Domenico Minardi (1923-2002)
Domenico Minardi un cantore della vita. Ha amato la cultura romagnola più della filosofia.
Venerdì 15 marzo tanti castellani hanno data l’estremo saluto a Domenico Minardi nella chiesa di San Petronio. Ha celebrato il cardinale Achille Silvestrini, romagnolo schietto, che ha sempre coltivato i legami di amicizia con gli ex compagni del Liceo Torricelli di Faenza: una combriccola di ex studenti, oggi settantottenni, fedele alla bella tradizione di ritrovarsi periodicamente. Tra i castellani quella scolaresca contava, oltre a Domenico Minardi, Rosalba Martini, Tinetta Zanelli