oratorio passò in proprietà ai fratelli dott. Angelo, dott. Domenico e Bianca, figli di Giacomo i quali nel 1901 ne fecero vendita al loro cugino cav. avv. Giuseppe Tassoni in Bologna, figlio d’una zia paterna”.

A completamento delle notizie storiche possiamo aggiungere i ricordi di un parrocchiano, Carlo Galdini Villa: fino agli anni ’40 del secolo scorso erano in uso, il 13 giugno, la processione e la celebrazione in onore del Santo a cura dei giovani della parrocchia. La seconda guerra mondiale cambiò tutto: i giovani furono costretti a partire come soldati.
L’evento bellico provocò lutti in molte famiglie, il momento più drammatico fu negli ultimi mesi del 1944 fino alla liberazione del 12 aprile 1945: in molte case erano presenti i tedeschi e si era sotto continui bombardamenti da parte degli Alleati attestati lungo la Linea Gotica. In questo periodo la zona sepolcrale sita nell’oratorio venne usata come nascondiglio per il grano affinché i soldati tedeschi in ritirata non lo requisissero. I bombardamenti non lasciarono indenne l’oratorio: il tetto fu gravemente danneggato e, finita la guerra, l’ingegnere Francesco Tassoni ne curò il restauro, ma l’edificio non venne più utilizzato.
Nel 2018, su interessamento del parroco don Marco Bassi e della Comunità del Borello e grazie alla disponibilità dei proprietari si è ripreso nuovamente a celebrare la Santa Messa annuale in onore di S.
Antonio; ciò ha destato molto interesse nei parrocchiani più adulti che ricordavano le celebrazioni che vi si svolgevano. In questi ultimi anni i proprietari hanno fatto eseguire un accurato restauro per preservare questa piccola chiesa.

Aggiornamento luglio 2024. Per onorare Sant’Antonio da Padova, rinnovare la devozione che la comunità di San Cristoforo di Borello gli ha dimostrato negli anni come protettore dei giovani della Parrocchia e grazie all’ospitalità dei proprietari, sabato 13 luglio 2024 alle ore 19,00 sarà celebrata la Santa Messa nell’Oratorio Galeati.
Nota storica: 170 anni fa, il 21 settembre 1844 Sebastiano Galeati (Imola, 8 febbraio 1822–Ravenna, 25 gennaio 1901) fu consacrato Sacerdote dal Vescovo di Imola Giovanni Maria Mastai Ferretti (futuro Papa Pio IX) e celebrò la sua prima Santa Messa proprio in questo Oratorio; proseguì gli studi ecclesiali a Roma, ricoprì importanti incarichi in questa Diocesi, venne nominato da Papa Leone XIII Vescovo della Diocesi di Macerata e Tolentino il 4 agosto 1881, fu poi promosso alla sede metropolitana di Ravenna il 23 maggio 1887 e creato Cardinale il 23 giugno 1890.

Fotografie scattate da Francesco Minarini in occasione della Messa celebrata il 16 luglio 2022

Fotografie scattate da Maura Galdini Villa in occasione della Messa celebrata il 15 luglio 2023

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Origine degli antichi molini di Castel Bolognese https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/molino-scodellino/origine-degli-antichi-molini-di-castel-bolognese/ https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/molino-scodellino/origine-degli-antichi-molini-di-castel-bolognese/#respond Fri, 10 Feb 2023 21:23:28 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=10329 Ancora oggi, purtroppo, c’è chi segue pedissequamente Gaetano Giordani (Cronichetta di Castelbolognese, 1837) e Giovanni Bagnaresi (Canale dei Molini di Castelbolognese, 1927) i quali hanno mal interpretato vari documenti del passato, travisando la vera storia degli opifici idraulici in oggetto, la quale è stata invece delineata correttamente dal sottoscritto (1) …

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Ancora oggi, purtroppo, c’è chi segue pedissequamente Gaetano Giordani (Cronichetta di Castelbolognese, 1837) e Giovanni Bagnaresi (Canale dei Molini di Castelbolognese, 1927) i quali hanno mal interpretato vari documenti del passato, travisando la vera storia degli opifici idraulici in oggetto, la quale è stata invece delineata correttamente dal sottoscritto (1) e da Gian Luigi Gambi (2), a partire dal 1987.

Alla base delle errate interpretazioni vi è innanzitutto l’aver ignorato che nel Medioevo il vocabolo latino molendina, pur essendo plurale, normalmente indica un solo opificio, con riferimento alle due mole o macine costituenti una posta; anche da ciò si evince che il Molino Scodellino, oggi “ritornato in vita”, non è assolutamente databile al XIV secolo ed anzi la sua nascita è da assegnare agli ultimi anni del XV, se non addirittura ai primi del Cinquecento.

Si riportano di seguito le fonti più significative, comprensive di alcune rintracciate di recente.

-Un concordato del 16 agosto 1396, normalmente mal interpretato, considera per Castel Bolognese un solo molino, da poco approntato (che verrà in seguito denominato della Porta del castello) ubicato sulla via Emilia verso Faenza, ed un secondo che doveva erigersi a Solarolo, entrambi a cura del Governo bolognese (3).

-La documentazione nota, in particolare relativa agli anni 1412 (4) e 1442 (5), ma anche al 1454 e 1455 (6), considera per Castel Bolognese un solo molino, come sopra.

-Si tralascia un rogito datato 1437 del notaio Menghino Ramberti perché non rintracciato in originale e noto tramite un regesto non attendibile.

-Il Molino Gualchiera viene allestito nel 1469 o poco prima, essendo in tale anno (7) denominato Nuovo, in contrapposizione al Vecchio, cioè quello della Porta; in seguito verrà appellato anche di mezzo (perché fra il Porta e lo Scodellino), oppure della Croce.

-Nel 1477 è confermata l’esistenza di due molini, uno goduto dai Pepoli e Malvezzi di Bologna (il Porta) e l’altro dalla Comunità (il Gualchiera) (8).

-Nel 1491-92 viene eretto il Molino dei confini (o dei prati) sul confine di Solarolo, ma in detti anni non v’è ancora traccia di quello oggi conosciuto come Scodellino, che sicuramente è presente in data 18 maggio 1506, quando la Comunità affitta i quattro molini del territorio castellano (9), che però in questa occasione non vengono indicati col rispettivo nome, contrariamente al 1514 allorché si nota che lo Scodellino è detto Contessa, con riferimento al relativo fondo rurale (10).

NOTE

(1) L. Donati, Canali e Molini, “Solarolo Oggi” gennaio 1987.
(2) Per G. L. Gambi si rimanda in particolare alla tesi di laurea e all’opuscolo del 2018 intitolato “Il mulino Scodellino sul canale di Castelbolognese, Lugo e Fusignano”.
(3) Archivio di Stato di Bologna, Comune-Governo, Provvigioni in capreto p.41 v.
(4) Notarile d’Imola, Pietro Calegari vol.IlI p.8.
(5) Archivio dell’Assunteria del Canale dei molini di Fusignano (in Arch. storico comunale Castel Bolognese), copia di rogito datato 16 aprile 1442.
(6) Notarile d’Imola, come sopra, pp.57 e 59.
(7) Archivio storico comunale di Castel Bolognese, Campioni, n° 1, primo febbraio 1469.
(8) Archivio di Stato di Bologna, Comune-Governo, Diritti ed oneri del Comune, n° 6, Diversorum I.
(9) Notarile di Castel Bolognese vol. 2 p. 138: si rammenta che il molino Porta era nella “villa” di Biancanigo, gli altri tre in quella di Casalecchio.
(10) Notarile di Castel Bolognese vol. 5, 24 gennaio 1514.

Lucio Donati – 2023

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Francesco Fontana non fu l’architetto di San Francesco? Un’affermazione che attende ulteriori studi https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/chiese/chiesa-di-san-francesco/francesco-fontana-non-fu-larchitetto-di-san-francesco-unaffermazione-che-attende-ulteriori-studi/ https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/chiese/chiesa-di-san-francesco/francesco-fontana-non-fu-larchitetto-di-san-francesco-unaffermazione-che-attende-ulteriori-studi/#respond Tue, 27 Dec 2022 22:39:39 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=10192 di Paolo Grandi La recente pubblicazione, a firma di Andrea Ferri e di Mario Giberti “La chiesa di San Francesco e i minori conventuali a Castel Bolognese – Il rapporto con Santa Maria dei Suffragi di Ravenna” rappresenta senza dubbio una preziosa fonte di notizie inedite su quella chiesa e …

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di Paolo Grandi

La recente pubblicazione, a firma di Andrea Ferri e di Mario Giberti “La chiesa di San Francesco e i minori conventuali a Castel Bolognese – Il rapporto con Santa Maria dei Suffragi di Ravenna” rappresenta senza dubbio una preziosa fonte di notizie inedite su quella chiesa e sui Minori Conventuali che furono presenti a Castel Bolognese per oltre trecento anni ed in particolare tali sono le notizie sul primo tempio dedicato a Santa Lucia e la pubblicazione del cabreo relativo ai possedimenti nel 1760.
Lascia invece molti dubbi la contestazione dell’attribuzione architettonica della nuova ed attuale chiesa di San Francesco all’architetto Francesco Fontana, così non condividendo e anzi criticando lo studio del dott. Antonio Corbara fatto sui manoscritti dell’architetto romano ritrovati nell’Archivio Parrocchiale di San Petronio, attribuendo la paternità dell’opera ad un misconosciuto Cesare Fabri di Lugo. Ma chi è questo Cesare Fabri da Lugo? Gli autori non lo chiariscono e neppure tracciano di lui una biografia dalla quale possa trarsi la fonte di una così felice intuizione quale quella di adottare la pianta ottagonale, fino ad allora mai adoperata in Romagna: San Francesco di Castel Bolognese è infatti la prima chiesa in Romagna costruita a pianta centrale.
Cesare Fabri da Lugo lo si conosce solo come ebanista quale realizzatore dell’armadio dell’Altare della Reliquie in base alle ricerche fatte all’epoca da Pietro Costa. E tale lo definiscono anche gli autori. E in qualsiasi enciclopedia di Cesare Fabri si parla solo ed esclusivamente come ebanista. Quindi chi era questo Cesare Fabri, peraltro pure lui, stante le affermazioni dell’Autore, lughese? Si tratta del medesimo Cesare Fabri? Oppure in Lugo vi erano due omonimi? Quali altre opere architettoniche così originali come la chiesa di San Francesco ha realizzato questo Cesare Fabri?. Su queste legittime domande gli Autori tacciono.
Ora è da chiedersi quale fonte abbiano utilizzato gli Autori per giungere a tale conclusione. Questa la si trova in un memoriale del padre Ricci relativo alla sua opera di guardiano del Convento di Castel Bolognese tra il 1702 ed il 1704 depositato durante il processo che lo vide imputato di danneggiamento nei confronti del conte Giovanni Ginnasi. In realtà il Ricci qui fa riferimento ad un “disegno fatto fare dal perito ingegno del signor Cesare Fabri di Lugo”. Ebbene, premesso che si parla di disegno e non di progetto, ergo sarebbe potuto anche essere stato una sorta di “progetto esecutivo” sopra però il disegno inviato dal Fontana a Castel Bolognese il quale, è giusto ricordare, lasciò solo tre disegni ai frati per come costruire la nuova chiesa secondo i loro desideri.
L’architetto Francesco Fontana, figlio del più celebre Carlo ricostruisce negli stessi anni del nostro San Francesco la chiesa dei Santi Apostoli a Roma (chiesa generalizia dei francescani minori conventuali) e curiosa è la circostanza che sia la chiesa dei Santi Apostoli che quella di San Francesco siano da innalzare in uno spazio predeterminato già occupato da una precedente chiesa e secondo esigenze dettate dai frati ed inoltre che la pianta della basilica romana, ad una sola navata con profonde cappelle laterali comunicanti, corrisponda ad una delle soluzioni suggerite ai frati castellani per la loro nuova chiesa.
Gli autori invece, partendo appunto dalla labile traccia del Ricci non solo smentiscono il Corbara (il quale, non si dimentichi, basa la sua ipotesi su un atto scritto) ma acriticamente attribuiscono la paternità di San Francesco al Fabri, smentiscono la precedenti ipotesi di attribuzione al Fontana della chiesa di Santa Maria dei Suffragi di Ravenna arrivando addirittura a negare qualsiasi presenza del Fontana in Romagna, dimenticando tra l’altro un’altra opera importante del Fontana a Ravenna: Palazzo Spreti.
Così argomentando, gli autori non considerano un evento importantissimo avvenuto in Romagna nella seconda metà del XVII secolo: la fondazione della nuova Cervia. Infatti con un Chirografo del 1697 il papa Innocenzo XII prese la decisione di fondare la nuova città di Cervia affidandone l’incarico al card. Lorenzo Corsini, fiorentino d’origine ma romano di cultura (poi papa col nome di Clemente XII) il quale richiamò in Romagna il fiore degli architetti romani per la costruzione della nuova città. Afferma il Foschi: “nei documenti sono citati numerosi architetti che si susseguono alla direzione dei lavori, (di edificazione della città di Cervia ndr), da Girolamo Caccia a Francesco Fontana, da Sebastiano Cipriani ad Abramo Paris, da Antonio Farini a Cosimo Morelli, da Francesco Navone a Bellardino Petri”. (1) Naturalmente anche in questo cantiere, come in tutti i cantieri, v’era chi dirigeva il lavoro delle maestranze e costui non era quasi mai l’architetto o ideatore dell’opera specie se costui era forestiero. Il Foschi cita i nomi dei primi capi mastri muratori e dei primi capi muratori, tutti del posto.
Anzi si attribuisce la probabile paternità della pianta della nuova città da edificare, che è la Cervia che oggi ammiriamo, proprio a Francesco Fontana e sempre il Fontana è l’architetto del Palazzo Priorale (comunale) (2) il quale, afferma il Foschi “deve essere venuto in Romagna proprio per il nostro Palazzo Priorale (comunale)(3).
Uno sguardo infine merita la Cattedrale. Non si conosce il progettista ma la si fa risalire ad “architettura di gusto romano(4). Entrando ed osservandone bene la struttura questa ricorda molto una delle ipotesi avanzate da Francesco Fontana per il nuovo San Francesco, con pianta basilicale, cappelle profonde con passaggio “per il comodo dei celebranti”, stretto e profondo presbiterio, cioè la medesima pianta dei Santi Apostoli.
Per giustificare i loro asserti, gli Autori scrivono che “di entrambi (Carlo e Francesco Fontana) si conoscono altri interventi, ma non chiese e viene da pensare che se uno dei due se fosse stato presente in Santa Maria dei Suffragi da qualche parte ed in qualche documento in qualche pagamento sarebbe risultato.”. Al di là dei pagamenti, si annoverano nell’elenco delle opere dei due Fontana: di Carlo, la chiesa di Santa Rita da Cascia in Campitelli e la chiesa di Santa Maria dei Miracoli in Piazza del Popolo a Roma oltre a Cappelle e facciate di altre chiese romane; di Francesco, oltre alla chiesa dei Santi Apostoli, si ricorda la chiesa di Santa Scolastica a Rieti e la chiesa di Santa Maria della Neve al Colosseo in Roma, oltre ad altri progetti alcuni dei quali, come quello per l’Abbazia di Fulda in Germania, non realizzato.
Infine uno sguardo agli ornati delle chiese: l’ordine composito della chiesa dei Santi Apostoli è assai simile a quella di San Francesco di Castel Bolognese (ed anche alla Cattedrale di Cervia); e l’ornato è un po’ la “firma” dell’architetto.
Ciò premesso, per far sì che si aprisse almeno un dibattito tra lo scrivente e gli Autori, al fine anche di maggiormente approfondire le ricerche storiche sull’argomento ho inviato agli Autori il 29 agosto 2022 la presente lettera contestando punto su punto le affermazioni errate ovvero non dimostrate.
L’offesa maggiore, più per la storia di Castel Bolognese piuttosto che per lo scrivente, è che nessun riscontro sia, al momento, pervenuto.

(1) FOSCHI U.: La costruzione di Cervia Nuova (1697-1750), Ravenna, 1997.
(2) FOSCHI U.: ibidem.
(3) FOSCHI U.: ibidem.
(4) FOSCHI U.: ibidem.




Castel Bolognese, 29 agosto 2022

Preg.mo Dott.
ANDREA FERRI
Presso Edizioni
Il Nuovo Diario – Messaggero
Via Emilia, 77
IMOLA

Preg.mo Arch.
MARIO GIBERTI
Presso Edizioni
Il Nuovo Diario – Messaggero
Via Emilia, 77
IMOLA

OGGETTO: Volume: “La chiesa di San Francesco e i minori conventuali a Castel Bolognese”. Imprecisioni storiche, errori valutativi e travisamento di citazioni da altri testi. Richiesta di incontro.

Ho letto con attenzione la pubblicazione indicata in oggetto trovandola molto interessante per il contributo dato alla storia della presenza del frati Minori Conventuali a Castel Bolognese e a quella della loro bella chiesa che resta, pur dopo le sciagurate ricostruzioni ed omissioni del dopoguerra, l’edificio di culto ai quali i Castellani sono più affezionati, per via della presenza della Patrona, l’Immacolata Concezione. Tuttavia vi ho trovato errori, anche grossolani, errori valutativi ed addirittura travisamento di un mio scritto per svalutarne la validità per i quali chiedo spiegazione ed un incontro affinché si possano chiarire queste vicende.
Quale collaboratore, fin dalla nascita, della pagina di Castel Bolognese del settimanale “Nuovo Diario”, archivista di una della maggiori Parrocchie della Diocesi ed infine quale autore di volumi ed opere anche pubblicate da codesta Casa Editrice non mi sarei mai aspettato un attacco simile, in un caso offensivo e diretto al mio lavoro.

Pag. 11: nell’elenco dei vescovi della Regione provenienti dalle file del Minori Conventuali mancano i vescovi Girolamo e Gian Paolo Pallantieri, castellani, il primo vescovo a Bitonto e morto in odore di santità, il secondo vescovo di Lacedonia. Entrambi sono ricordati con i relativi monumenti nella Cappella dell’Immacolata Concezione proprio nella chiesa di San Francesco e per entrambi vi sono pubblicazioni che li ricordano.
Pag. 18: mentre si illustrano i rapporti, non sempre idilliaci tra il clero secolare ed i frati di San Francesco relativamente all’ordine del clero nelle processioni dell’Immacolata, si parla di statua lignea dell’Immacolata Concezione risalente al XV secolo. In realtà è risaputo, ampiamente illustrato in varie pubblicazioni, ricordata anche nelle cronache del settimanale “Il Nuovo Diario” per le vicende relative alla caduta di quell’Immagine dal proprio altare negli anni ’80 del secolo scorso, che si tratta di una terracotta policroma del XV secolo attribuita alla scuola di Iacopo Della Quercia.
Pag. 26: qui si parla di Cesare Fabri, realizzatore dell’altare delle Reliquie indicandolo quale ebanista, descrivendone poi le attività in nota 58. Qui sorge una prima contradictio in terminis: è lo stesso Cesare Fabri che nella seconda parte del volume lo si indica quale presunto realizzatore della chiesa?
Pag. 38: il convento francescano soppresso sarebbe stato trasformato in ospedale civico. Ciò non risulta: infatti, leggendo don Italo Drei (1) si ricava che i religiosi rimasti a Castel Bolognese avrebbero dovuto prestare servizio nell’erigendo nuovo Ospedale (quello dell’Antolini tuttora esistente) e che forse il convento fu utilizzato solo provvisoriamente quale Ospedale durante la battaglia del Senio del 2 febbraio 1799. Esiste effettivamente il progetto di Giovanni Antonio Antolini per trasformare il convento in ospedale, ma non si attuò preferendosi costruire ex novo in sede più idonea e salubre il nosocomio.
Pag. 47: scrive l’Autore “e senza aggiunger niente a questo scritto del grande frate francescano (2), conviene riportare direttamente le parti salienti della sua documentata ricerca e non usarla come ha fatto qualcuno per scrivere la storia castellana che ne ha, in vari scritti, riportato dei capitoli interi come propri senza riportarne, come d’obbligo, le citazioni: a Cesare quel che è di Cesare!” Questo attacco assolutamente diretto e poco corretto alla mia persona non rende giustizia alla mia lunga attività di ricercatore storico e autore di pubblicazioni scientifiche ove di ogni passo o notizia ne viene certificata la fonte. Non così appare questa parte di pubblicazione curata dal Giberti, spesso proprio carente della citazione di fonti o della dimostrazione di affermazioni che ne contraddicono altre anche sostenute da adeguata fonte. Il dubbio è che il Giberti si sia limitato a leggere solo ciò che appare in internet anche solo sul sito www.castelbolognese.org. Questo sito è un ausilio alla diffusione della storia di Castel Bolognese e, salvo non vi sia scritto che trattasi di articolo originale, riporta scritti diretti ad un pubblico più generalista e comunque anche qui tali scritti sono sempre sorretti da adeguata bibliografia o rimando ai testi dai quali sono stati tratti.
Pag. 52: padre Ricci viene definito “cappuccino” in realtà era Minore Conventuale.
Pag. 52: Sui diplomi rilasciati al Ginnasi dal Re Sole non è da sottovalutare la presenza a Corte del castellano Domenico Amonio, medico personale del Re, che si prodigò per i concittadini bolognesi e castellani (3).
Pag. 52: Caterina Ginnasi viene definita “celibe”; semmai era “nubile” (celibe, riferito ad una femmina è senz’altro obsoleto) come moderna definizione. Se invece ci si voleva riferire al fatto che la stessa, colpita dalla propensione mistica, vivesse ritirata e solitaria, vestita da monaca, nel Monastero delle “Ginnasie”, occorreva forse chiarirlo. (qualche fonte non confermata riferisce che ella prese anche i voti nelle “Ginnasie”)
Pag. 55: nota 103: la chiesa di San Sebastiano non fu mai destinata a refugium viatorum o a piccolo ospedale. Semmai era prevista la realizzazione di un lazzaretto che non fu mai costruito.(4) Addirittura, per evitare qualsiasi equivoco relativo alla immunità, poiché la chiesa era per gran parte dell’anno chiusa al culto, è scolpita sulla facciata la lapide: “il solo interno di questa chiesa gode dell’immunità”.
Pag. 59: relativamente alla possibilità di assistere dal proprio Palazzo alla Santa Messa, senza scomodare esempi imolesi, un’analoga possibilità a Castel Bolognese era stata data al marchese Zacchia-Rondinini di affacciarsi sulla chiesa di Santa Maria dell’Ospedale (finestra tuttora esistente), ed analogamente era stato concesso al conte Mazzolani per affacciarsi dal suo palazzo nella chiesa del Rosario Nuovo (oggi chiesa e palazzo sono scomparsi: la prima è stata trasformata ad uso profano, il secondo è perito durante la seconda guerra mondiale) Ne parla il Gaddoni (5).
Pag. 60: si parla di permuta di un negozio data in uso al Ginnasi. In realtà, guardando la pianta del Palazzo Ginnasi contenuta nel volume “In presentia mei notarii: Piante e disegni nei protocolli dei Notai Capitolini (1605-1875)” edito nel 2009, ove sono stati pubblicati due importanti e finora inediti disegni relativi a Palazzo Ginnasi, risalenti al 1652, appaiono tre negozi che sembrano appartenere ai Ginnasi. I locali sovrastanti tali tre negozi erano tuttavia di proprietà dei frati Minori. Per maggiore informazione all’Autore queste piante, benché contenute in atti notarili rogati in Roma, portano le misure in piedi di Castel Bolognese. Esse sono da qualche tempo pubblicate sul sito www.castelbolognese.org alla voce: Palazzo Ginnasi.
Pag. 62: scrive l’Autore: “il perito ingegno del sig. Cesare Fabri di Lugo per uniformarsi alle Sacre Costituzioni” e da qui l’autore ricava e fonda tutta l’architettura della sua ricerca sulla attribuzione a Cesare Fabri del disegno della chiesa di San Francesco. L’Autore non ci dà ulteriori notizie, neppure nel seguito dell’opera, su questo Cesare Fabri, né ci descrive la sua attività di architetto, né ce ne offre una biografia. La contradictio in terminis sta che poche pagine prima Cesare Fabri è definito “ebanista” (pag. 26) e realizzatore dell’altare delle reliquie, descrivendone le attività in nota 58. In una breve ricerca non ho rinvenuto alcuna notizia su un Cesare Fabri architetto ma solo sull’ebanista autore dell’altare delle Reliquie.
Quindi chi era questo Cesare Fabri, peraltro pure lui, stante le affermazioni dell’Autore, lughese? Si tratta del medesimo Cesare Fabri? Oppure in Lugo vi erano due omonimi? Quali altre opere architettoniche così originali come la chiesa di San Francesco ha realizzato questo Cesare Fabri?. Su queste legittime domande l’Autore tace.
Sembra quindi alquanto azzardato basare una teoria simile su un solo labile riferimento trovato in un atto difensivo del P. Ricci e privo di ulteriori supporti, mentre dall’altro lato abbiamo una lettera scritta dall’architetto Fontana ed elementi inconfutabili sulla novità di questa costruzione (con la “gemella” Santa Maria dei Suffragi di Ravenna) e sulla presenza di architetti romani in Romagna alla fine del XVII secolo.
Occorre osservare come la chiesa del Suffragio di Ravenna e San Francesco di Castel Bolognese siano cronologicamente le prime chiese a pianta centrale realizzate in Romagna dopo quelle paleocristiane. Mentre fino a tutta la Toscana si era iniziata la costruzione di chiese a siffatta pianta già da almeno due secoli a firma dei più grandi architetti dell’epoca, qualcuno da fuori (e non un misconosciuto “architetto”) deve aver portato in Romagna questo nuovo stile di costruzione che non può essere nato come Minerva dalla testa di Giove!
Non si trascurino poi alcuni effetti scenografici della chiesa tipici del tardo barocco romano: l’ingresso dalla via Emilia coperto dalla cantoria che rilascia ad un tratto la maestosità della chiesa con la grande cupola; la presenza di una lanterna (mai realizzata) per ulteriormente illuminare l’aula; la fattura dell’altare maggiore che sembra angusto nel suo primo apparire ma che nasconde dietro l’altare marmoreo l’allargarsi del coro per accogliere appunto gli stalli dei frati per le preghiere comunitarie.
Pag. 65: relativamente alla pianta della chiesa ritrovata a Rimini: perché scartare a priori l’ipotesi che il disegno non sia uno di quelli del Fontana? Dov’è la dimostrazione a contrariis? Tra l’altro la chiesa non è stata realizzata in quella maniera: la scala C non porta ad alcuna cantoria (che è sempre stata sull’ingresso della via Emilia) ma solo al convento; il cortile M non fu mai realizzato ma inglobato nella Sacrestia, le nicchie per i confessionali G non furono mai realizzate; la scala per il pulpito ed il pulpito stesso furono innalzati dalla parte opposta, gli ingressi dalla Piazza furono e sono tuttora due e non uno, l’ingresso dalla via Emilia non presenta alcuna nicchia. E se fosse il disegno di qualche tecnico locale (fatto appunto in piedi di Castel Bolognese) che così ha tradotto l’idea del Fontana? Non c’è alcuna prova scientifica a contrariis, così come l’autore non dimostra che questa pianta sia del Fabri o a lui attribuibile. Scartare l’ipotesi Fontana solo perché la pianta è in misura di Castel Bolognese non è prova pregnante: come sopra visto, anche la divisione notarile di Palazzo Ginnasi avvenuta a Roma la si è fatta sopra pianta e alzati in misura di Castel Bolognese. Ciò che invece questa pianta dice e non è stato evidenziato è, innanzitutto, la perfetta sovrapposizione, sulla via Emilia, tra questa pianta e quella di Palazzo Ginnasi sopra citata; la seconda riguarda i “granari vecchi che restano in piedi” e che in realtà solo nella parte verso la pubblica via furono mantenuti a mo’ di bassi comodi mentre quelli verso la proprietà Ginnasi furono poi demoliti. Il cortile venutosi a creare conteneva il pozzo ove gli autori sacrileghi nella notte del lunedì di Pentecoste del 1893 gettarono le teste della Immacolata e del Bambino dopo aver decapitato la Sacra Immagine. Restano oggi in questo cortile, ove nel dopoguerra è stata malamente realizzata la sacrestia, le imposte degli archi di quei granai verso Palazzo Ginnasi.
Pag. 74: per “nave maestra” di una chiesa può intendersi anche un’unica navata od aula.
Pag. 75: Padre Serafino Gottarelli apparteneva all’ordine dei Minori Conventuali e non ai Cappuccini. Sulla contestazione relativa all’ordine composito e all’ornato della chiesa dei SS. Dodici Apostoli, invito l’Autore ad una attenta visita in luogo a quella chiesa come anche alla Concattedrale di Cervia da sempre attribuita ad architetti romani e che l’Autore non cita né esamina. D’altronde è risaputo che l’ordine composito non è un ordine “nuovo” ma non convengo che esso non sia “tale da far sorgere somiglianze e paragoni”. Perché? Ogni architetto lascia la sua impronta sull’ornato: vuoi che sia lo stile della foglia di acanto del capitello, o la presenza di un pulvino (vedi Morelli in San Petronio) o l’abbellimento del riccio del capitello, o la corona di festoni sopra la trabeazione (vedi San Francesco) ecc. E guarda caso il composito e l’ornato della chiesa del Santi Dodici Apostoli in Roma è assai simile a quello di San Francesco di Castel Bolognese.
Pag. 76 con nota 131 l’Autore scrive: ”Il riferimento alla cupola del Pantheon (parlando della cupola di San Francesco) come riporta Paolo Grandi è assai esagerato e fuori luogo.” L’asserto è assolutamente scorretto ed offensivo avendo l’autore travisato ciò che io ho scritto, peraltro non in un’opera di ricerca scientifica. Infatti l’Autore ricava tale (presunto) riferimento dal sito www.castelbolognese.org, nella parte relativa alla chiesa di San Francesco sotto la voce: itinerario storico-artistico ove correttamente si legge: L’edificio che si può ammirare attualmente è quello disegnato dall’architetto Francesco Fontana, pur se mutilato in alcune sue parti: le distruzioni belliche hanno travolto il coro, che si aggettava su via Rondanini (un tempo Calcavinazze), arretrando pertanto lo spazio dietro l’altare maggiore e dividendo per sempre la chiesa dal suo convento, ora palazzo comunale, il campanile e l’ampia sacrestia che dava su Piazza Bernardi; nel dopoguerra una nuova sacrestia è stata realizzata dalla parte opposta, occupando in parte il cortile della chiesa. Il progettista romano, rifacendosi seppure in proporzioni minori all’idea del Pantheon di Roma, idealizza la forma sferica con una cupola a tutto tondo che copre un’aula ottagonale irregolare, avente quattro lati grandi, ove sono collocate le cappelle maggiori e l’ingresso monumentale, e quattro piccoli ove prendono posto gli altari minori. L’ambiente interno, ricco di luce proveniente da quattro lunette posta sopra gli altari minori e da altre quattro finestre poste nei lati corti delle cappelle maggiori, oltre un finestrone a fianco dell’altare maggiore, è caratterizzato da una buona acustica. La chiesa, piuttosto alta rispetto alle strade circostanti, è realizzata nell’ordine corinzio e misura circa m. 40 x 30, con un’altezza al culmine della cupola interna di m. 28. Ove appunto il riferimento al Pantheon è per dare al lettore un’idea d’ispirazione dell’edificio che può effettivamente contenere una sfera, e non certamente con l’intenzione di paragonare le due cupole. Oltretutto, ripeto, si tratta di un testo divulgativo, seppur basato su documenti e ricerche e non di pura ricerca scientifica.
Pag. 78: sulla pianta ottagonale: si ribadisce che la chiesa del Suffragio di Ravenna e San Francesco di Castel Bolognese sono cronologicamente le prime chiese a pianta centrale realizzate in Romagna dopo quelle paleocristiane. Mentre fino a tutta la Toscana si era iniziata la costruzione di chiese a siffatta pianta già da almeno due secoli a firma dei più grandi architetti dell’epoca. Qualcuno da fuori (e non un misconosciuto “architetto”) deve aver portato in Romagna questo nuovo stile di costruzione.
Pag. 78 nota 132. “Quando la cultura illuministica riscopre la sintesi tra modello astratto ma con forma geometrica e realizzazione nello spazio e reintroduce l’uso della pianta ottagonale come strumento ordinatore non solo di spazi centrali unitari, ma anche di organismi più complessi” si dimentica che l’illuminismo, movimento di pensiero per lo più anticlericale ed anticattolico non ha influito sull’architettura religiosa ma semmai su quella civile. Inoltre l’uso dell’ottagono o del doppio quadrato (l’otto è sempre stato il numero perfetto che rappresenta l’infinito e così lo sé l’ottagono) non si è mai persa nei secoli da parte dei costruttori di chiese: su base ottagonale è, per esempio, impostata la cupola brunelleschiana di Santa Maria del Fiore di Firenze così come l’ambiente delle tombe dei Medici in San Lorenzo.
Pag. 79: così scrive l’Autore: “L’architetto Fabri ha visto certamente altre chiese fuori del suo territorio e sa bene che la nuova tendenza architettonica dei sacri edifici va verso strutture aperte a “sala unica” molto più funzionali, più luminose con assai più visibilità dei fedeli verso il celebrante e viceversa.” Sarebbe interessante conoscere e sapere ove il Fabri si sia istruito sulle chiese a pianta centrale e quali abbia visto fuori dalla Romagna, dal momento che, si ribadisce, le prime chiese a pianta ottagonale o centrale ad essere costruite in Romagna sono, appunto, S. Maria dei Suffragi a Ravenna e San Francesco a Castel Bolognese. Quanto alla costruzione di nuove chiese continua nel XVIII secolo l’insegnamento della Controriforma: preferenza alla pianta basilicale a croce latina o a croce greca. Più limitato l’uso di piante diverse che però col manierismo sfociano in piante ellittiche (Santuario di Vicoforte, S. Andrea al Quirinale ecc.) o di particolare forma come S. Ivo alla Sapienza. E il tutto prescinde dalla migliore visibilità dei fedeli verso il celebrante e viceversa dal momento che, fino al Concilio Vaticano II il sacerdote celebrava rivolto con la schiena verso il popolo pregando in latino per cui i fedeli vedevano e comprendevano ben poco di ciò che il Celebrante faceva.
Capitolo 8, pagg 89-90. Spingersi ad ipotizzare che il Fabri abbia anche progettato la chiesa di S. Maria dei Suffragi a Ravenna appare quantomeno fantasioso per una serie di motivi legati al fatto che mentre per la chiesa di Castel Bolognese abbiamo una lettera autografa del Fontana, per Ravenna, al di là della paternità del progetto di quella chiesa a Carlo o Francesco c’è la memoria della presenza a Ravenna dell’architetto Francesco Fontana per la costruzione di Palazzo Spreti.
Pag. 92: scrive l’Autore: “di entrambi (Carlo e Francesco Fontana) si conoscono altri interventi, ma non chiese e viene da pensare che se uno dei due se fosse stato presente in Santa Maria dei Suffragi da qualche parte ed in qualche documento in qualche pagamento sarebbe risultato.” L’autore così dimentica un fatto straordinario accaduto in Romagna tra la fine del XVII secolo e l’inizio del secolo successivo: la decisione presa con Chirografo dal papa Innocenzo XII di fondare la nuova città di Cervia affidandone l’incarico nel 1697 al card. Lorenzo Corsini, fiorentino d’origine ma romano di cultura (poi papa col nome di Clemente XII) il quale richiama in Romagna il fiore degli architetti romani per la costruzione della nuova città. Afferma il Foschi: “nei documenti sono citati numerosi architetti che si susseguono alla direzione dei lavori, (di edificazione della città di Cervia ndr), da Girolamo Caccia a Francesco Fontana, da Sebastiano Cipriani ad Abramo Paris, da Antonio Farini a Cosimo Morelli, da Francesco Navone a Bellardino Petri”. (6) Naturalmente anche in questo cantiere, come in tutti i cantieri, v’era chi dirigeva il lavoro delle maestranze e costui non era quasi mai l’architetto o ideatore dell’opera specie se costui era forestiero. Il Foschi cita i nomi dei primi capi mastri muratori e dei primi capi muratori, tutti del posto.
Anzi si attribuisce la probabile paternità della pianta della nuova città da edificare, che è la Cervia che oggi ammiriamo proprio a Francesco Fontana e sempre il Fontana è l’architetto del Palazzo Priorale (comunale) (7) il quale, afferma il Foschi “deve essere venuto in Romagna proprio per il nostro Palazzo Priorale (comunale)(8). E Ravenna è così vicina a Cervia…
Uno sguardo infine merita la Cattedrale. Non si conosce il progettista ma la si fa risalire ad “architettura di gusto romano(9). Entrando ed osservandone bene la struttura questa ricorda molto una delle ipotesi avanzate da Francesco Fontana per il nuovo San Francesco, con pianta basilicale, cappelle profonde con passaggio “per il comodo dei celebranti”, stretto e profondo presbiterio.
Pag. 94: scrive l’Autore: “le due fabbriche interessate appartengono pienamente alla cultura illuministica, entrambe sono coeve e del ‘700 il secolo dei lumi.” Come già detto, l’illuminismo è un movimento assolutamente laico ed in parte anticlericale ed anticattolico che nulla ha a che vedere con la progettazione delle chiese di quell’epoca.
Pag. 95: Filippo Antolini non torna a Castel Bolognese per sistemare un convento: Non risulta gli sia mai stato richiesto, tuttavia di Filippo Antolini restano a Castel Bolognese il Tempietto Bragaldi ed il Tempietto Rossi a Biancanigo.
Pag. 95: scrive l’Autore: “L’architetto Mengoni accetta l’incarico di ristrutturare il vecchio convento ma non lascia traccia del suo lavoro”. Che l’ex convento dei Francescani sia stato trasformato dal Mengoni non si ha alcun dubbio; casomai non v’è traccia d’archivio dei disegni perché l’archivio comunale di Castel Bolognese è stato in parte disperso. Tuttavia di lui e del suo intervento a Castel Bolognese, patria della madre, parlano gli storici di quell’epoca poi non tanto lontana, se ne parla nelle sedute del Consiglio Comunale e sul volume di Oddo Diversi “Dall’ultima trincea tedesca sul Senio” è pubblicata una lettera di Mengoni datata 12 giugno 1864 che chiede notizie sui lavori di trasformazione del convento di San Francesco (10).
Alla luce delle sopra esposte osservazioni, ribadisco pertanto la richiesta d’incontro ed eventualmente una pubblica rettifica, almeno sulle parti più controverse e non dimostrate.
Con ossequio.

PAOLO GRANDI

(1) DREI I.: La Chiesa e il Convento di San Francesco (note storiche) in Il voto della Pentecoste e la tradizione religiosa castellana, studi e testimonianze, Imola, 1981.
(2) Il riferimento è a p. Serafino Gaddoni.
(3) Vedi: GRANDI P., SOGLIA A.: Gli Amonio da Castel Bolognese, Imola, 2013.
(4) GADDONI S.: Le chiese della Diocesi di Imola, vol. 1, Imola, 1927.
(5) ibidem
(6) FOSCHI U.: La costruzione di Cervia Nuova (1697-1750), Ravenna, 1997.
(7) FOSCHI U.: ibidem.
(8) FOSCHI U.: ibidem.
(9) FOSCHI U.: ibidem.
(10) DIVERSI O.: Dall’ultima trincea tedesca sul Senio – Castel Bolognese 1943-1980, Imola, 1981.

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Il restauro della cappella della Immacolata Concezione nella chiesa di San Francesco https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/chiese/chiesa-di-san-francesco/il-restauro-della-cappella-della-immacolata-concezione-nella-chiesa-di-san-francesco/ https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/chiese/chiesa-di-san-francesco/il-restauro-della-cappella-della-immacolata-concezione-nella-chiesa-di-san-francesco/#respond Sat, 05 Mar 2022 16:39:15 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=9523 di Paolo Grandi All’interno del grandioso tempio di San Francesco, ricostruito in forme tardo barocche dall’architetto Francesco Fontana a partire dal 1702, spiccano per altrettanta grandiosità le due ampie cappelle laterali dedicate rispettivamente a San Giuseppe, contenente il reliquiario, e all’Immacolata Concezione, ove si conserva la quattrocentesca immagine della Patrona …

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di Paolo Grandi

All’interno del grandioso tempio di San Francesco, ricostruito in forme tardo barocche dall’architetto Francesco Fontana a partire dal 1702, spiccano per altrettanta grandiosità le due ampie cappelle laterali dedicate rispettivamente a San Giuseppe, contenente il reliquiario, e all’Immacolata Concezione, ove si conserva la quattrocentesca immagine della Patrona di Castel Bolognese e del suo territorio. Mentre la prima fu interessata quasi trent’anni fa da un intervento di ricostruzione e restauro che ne completò la cimasa, non ricostruita nel dopoguerra, e da una generale ripulitura, la seconda necessitava da tempo di un restauro radicale, sia per difenderla dall’umidità del suolo, sia per provvederne il ripristino del coperto che da tempo era soggetto ad infiltrazioni di acque meteoriche.
L’intervento, resosi fattibile per il contributo di alcuni fedeli, si è svolto tra il 5 agosto ed il 7 novembre 2020 sotto la direzione dell’architetto Supremo Zaccherini. Qui di seguito la descrizione del restauro. Balzano innanzitutto alla vista le dimensioni della cappella che, nella grandiosità e nell’armoniosità degli equilibri architettonici della chiesa, non sono subito ben apprezzabili: l’altezza è di 14 metri e la larghezza di circa 6,20 metri.
La prima operazione è stata quella della messa in sicurezza del tetto che presentava notevoli infiltrazioni nella volta in muratura. Qui la costruzione era molto compromessa: infatti al di sopra della volta v’è un’intercapedine di circa 80 centimetri sopra la quale stanno le capriate di legno che reggono la copertura. V’era una trave delle capriate, verso la via Emilia, che a causa dell’acqua si era marcita ed appoggiava sulla volta. La mancanza della guaina al di sotto dei coppi aveva ulteriormente contribuito a compromettere la struttura. Sono perciò state sostituite due travi, ripristinato l’impalcato delle capriate, è stata posata la guaina isolante e finalmente sono stati disposti i coppi.
Si è quindi passato al restauro dell’altare sotto la direzione della restauratrice Carlotta Scardovi di Bologna. L’ancona è di fattura barocca, molto importante; le due colonne tortili non sembrano di fattura locale o, quantomeno, si discostano di molto dalle analoghe costruzioni del medesimo periodo presenti in Romagna. Anche le decorazioni ed i finti marmi in scagliola sono di livello cromatico e di fattura elevata. L’intervento di ripulitura ha rimosso la polvere di secoli ed il nerofumo delle candele; si è così appurato che le colonne tortili erano state ricoperte da finto marmo venato colorato a pennello sopra quello a scagliola che è tornato alla luce. Gli angioletti che fanno da contorno alla nicchia ove è posta l’immagine della Beata Vergine erano alquanto deteriorati anche a causa dello spostamento della statua, sono stati restaurati nelle parti mancanti (ad uno mancava un piede) e nei colori. Sì è così scoperto che il vetro della nicchia, che misura 80 centimetri di larghezza per 180 centimetri di altezza è originale dell’epoca. Anche tutte le dorature, ripristinate nelle parti mancanti, forse nei restauri del dopoguerra, con porporina, sono state riportate all’antico splendore. La mensa, che soffre di umidità in risalita, è stata bonificata per combatterla ed anche qui si sono adoperate tinte a calce che l’assorbono. Infine le pareti laterali, con i due monumenti ai vescovi Gian Paolo Pallantieri e a Girolamo Pallantieri, sono state ripulite da polvere secolare e nerofumo.
L’interno della cappella è stato ritinteggiato con i colori che si reputano quelli della costruzione, i quali si ripetono nelle cappelle laterali. I colori sono un rosa pallido di fondo e color terra d’ombra che tende al verdino grigio per tutte le parti a rilievo, poi ci sono particolari bianco avorio tipo il festone di foglie di allora che corre a metà del cornicione interno.
Si ringrazia l’architetto Supremo Zaccherini per la collaborazione ed i documenti messi a disposizione.
Nota a margine: per preservare il più possibile sia l’intervento di restauro che l’integrità dell’Immagine della Beata Vergine, che, si ricorda, è una terracotta del XV secolo attribuita a Jacopo della Quercia o alla sua scuola, l’Arciprete don Marco Bassi ha pensato di posizionare definitivamente nella nicchia dell’ancona la terracotta originale, privata delle superfetazioni, dei decori e delle vesti, salvo il manto, e posizionando il Castello ai piedi dell’Immagine. Per l’uso processionale ne è stata realizzata una copia in materiale più leggero, in maniera che anche il trasporto sia agevolato, se si pensa che il peso gravante sui portatori prima di questo intervento, tra terracotta e basamento era di circa 150 kg.

Particolari dell’altare sottoposti al restauro.
Foto tratte dalle relazioni lavori di Carlotta Scardovi, Sos Art di Bologna

Contributo originale per “La storia di Castel Bolognese”.
Per citare questo articolo:
Paolo Grandi, Il restauro della cappella della Immacolata Concezione nella chiesa di San Francesco, in https://www.castelbolognese.org

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Il suono dell’organo nella chiesa di San Petronio https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/chiese/chiesa-di-san-petronio/il-suono-dellorgano-nella-chiesa-di-san-petronio/ https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/chiese/chiesa-di-san-petronio/il-suono-dellorgano-nella-chiesa-di-san-petronio/#respond Sun, 29 Dec 2019 18:44:53 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=7497 di Paolo Grandi I precedenti strumenti Un piccolo organo esisteva in chiesa già nel 1574; il secondo fu fatto nel 1589 a spese dei fedeli e della comunità, la quale elargì 100 scudi, un terzo fu acquistato a Bologna dall’arciprete Guarini il 6 settembre 1691, costruito da Francesco Traeri di …

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di Paolo Grandi

I precedenti strumenti

Un piccolo organo esisteva in chiesa già nel 1574; il secondo fu fatto nel 1589 a spese dei fedeli e della comunità, la quale elargì 100 scudi, un terzo fu acquistato a Bologna dall’arciprete Guarini il 6 settembre 1691, costruito da Francesco Traeri di Brescia. Restaurato nel 1757 dal Bolognese Pietro Giovagnoni e nel 1789 da Domenico Gentilini di Medicina, subì nel 1810 un completo rifacimento, eseguito dal rinomato organaro Pietro Cavaletti di Parma, a spese dell’arciprete Domenico Contoli e di don Francesco Favolini. Questo prezioso strumento perì col crollo del campanile nell’inverno del 1944. Erano posti entrambi nella cantoria di sinistra (cornu Evangelii)
Una curiosità è legata all’organo di san Petronio: una famiglia castellana, i Cornazzani, erano soprannominati “sceva-l’orghen” perché uno dei loro componenti conservava la chiave di accesso all’organo.

Lo strumento impiantato nel dopoguerra

Il quarto organo fu costruito dalla “Organaria Marciana” di Venezia tra la fine degli anni ’50 ed i primi anni ‘60 e venne inaugurato nel 1962, pagato in parte dallo Stato in conto dei danni di guerra ed in parte dai fedeli e dall’Arciprete Sermasi. Si trattava di un notevole strumento, posizionato sulla cantoria di sinistra, (cornu Evangelii), e mostrava una grande teoria di canne del “principale” sulla balconata. Per rispettare la rigorosa simmetria della chiesa, un’identica teoria di canne, solo di bellezza, fu posizionata anche sulla cantoria di destra (cornu Epistulae). Il movimento era elettrico: ogni tasto della tastiera della consolle, che era posizionata al centro del coro dietro l’altare maggiore, era in pratica un interruttore collegato ad un relè il quale a sua volta apriva una valvola che faceva passare l’aria del somiere attraverso quella canna provocandone così il suono. Tale strumento si dimostrò però ben presto inadeguato, tanto che alcuni testimoni, Marcellino in testa, ricordano che già al concerto inaugurale una parte dell’organo era inutilizzabile. Fu suonato pochissime volte e così per udire il vibrare di un organo occorse aspettare altri vent’anni. Nel frattempo supplirono un harmonium poi le prime tastiere elettriche a transistor e successivamente le tastiere elettroniche che tuttavia dovettero convivere con le nuove tendenze della musica: chitarre ed altri strumenti.

Il lascito Sermasi e la disputa per la tipologia di strumento

Il 25 aprile 1979 moriva mons. Giuseppe Sermasi, Arciprete di San Petronio dal 1935 al 1971, lasciando per testamento una cospicua somma di denaro per la costruzione di un nuovo organo in San Petronio; egli infatti si era sempre rammaricato che l’organo da lui installato non avesse mai funzionato.
L’allora Arciprete don Giancarlo Cenni si rivolse pertanto a due personalità della musica per avere il loro parere su che tipologia di strumento preferire: padre Albino Varotti e don Carlo Marabini. Padre Albino propose uno strumento in linea con le costruzioni del tempo: consolle posta lontano, in una posizione comoda per l’accompagnamento di un gruppo corale e canne azionate elettricamente (erano già in essere i primi esperimenti di azionamento elettronico) raggruppate anche in più punti della chiesa per dare un suono più completo ed avvolgete. Don Carlo Marabini, affiancato dalla propria organista Maria Grazia Filippi invece proponeva uno strumento del tutto nuovo che tuttavia si inseriva nella tradizione degli organi italiani: compatto, con trasmissione meccanica e posizionato su una delle due cantorie a lato del presbiterio. Complice forse il fatto che la trasmissione elettrica aveva già tradito il precedente organo, don Cenni si orientò verso la proposta di don Carlo Marabini che tuttavia sacrificava la vicinanza tra organista e corale ma che oggi, a distanza di oltre trent’anni, si è dimostrata vincente. Maria Grazia Filippi progettò il nuovo strumento.

Il nuovo organo Ruffatti

Così lo descrive la sua progettista Maria Grazia Filippi nel pieghevole di inaugurazione:

II nuovo Organo della Chiesa Arcipretale di San Petronio in Castel Bolognese si inserisce, in maniera adeguata, nel già cospicuo numero di organi costruiti ultimamente nella nostra zona, seguendo la linea della più antica e autentica tradizione italiana. Posso citare, come esempio, l’organo della Chiesa di S. Maria dei Servi in Bologna (Tamburini 1967), della Sala Respighi del Conservatorio (F. Zanin 1978) e della Basilica di S. Antonio sempre in Bologna (F. Zanin 1972), della Chiesa del Suffragio in Rimini (F. Zanin), della Parrocchiale di Castrocaro (Tamburini), etc.
Parlando di tradizione, si deve intendere una «Strada maestra» poiché, per cinque secoli e più, l’organo ha sempre avuto le stesse caratteristiche tecniche di costruzione e volerle cambiare, significa voler tentare un esperimento.
All’inizio di questo secolo, forse in nome del progresso, è stato fatto un considerevole cambiamento, portando il sistema di trasmissione, da sempre meccanico, a tubolare e poi ad elettrico; non si è rivelata altro che una parentesi, oggi già abbondantemente chiusa. La complessità di una progettazione, ideazione, realizzazione di un organo è sempre notevole; e se poi vogliamo considerare anche la non trascurabile spesa necessaria, dobbiamo sentirci in dovere di proiettare questo strumento in un futuro non certamente prossimo ma il più possibile lontano.
Accontentarci comodamente di un esperimento durato 40 o 50 anni e risultato fallito come quello della trasmissione elettrica (in genere la durata di questi organi è di 20 anni, dopo di ché essi necessitano di un rinnovamento completo di trasmissione, quindi di relais, magneti, transistors etc.) avrebbe significato perlomeno superficialità per non dire approssimazione.
Non vorrei essere troppo ottimista in fatto di durata, ma basti pensare che l’Italia vanta ancora oggi, perfettamente funzionante, l’organo più antico del mondo, costruito nel 1475 per la Basilica di S. Petronio in Bologna da Lorenzo da Prato.
II discorso naturalmente non si esaurisce qui; la durata è uno soltanto, tra tutti i pregi di un organo a trasmissione meccanica (e qui vorrei precisare che per trasmissione meccanica s’intende il collegamento per mezzo di un tirante tra canna e tasto, per cui, quando quest’ultimo viene abbassato si apre direttamente il ventilabro della canna corrispondente sul somiere); altri sono la prontezza, la gradualità di tocco, la morbidezza di suono, tutte caratteristiche queste, completamente assenti in qualsiasi altro tipo di organo.
Anche per quanto riguarda la fonica, cioè la scelta dei timbri o registri, è stato rispettato appieno, non solo la tradizione ma anche il nostro sempre invidiato gusto italiano. La dolcezza del principale, la trasparenza del ripieno, la vivacità del cornetto e la regalità della tromba, per non parlare dei flauti particolarmente limpidi ed espressivi, fanno di questo strumento un autentico gioiello, di cui, penso, chiunque andrebbe orgoglioso.
La felice ubicazione nella cantoria in «Cornu Epistolae», la progettazione della cassa, unitamente alla Soprintendenza ai Beni Architettonici di Ravenna con la facciata in bello stile italiano, lo inseriscono piacevolmente nella splendida architettura di questa Chiesa costruita «ex novo» da Cosimo Morelli dal 1783 al1786, dopo che il terremoto del 1781 l’aveva completamente distrutta.
Una distanza di due secoli, dunque, unisce due capolavori d’arte esprimenti due mondi interiori lontani; sappiamo tutti, però, molto bene, che nonostante il più accattivante dei progressi, le mode e gli eventi storici, l’anima e il cuore di un uomo non sono mai cambiati e resteranno sempre gli stessi.

La sua collocazione nella cantoria impose anche alcuni lavori edili, curati dal geom. Domenico Gottarelli e in parte finanziati da lui stesso, dalla Banca di Credito Cooperativo (allora Cassa Rurale Artigiana di Castel Bolognese e Casola Valsenio) e dalla Cassa di Risparmio di Lugo consistenti ne rinforzo delle travate della cantoria e del sottotetto della sacrestia per sopportare il peso dello strumento e di un piccolo rialzo del tetto della sacrestia ove alloggiare parte delle canne.

Così lo descrive il restauratore, maestro Nicola Ferroni:

L’organo della chiesa di San Petronio di Castel Bolognese fu costruito tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta del Novecento, come indicano le date impresse sulle varie parti componenti lo strumento e la dedica punzonata sull’anima delle due canne maggiori del Principale, il Do e il Do#, collocate in cassa dietro le paraste del prospetto: “Arciprete / Don Giancarlo Cenni” e “Fratelli Ruffatti / Padova 1980”.
Lo strumento è collocato in cassa a muro, in cantoria, nel lato destro del presbiterio (in cornu Epistulae). È costituito da tre corpi d’organo: il Grand’Organo, che risponde alla tastiera superiore, collocato dietro il prospetto, l’Organo Positivo, comandato dal manuale inferiore e collocato nel basamento della cassa a sinistra della finestra di consolle, e il Pedale, posto a ridosso del muro posteriore della camera.
Il somiere del positivo e quello del Pedale hanno disposizione delle canne cromatica, con i registri disposti a scalare dai maggiori sul fondo verso i più acuti davanti. Il Grand’organo ha le canne disposte prevalentemente per terze maggiori oppure distribuite tra pari e dispari a destra e a sinistra. I registri sono collocati a scalare dalla facciata verso il fondo, la Tromba per comodità di accordatura è posta vicino al passo d’uomo come anche il Fagotto 16′ del Pedale.
Il prospetto è articolato in tre campate con canne del Principale 8′ disposte a cuspide, bocche allineate, le campate esterne sono formate da 11 canne, quella centrale da 13.

Questa è la composizione fonica, come si rileva dal pieghevole di presentazione:

GRAND’ORGANO
II Manuale 61 note Do-Do
PRINCIPALE 8′
OTTAVA 4′
DECIMAOUINTA 2′
RIPIENO 4 FILE 1 1/3′
FLAUTO 4′
FLAUTO IN XII 2 2/3′
TROMBA 8′

ORGANO POSITIVO
I Manuale 61 note Do-Do
BORDONE 8′
FLAUTO A CUSPIDE 4′
PRINCIPALE 2′
CORNETTO 3 FILE 2 2/3′*
TREMOLO

* dal Do2

PEDALE
32 note Do-Sol
CONTRABBASSO TAPPATO 16′
OTTAVA 8′
QUINTADECIMA 4′
FAGOTTO 16′

Unioni:
POSITIVO AL GRAND’ORGANO
GRAND’ORGANO AL PEDALE
POSITIVO AL PEDALE

TIRATUTTI

Totale canne dello strumento: 1.068

Trasmissioni integralmente meccaniche

L’inaugurazione – 18 dicembre 1982

Questa la presentazione inserita da don Giancarlo Cenni nel pieghevole distribuito in quella serata:
Da tanto tempo i castellani auspicavano che alla chiesa parrocchiale di S. Petronio venisse restituito il suono armonioso dell’organo.
Questo strumento, complesso ed eccezionalmente dotato di risorse musicali, è divenuto ormai indispensabile per arricchire e completare il servizio liturgico nelle chiese cristiane.
Le cronache della nostra parrocchia potranno ora registrare tra gli avvenimenti degni di menzione l’inaugurazione del nuovo grande organo di San Petronio, che avrà luogo sabato 18 dicembre con il prima di una serie di concerti offerti alla cittadinanza.
Le tradizioni musicali, che hanno sempre contraddistinto Castel Bolognese, saranno così ravvivate, perché il nuovo organo potrà rendere nel tempo anche un importante servizio culturale.
Viene finalmente realizzato un desiderio di mons. Giuseppe Sermasi, che del nuovo organo è il donatore. II compianto arciprete aveva espresso esplicitamente nel testamento scritto la volontà di lasciare i suoi beni alla Chiesa, per dotarla della voce di un organo, di cui la parrocchia di San Petronio necessitava da tempo. Infatti, dopo la distruzione dell’antico organo nel corso degli avvenimenti bellici, con i fondi assegnati per i danni di guerra ne era stato installato un altro, che non ha mai funzionato, con rammarico dello stesso Arciprete.
L’Arciprete D. Gianni Cenni e la Comunità Parrocchiale esprimono la loro riconoscenza a mons. Giuseppe Sermasi per questo dono, attraverso il quale egli ha inteso rimanere ancora presente tra i fedeli, come lo fu nei momenti lieti e tristi dei suoi 37 anni di ministero pastorale a Castello. Un grazie particolare anche al canonico Augusto Sermasi, D. Carlo Marabini, al Geom. Gottarelli e a tutti gli Offerenti per la parte muraria, alla Cassa di Risparmio di Lugo, alla Cassa Rurale ed Artigiana di Castel Bolognese, a Maria Grazia Filippi per la progettazione dell’Organo.

Il concerto inaugurale, con il grandioso tempio di San Petronio pieno di pubblico, fu eseguito dall’organista di fama nazionale Elsa Bolzonello Zoja (1937-2007) che così venne presentata:
Diplomata in pianoforte, organo, composizione al Conservatorio «C. Pollini» di Padova, ha proseguito gli studi organistici a Bologna con Luigi Ferdinando Tagliavini e successivamente alla Accademia Internazionale d’organo di Haarlem (Olanda).
Ha suonato in vari Paesi europei e ha partecipato a numerosi Festivals Internazionali; ha inoltre effettuato registrazioni per la RAI e la Radio Svizzera Italiana.
Per la collana «Antichi organi italiani» della Ricordi ha inciso il disco dedicato al 700 sul «Callido» di Borca di Cadore. E’ insegnante d’organo e composizione organistica presso il Conservatorio «B. Marcello» di Venezia.
È Ispettore onorario del Ministero per i Beni Culturali e membro della Commissione per la tutela degli organi antichi.

Il programma del concerto prevedeva:
B. PASQUINI (1637-1710): Toccata in re minore
B. PASQUINI (1637-1710): Tre arie
D. ZIPOLI (1688-1726): All’Elevazione (II)
D. ZIPOLI (1688-1726): Pastorale
J. PACHELBEL (1653-1706): Toccata in do minore
J. PACHELBEL (1653-1706): Aria Sebaldina con 8 variazioni
J. F. DANDRIEU (1682-1738): Noël «Voici le jour solemnel»
J. STANLEY (1713-1786): Voluntary in la minore op. 6 n. 2
J. S. BACH (1685-1750): tre preludi corali:
Christum wir sollen loben schon BWV 611
Nun komm’, der Heiden Heiland BWV 659
Jesu, meine Freude BWV 610
J. S. BACH (1685-1750): Preludio e fuga in sol maggiore BWV 541

Seguì come bis:
A. LUCCHESI (1741-1801) Sonata per organo

A questa prima serata seguì:
Il giorno successivo, domenica 19 dicembre il gruppo “gregorianisti” della Cappella Musicale “Santa Maria” di Lugo diretti da don Carlo Marabini eseguirono alla Messa delle 11.15 la “Missa cum Jubilo” di G. Cavazzani. All’organo sempre Elsa Bolzonello Zoja.
Martedì 21 dicembre alle ore 20.30 fu eseguita la “Messa da Requiem” di L. Perosi in suffragio di mons. Giuseppe Sermasi.
Domenica 26 dicembre alle ore 16 la Cappella Musicale “Santa Maria “ di Lugo diretta da don Carlo Marabini eseguì un concerto di musiche natalizie. All’organo Maria Grazia Filippi; tromba: Valerio Beltrami.

Ma soprattutto la notte di Natale, con un scelto repertorio di canti natalizi, fu la prima esibizione della neonata “Corale di San Petronio”, diretta dallo scrivente con all’organo Francesco Scardovi.
Il 25 dicembre, alle 11.15, cantò alla Santa Messa il tenore Domenico Drei accompagnato all’organo da don Domenico Casadio.

Registrazione originale del concerto del 18 dicembre 1982

Registrazione originale del concerto del 26 dicembre 1982

Il restauro del 2019

Dopo trentasei anni e qualche mese di onorato servizio, era ormai giunto il tempo di revisionare completamente lo strumento: polvere, parassiti, sporcizia e qualche disallineamento delle aste richiedevano un intervento di sistemazione radicale e non una semplice accordatura. Si pensi che, in questi anni, per ben due volte il pavimento della chiesa è stato levigato con la conseguente nuvola di polvere che pesantemente si è depositata dentro le canne dell’organo.
Gli zii di Elisabetta Grandi, la giovane organista scomparsa prematuramente nel 2018 che per oltre vent’anni aveva suonato quello strumento, cioè lo scrivente e mia moglie, sono venuti alla decisione di provvedere, a loro spese, ad un radicale intervento di restauro dello strumento. Tramite l’amico Giuliano Castellari è stato contattato l’organaro Nicola Ferroni di Lendinara che in quindici giorni di permanenza a Castel Bolognese ha completamente revisionato lo strumento. Questa la sua relazione sui lavori svolti nella seconda quindicina di settembre:

Le canne del Principale 8′ sono di lega di stagno, purtroppo lo spessore della lastra non è sufficiente per garantirne la stabilità. I piedi delle prime cinque canne maggiori hanno ceduto in punta, e nelle canne interne il gancio di sostegno è stato strappato in seguito al collasso del piede. Si è dovuto provvedere a reggere le suddette canne con legacci ancorati al sostegno e, per la canna maggiore di facciata, il Re1, è stato necessario legarla con filo metallico per evitare il crollo. Il foro al piede era completamente chiuso e le bocche deformate dal peso. Si è inserito un tubo di alluminio nel foro del piede opportunamente allargato, così da impedirne lo strozzamento. Si è rimessa in forma la bocca ai lati e lo scudo superiore. Le anime, che si erano abbassate al centro a causa della gravità, sono state riportate in linea con il labbro inferiore. Ciò ha permesso di recuperare almeno parzialmente le note gravi del Principale che prima risultavano quasi assenti.
Intonazione e accordatura erano in disordine al momento del sopralluogo, soprattutto a causa della polvere e delle ragnatele ovunque nell’organo. Tutte le canne sono state smontate e soffiate con aria compressa, spolverate e rimesse in forma.
La stecca del Fagotto di 16′ era disallineata con i fori del somiere poiché l’asola di guida del movimento era stata chiusa con feltro incollato e dunque la corsa era controllata solamente dal pomello in consolle.
Si è corretto il movimento di apertura e chiusura della stecca ripristinando l’asola e la sua guida di ottone conficcata nella tavola del somiere.
Altri comandi accessori di registro (il tiratutti e il tremolo) erano stati rimossi o non funzionavano al momento dell’intervento e si è deciso d’accordo con la committenza di lasciarli come si trovavano.
La trasmissione dei manuali è interamente meccanica, con leve dei tasti fulcrate in coda secondo i modelli della scuola veneta. La tastiera superiore è sospesa ai ventilabri tramite tiranti e catenacciatura, mentre quella inferiore è appoggiata a pironi, che per mezzo della catenacciatura comandano l’apertura dei ventilabri. La pedaliera muove squadrette e tiranti sino alla catenacciatura posta sotto il rispettivo somiere. I comandi di registro sono azionati tramite pomelli disposti in colonne ai lati della finestra di consolle, a destra Grand’organo e Pedale, a sinistra il Positivo. I pomelli trascinano aste di metallo che a loro volta muovono i catenacci e le “spade” collegate alle stecche dei registri.
Le unioni a pedaletto (I-Ped., II-Ped. e II-I) sono ottenute mediante leve fulcrate in coda o interfisse, poste sopra le tastiere dietro il pannello della finestra di consolle.
Si è provveduto a spolverare interamente le tastiere e le catenacciature, e si sono regolate le unioni dei corpi d’organo. Il meccanismo che unisce le due tastiere, una barra trasversale con bilancini semplicemente appoggiati, si è dimostrato poco affidabile, perché, mancando i perni, le suddette leve interfisse possono spostarsi e interferire con le vicine, causando intoppi e blocchi della trasmissione.
Il motore è di marca Daminato, è stato spolverato e lubrificato con l’apposito olio. I mantici e i condotti portavento sono in ottimo stato e non si sono riscontrate perdite d’aria.
I tre somieri a tiro sono d’ottima fattura, con adeguati spessori di “mogano sipo” per le tavole e le coperte, i ventilabri e la secreta sono perfettamente funzionanti senza perdite di pressione o fughe. I crivelli sono stati smontati e puliti prima di controllare il corretto allineamento delle canne.
Due trasporti del vento, che alimentano le canne gravi del Fagotto sul supporto fuori somiere, erano staccati. Sono stati nuovamente collegati nei rispettivi alloggi. Si è accantonato il pannello che copriva la parte inferiore del suddetto supporto delle canne più gravi di Contrabasso e Fagotto che serviva solamente a mascherare i condotti di alimentazione delle canne. Ciò ha consentito di rimuovere la sporcizia accumulatasi negli anni.
Le canne di legno sono state smontate per poter rimuovere i tappi di accordatura e controllare lo stato delle guarnizioni, che sono risultate sane e ancora efficaci.
Le relative linguette metalliche per la regolazione del flusso d’aria al piede sono state bloccate nella giusta posizione con una goccia di colla vinilica.
Le tube dei registri ad ancia sono state pulite e ispezionate: le saldature sono complessivamente in buono stato, nonostante in qualche caso nel gambo di supporto abbiano ceduto. I piedi di queste canne sono ottenuti da pesanti tubi di piombo, che garantiscono la stabilità ma sono soggetti a corrosione, nonostante la vernice protettiva che li ricopre. Il fenomeno si mostra soprattutto nella zona medio-grave del registro di Tromba e nel Fagotto, con formazione di polvere bianca che blocca facilmente il suono e rende precaria l’accordatura.
Dopo la pulizia dei somieri e delle canne, si è provveduto a ripassare l’intonazione dei registri labiali, correggendo alcuni difetti di pronuncia e disomogeneità di forza. Non si è modificata l’impostazione fonica e non si sono alterati i criteri generali d’intonazione a pieno vento senza denti caratteristica dello stile cosiddetto “neo-barocco”.
L’accordatura è stata ripristinata rispettando il corista rinvenuto (leggermente calante rispetto al La3=440 Hz a 18° C) e il sistema di temperamento descritto nel foglio appeso alla porta d’accesso alla camera dell’organo e firmato dalla ditta Ruffatti.
Complessivamente lo strumento è ora in discrete condizioni di conservazione e quasi pienamente efficiente, nonostante il collasso dei piedi delle canne gravi di facciata. Si consiglia di controllare periodicamente lo stato dei legacci che tengono le canne maggiori del prospetto vincolate ai sostegni interni. Poichè il cedimento della lastra è irreversibile, sarà necessario ricostruire i piedi danneggiati, se non addirittura le prime cinque o sei canne, data la loro scarsa stabilità strutturale.

Disposizione fonica:

Grand’Organo
Principale 8′ in facciata da Re1, 35 note; il rimanente interno. Lastra con alta percentuale di Stagno.
Ottava 4′ di metallo con alta percentuale di Stagno
Decimaquinta 2′ di metallo con alta percentuale di Stagno
Ripieno 4 file (XIX-XXII-XXVI-XXIX con ritornelli tradizionali) di metallo con alta percentuale di Stagno
Flauto in VIII 4′ cilindrico, di metallo con maggiore percentuale di piombo
Flauto in XII 2.2/3′ a cuspide, di metallo con maggiore percentuale di piombo
Tromba 8′ (linguali fino al Re5, poi labiali; tube di rame)
Organo Positivo
Bordone 8′ canne tappate, 1-12 di legno d’abete, rimanente di metallo con maggiore percentuale di piombo
Flauto a cuspide in VIII 4′ di metallo con maggiore percentuale di piombo
Principale 2′
Cornetto 3 file (XII-XV-XVII) canne cilindriche di metallo con maggiore percentuale di piombo
Tremolo
Pedale
Contrabasso (o Subbasso tappato) 16′ di abete
Ottava di rinforzo 8′ aperto di abete
Quintadecima 4′ aperto di metallo
Fagotto 16′ ad ancia con tube di rame

Album fotografico relativo al restauro (99 fotografie!) a cura di Nicola Ferroni

Il concerto dopo il restauro

Per la prima volta il rinnovato suono dell’organo si è ascoltato la sera del 27 settembre 2019 in occasione del primo ingresso in Parrocchia del nuovo Vescovo di Imola mons. Giovanni Mosciatti, poi la domenica 6 ottobre in occasione della Messa delle Cresime.
Domenica 27 ottobre, alle 18.30, al termine della Messa Vespertina, lo stesso restauratore, Nicola Ferroni, ha accompagnato il quartetto “Nuova Musica Antica” di Rovigo, composto da Liliana Tami, Jenny Carità, Monica Valentini e Sara Magon. Questo gruppo vocale si è ricostituito l’anno scorso sulla scia di una precedente formazione guidata dal compianto Maestro Vincenzo Ferrari, scomparso nel 2017.
Il repertorio su cui si concentra il suo interesse è costituito principalmente dalla musica composta ed eseguita nei conventi femminili italiani durante l’epoca barocca. È noto infatti che alcune città italiane, ad esempio Milano, Venezia e Bologna, ospitavano conventi e collegi femminili rinomati per questo specifico genere musicale.
Inoltre il gruppo sta estendendo la ricerca alla polifonia tardo-rinascimentale espressamente concepita per voci femminili o che si presta perfettamente all’esecuzione con sole voci femminili, rispettando opportuni accorgimenti tecnici.
Questo il programma:
GIROLAMO FRESCOBALDI: da i Fiori Musicali, Toccata e Ricercare con obbligo di cantare la quinta parte;
FRANCISCO CORREA DE ARAUXO: Canto llano de la Immaculada Concepcion de la Virgen Maria;
TARQUINIO MERULA: Intonazione del quarto tono;
CLAUDIO MONTEVERDI: Cantate Domino;
BERNARDO STORACE: Passacaglia;
DOMENICO ZIPOLI: verso;
FRA’ SISTO REINA: Hinc mundi jam procul, mottetto a tre;
DOMENICO ZIPOLI: verso;
FRA’ SISTO REINA: Per ima loca, mottetto a tre;
DOMENICO ZIPOLI: Canzona;
ISABELLA LEONARDA: Ave Regina Caelorum, mottetto a quattro;
Al termine, lo scrivente, insieme al quartetto, ha eseguito il Panis Angelicus di César Franck.
Di questo concerto rimangono spezzoni di registrazione eseguiti da amici degli esecutori e da Francesco Minarini.

Registrazioni del concerto del 27 ottobre 2019

 

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1949-2019: le campane di San Petronio suonano da settant’anni https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/chiese/chiesa-di-san-petronio/1949-2019-le-campane-di-san-petronio-suonano-da-settantanni/ https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/chiese/chiesa-di-san-petronio/1949-2019-le-campane-di-san-petronio-suonano-da-settantanni/#respond Sun, 22 Dec 2019 18:17:14 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=7387 di Paolo Grandi L’agonia del campanile di San Petronio iniziò il 24 e 25 maggio 1943 quando gran parte delle campane furono calate dai campanile delle chiese cittadine per ordine del Governo, requisite da fondere per usi bellici. Si salvò il concerto di San Petronio e da quel campanile fu …

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di Paolo Grandi

L’agonia del campanile di San Petronio iniziò il 24 e 25 maggio 1943 quando gran parte delle campane furono calate dai campanile delle chiese cittadine per ordine del Governo, requisite da fondere per usi bellici. Si salvò il concerto di San Petronio e da quel campanile fu calata solo la campana che avvisava le “messe basse”, che non faceva parte del concerto. Si sperava così di salvare almeno il gruppo di campane più completo ed intonato. Ma la sosta del fronte sul Senio era alle porte e l’artiglieria anglo-americana non risparmiò i campanili di Castel Bolognese. Quello di San Petronio, col suo carico di campane, fu più volte colpito, finché la vigilia di Natale del 1944 fu abbattuto da un colpo di artiglieria, crollando nel Presbiterio della chiesa e trascinando con sé campane, organo e parte del coperto.
Una curiosità su questo abbattimento: tra l’esercito anglo americano erano presenti anche volontari di altre Nazioni che speravano di liberarsi dal giogo tedesco e riconquistare la libertà e l’autodeterminazione; tra questi molti polacchi e tra essi Henryk Strzelecki (4 ottobre 1925 – 26 dicembre 2012) che proprio sparò il colpo ferale al nostro campanile. Ora il nome in sé non dice un gran che ma scorrendo la biografia di questo soldato, disegnatore di moda in tempo di pace, si scopre che, abbandonata l’idea di tornare nella natia Polonia che nel frattempo, pur liberata dal giogo nazista era piombata sotto quello comunista, si trasferì in Gran Bretagna e lì, mutato il nome in Henri Strzelecki fondò nel 1963 a Manchester insieme ad Angus Lloyd la famosa firma di moda Henri Lloyd.
Henryk Strzelecki è tornato due volte a Castel Bolognese tra gli anni ’90 ed i primi del presente secolo ed entrambe le volte si è recato dal fotografo Angelo Minarini a cercare foto di guerra e dall’allora Arciprete mons. Dall’Osso per consegnare una somma “in riparazione” dei danni da lui causati al campanile.
Naturalmente nel dopoguerra si pensò sia alla ricostruzione del campanile, sia alla fusione di un nuovo concerto di campane.
Lascio quindi la parola a don Garavini che così annota sulla cronaca parrocchiale.

1949: fusione delle campane

“Nella primavera di quest’anno, dietro le insistenze dell’arciprete fervono i lavori delle nuove campane presso la Ditta Brighenti di Bologna. Sarebbe stato vivo desiderio anche della popolazione di averle per Pasqua, o almeno per la visita della Madonna Pellegrina (B. V. del Piratello) che dal 5 marzo è in giro per le parrocchie della diocesi verso la bassa imolese, e il 24 aprile – domenica in albis – giungerà fra noi per restarvi fino all’altra domenica 1° maggio. Ma è un sogno impossibile ad avverarsi data la lentezza dei lavori e la ristrettezza del tempo”.

1949: inaugurazione delle nuove campane dell’arcipretale

“Ciò che era sembrato da principio un sogno sta per diventare consolante realtà. Le campane che non si sono potute avere né per Pasqua né per la “Peregrinatio Mariae” si avranno per le tradizionali Feste di Pentecoste. L’Arciprete fa continuamente la spola tra Castel Bolognese e Bologna dove è la ditta Cav. Giuseppe Brighenti fonditrice, per sollecitare i lavori inceppati sempre con mille pastoie burocratiche. Finalmente le 4 campane che pesano q.li 5,19 la maggiore, 3,67 la seconda, 2,64 la terza, 1,62 la piccola, arrivano fra la curiosità di molti castellani sul tardi del sabato sera 28 maggio 1949. Nel centro della chiesa si è già apprestata una grandiosa armatura che prende in lunghezza tutto lo spazio della navata centrale e con grandi sforzi vi vengono sospese per la Consacrazione del giorno dopo.
La prima ha scolpite all’esterno le immagini del Sacro Cuore di Gesù, della B. V. della Cintura protettrice, di San Petronio Patrono principale e San Michele Arcangelo con le seguenti epigrafi: “Conflatum A. MDCCCXVI sumptu sac. Francisci Favolini – Destructum immani bello a. MCMXLIV – denuo fundor in honor S.S. Cordis Jesu Mariae a Cingulo – Petronii Episc. Castri Bonon. Patr. Max. Michaelis Princ. Mil. coel. – et in obsequium erga Fratres Scardovi huius eccl. benefact. A. MCMXLIX tempore belli A. D. MCMXL – MCMXLV – Restitutum publico sumptu A. D. MCMXLVIIII – Opus Eq. Caesaris Brighenti Bononiensis”. Per la verità, siccome l’ultima parte dell’epigrafe dove dice: “Ablatum tempore .. etc” aggiunta in tutte le campane per ordine dello Stato potrebbe far credere che le campane vecchie siano state requisite come tante altre del paese, quelle di S. Petronio salvate dalla requisizione caddero dentro la tromba del campanile crollato per colpi di granate, sbriciolandosi la seconda, i frantumi della quale volarono in tutte le parti e salvandosi solo la quarta. Era stato requisito solo il campanello. Quindi il particolare a cui allude l’ultima parte dell’iscrizione è un errore storico.
La seconda ha le immagini del SS. Crocifisso, della B. V. del Rosario, di Sant’Antonio da Padova e di San Francesco di Paola, e la la seguente epigrafe: “Refectum A. MLCCCXVI Add. novo aere sumptuq. Sac. F. Favolinii – Tormenti bellici ictibus confractum A. MCMXLIV – Terbio Res Publica Italica me fudit in hon. Crucifixi D.N.J.C. – B.V. a Rosario Antonii Pat. Francisci Paul. – et in memoriam observantiae erga fratres Dalpane benefact. A. MCMXLIX – Ablatum … etc. come sopra”.
La terza ha le immagini dell’Addolorata, di San Giuseppe, di San Domenico e San Luigi Gonzaga, e la seguente epigrafe: “A. MDCCCXVI me fudit piets sac. F. Favolinii – bellum saeviss. comminuit dispersit – Res Publica Italica restituit – in hon. B.V. Perdolentis – Joseph univ. eccl. patr. Dominici patris Aloisii Gonz. – A. MCMXLIX”.
La quarta ha le immagini della B. V. di Lourdes, Sant’Antonio Abate, Sant’Agnese, Santa Teresa del Bambin Gesù e la seguente epigrafe: “Fusum A. MDCCCXVI impensa sac. F. Favolinii – e ruinis post bellum eductum reficior iterumq. tinnio – in hon. Dominae Nostrae a Lourdes nuncup. – Antonii Senioris Agnetis V.M. Theresiae a Jesu infante A. MCMXLIX” il resto come nelle altre.
La domenica 29 maggio è stato un continuo via vai di visitatori e intanto fervevano i preparativi della solenne benedizione che avrebbe avuto luogo verso sera. L’armatura si è adornata a profusione di frasche verdi e di fiori e la cerimonia ha avuto inizio sulle 18.30 dopo la solita funzione eucaristica. Particolari: le recite di molti salmi come nel Pontificale Romano fatta dal Vescovo coadiutore coi numerosi sacerdoti intervenuti anche dalle parrocchie vicine, la benedizione del sale e dell’acqua, la lavanda dei bronzi all’interno e all’esterno, le unzioni col S. Crisma e con l’Olio degli infermi con l’imposizione dei nomi, il profumo d’incenso nei bracieri sottostanti le campane e il discorso finale pronunciato dal Vescovo Coadiutore in abiti pontificali sul pergamo davanti ad una folla strabocchevole. La letizia per lo storico avvenimento si leggeva sul volto di tutti. Fungevano da padrini gl’insigni benefattori Sigg. Vincenzo Scardovi e Giuseppe Dalpane in rappresentanza anche dei loro fratelli. Nei giorni seguenti è stata calata la quarta campana del vecchio concerto, estratta come già detto nella cronaca della guerra dalle macerie del campanile, e dati gli ultimi tocchi al castello di sostegno pian piano ha avuto luogo l’innalzamento dei nuovi bronzi. Il giovedì sera 2 giugno erano già a posto e la sera seguente dopo l’ora di notte si è udito all’improvviso il primo doppio seguito da molti altri fin verso mezzanotte. È stata un’esplosione incontenibile di gioia in paese e in campagna. Molti che già si erano coricati, usciti d’un balzo dal letto e vestitisi in fretta sono usciti nelle vie a scambiarsi i più animati commenti e favorevoli impressioni. Il sabato 4 e nel Triduo di Pentecoste è stato un continuo scampanio a mezzo di squadre venute da altre parrocchie e perfino da Bologna. Dalla stessa città la domenica ha fatto pure una scappata il fonditore Cav. Cesare Brighenti per constatare sul luogo l’effetto. Ci auguriamo che le nuove campane non abbiano a subire l’oltraggio toccato alle vecchie.
In tutte le epigrafi si è voluto ricordare il benemerito Don Favolini a spese del quale fu fatto il vecchio concerto nel 1816.
Per la cronaca riportiamo il testo dell’epigrafe appesa per la circostanza sopra la porta centrale del tempio: INTONATE CONCORDI – O CRISTIANI – COL NUOVO ARMONICO CONCERTO – DI CAMPANE – L’INNO DI GRATITUDINE – A – MARIA IMMACOLATA – AUSPICANDO – AL NOSTRO CARO CASTELLO – DAL PATROCINIO DI TANTA MADRE – PROSPERITÀ E PACE.

E questo inno di prosperità e pace sta ancora risuonando dopo settant’anni e, si spera, ancora per tanto, tanto tempo ancora.

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Palazzo Mengoni: da sessant’anni nuovo municipio (1958-2018) https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/palazzo-mengoni-sessantanni-municipio-1958-2018/ https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/palazzo-mengoni-sessantanni-municipio-1958-2018/#respond Fri, 16 Mar 2018 22:01:27 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=6335 di Paolo Grandi L’attuale Palazzo Mengoni nacque come convento dei Francescani Minori Conventuali e tale rimase fino alle soppressioni napoleoniche. Il suo utilizzo successivo fu prevalentemente quello scolastico anche se, pochi anni dopo la requisizione, lo si propose anche come nuovo ospedale. Nel frattempo l’architetto Giuseppe Mengoni, castellano per parte …

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di Paolo Grandi

Palazzo Mengoni poco dopo la fine dei restauri in una cartolina dell’epoca (collezione Andrea Soglia)

L’attuale Palazzo Mengoni nacque come convento dei Francescani Minori Conventuali e tale rimase fino alle soppressioni napoleoniche. Il suo utilizzo successivo fu prevalentemente quello scolastico anche se, pochi anni dopo la requisizione, lo si propose anche come nuovo ospedale. Nel frattempo l’architetto Giuseppe Mengoni, castellano per parte della madre Valeria Bragaldi, figlia di Giovanni Damasceno, ne ingentilì la facciata sulla Piazza Bernardi (allora Piazza Maggiore). Sfruttando la particolarità del chiostro addossato alla piazza, lo aprì creando un bel porticato, slanciato ed arricchito nella parte superiore da belle finestre incorniciate e da un balcone in pietra. Trasformò inoltre un abbozzo di torretta presente verso la chiesa di San Francesco, rendendola più armonica e replicandola nell’angolo opposto con via Ginnasi. Il complesso non subì ulteriori e radicali aggiustamenti fino alla seconda guerra mondiale, quando il palazzo fu pesantemente colpito dai bombardamenti.
Dalla parte opposta della piazza Bernardi, all’angolo con la Via Emilia, sorgeva invece il Palazzo Comunale, un bell’edificio settecentesco opera dell’architetto Domenico Trifogli che chiudeva la piazza, riducendola in ampiezza, fin verso l’incrocio con Via Gottarelli e Via Rondanini. Anche questo palazzo uscì malconcio dalla guerra poiché il portico, minato dai tedeschi in ritirata, crollò trascinando con sé gran parte della facciata sulla via Emilia. Sarebbe stato tuttavia riparabile.
L’amministrazione comunale del dopoguerra, preso atto delle distruzioni avvenute in Piazza Bernardi che avevano raso al suolo la torre e la chiesa del Suffragio e sull’onda della necessità, già espressa dalle amministrazioni dell’anteguerra di “dare più respiro alla piazza”, stabilì di abbattere il Palazzo Comunale e di portarne altrove gli uffici. Si decise infine di riparare Palazzo Mengoni per ospitare, in un futuro, il Municipio che nel frattempo trovò posto nell’ex Palazzo Pretorio, poi trasformato in Casa del Fascio con il rifacimento della facciata di Via Garavini e la creazione del doppio portico progettata da Ubaldo Galli.

1954: lavori di restauro di Palazzo Mengoni. A destra Giuseppe Baldassarri (detto Babbo), marito di Rosina Borghesi (Rosina de pitor) (foto Minarini, collezione Andrea Soglia)

Palazzo Mengoni quindi fu sottoposto ad un pesante restauro che previde l’intero abbattimento e rifacimento del piano e del coperto, la definitiva separazione dell’ex convento dalla sua chiesa, il trasferimento dello scalone (che si trovava in fondo al chiostro) in una delle due torrette e, soprattutto, il raddoppio del portico lato Piazza Bernardi come suggerito da Nicola Utili in un suo modellino nel quale, oltretutto, aveva progettato di ospitare l’orologio pubblico in una terza torretta da elevarsi al centro della facciata. I lavori si protrassero per qualche tempo.
Così il Consiglio Comunale del 28 giugno 1958 votò all’unanimità un ordine del giorno ove il ricostruito Palazzo Mengoni, del quale, si apprende, stavano terminando i lavori di ricostruzione, sarebbe stato destinato ad ospitare la sede degli Uffici Comunali. Tra le motivazioni quella che “Il Palazzo Mengoni, ricostruito integralmente nelle sue linee architettoniche, si presta a degna sede della Residenza Municipale sia per l’aspetto maestoso dell’edificio e per la sua ubicazione e sia per l’ampiezza, disponibilità e funzionalità dei suoi locali, rispondenti pienamente alle esigenze degli uffici e servizi comunali”.
Nell’ex Palazzo del Fascio, qualche anno dopo, fu ospitata la nuova Scuola Media, anzi allora ancora chiamata “Scuola di Avviamento professionale” aperta a Castel Bolognese nei primi anni ’60 come succursale della scuola “Strocchi” di Faenza, poi divenuta autonoma, che vi rimarrà sino all’apertura del nuovo edificio scolastico di Via Giovanni XXIII opera dell’architetto lughese Vincenzo Gianstefani.

Busta del Comune di Castel Bolognese utilizzata nella nuova sede di Palazzo Mengoni. Qualche anno dopo l’immagine di Palazzo Mengoni sarà sostituita da quella della Torre Civica (collezione Andrea Soglia)

Contributo originale per “La storia di Castel Bolognese”.
Per citare questo articolo:
Paolo Grandi, Palazzo Mengoni: da sessant’anni nuovo municipio (1958-2018), in https://www.castelbolognese.org

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I derelitti di Angelo Biancini, Monumento alle vittime civili di guerra https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/derelitti-angelo-biancini-monumento-alle-vittime-civili-guerra/ https://www.castelbolognese.org/edifici-e-monumenti/derelitti-angelo-biancini-monumento-alle-vittime-civili-guerra/#respond Sun, 08 Oct 2017 22:19:21 +0000 https://www.castelbolognese.org/?p=6109 (a cura di Andrea Soglia) Non tutti sapranno che la bella fontana, posta al centro del chiostro del municipio di Castel Bolognese, costituisce il Monumento alle vittime civili di guerra ed è stato il primo monumento castellano in ordine di tempo a ricordare le tragedie belliche ed in particolare le …

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(a cura di Andrea Soglia)

Vista panoramica della fontana (foto tratta dal sito castelbolognesenews.eu)

Non tutti sapranno che la bella fontana, posta al centro del chiostro del municipio di Castel Bolognese, costituisce il Monumento alle vittime civili di guerra ed è stato il primo monumento castellano in ordine di tempo a ricordare le tragedie belliche ed in particolare le centinaia di morti e feriti fra la popolazione civile castellana.
Il monumento fu inaugurato il 24 novembre 1962 ed è stato riqualificato una decina di anni fa, quando la preesistente fontana fu inserita all’interno di una vasca esagonale.
Il complesso scultoreo che lo compone, denominato “I derelitti”, fu donato ed ideato dallo scultore castellano Angelo Biancini. E’ composto da due figure in bronzo di fanciulli seduti e raccolti su sè stessi, disposti diagonalmente sulla superficie di un basamento quadrato in travertino scabrato. La figura a sinistra misura cm 60×70, quella di destra cm 55×65 mentre il basamento misura cm 32x188x188.
“I derelitti”, già presentati a Milano nel 1956, costituiscono la rielaborazione di due diversi lavori realizzati da Biancini nel 1942 e oggi conservati a Roma presso la Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea: “Il derelitto del Senio” e “Il povero”, due sculture molto importanti nella produzione di Angelo Biancini, su cui numerosi critici si sono espressi. Riportiamo due brevi giudizi, uno di Sergio Baroni, che definisce “Il povero” “un’icona dell’innocenza disarmata di fronte agli orrori della guerra” e l’altro tratto da Vita e Pensiero, vol. 31, 1948, che a proposito del “Derelitto” scriveva “Una nota di poesia è data dalla sensibile scultura di Biancini, specie il bimbo derelitto il cui scheletro affiora doloroso sotto l’involucro stento dell’epidermide mentre la grossa testa reclina spira l’incapacità triste di rendersi conto del dramma, egli che pure è un ciotolo lasciato sul greto dalla fiumana che è trascorsa“.
All’inaugurazione del Monumento alle vittime civili di guerra presenziarono numerose autorità, fra i quali il Ministro della Marina mercantile on. Cino Macrelli, il senatore faentino Guglielmo Donati e il prefetto di Ravenna Eduardo Zappia. Angelo Biancini, che, come si legge sull’invito alla cerimonia aveva offerto ai concittadini il gruppo scultoreo, accompagnò poi le autorità ad una mostra collettiva di artisti castellani che si teneva nella chiesa di Santa Maria della Misericordia.
La riqualificazione del monumento aveva parzialmente nascosto la scritta “Alle vittime civili di guerra, i concittadini memori, 1945-1962”, che era originariamente stata posta sul pavimento del chiostro, e che era divenuta osservabile all’interno della vasca esagonale ma chiaramente leggibile solo quando la vasca era vuota o con acqua perfettamente pulita. Nella primavera del 2020 il fondo della vasca è stato rialzato per motivi di sicurezza e ciò ha portato la scritta quasi a pelo dell’acqua, rendendola più facilmente individuabile. Non sarebbe male, però, se nei pressi della fontana fosse posta una targhetta con il titolo e l’autore dell’opera, analogamente a quanto fatto per le varie sculture che compongono il Museo all’aperto Angelo Biancini, di cui “I derelitti”, per i motivi sopra esposti, sono uno dei pezzi di maggior significato.

L’inaugurazione del Monumento. Alla destra di don Giuseppe Sermasi il senatore Cino Macrelli, allora ministro della Marina Mercantile e il sindaco dell’epoca, Reginaldo Dal Pane (foto tratta dal volume “Uomini e cooperazione di credito fra due vallate”).

Copertina dell’invito all’inaugurazione del Monumento

Interno dell’invito all’inaugurazione del Monumento

 

Il monumento durante la nevicata della sera del 26 febbraio 2018 (foto di Ivan Morotti gentilmente concessa per il sito castelbolognese.org)

Bibliografia essenziale:
Angelo Biancini, le forme della scultura, Castel Bolognese, 1994

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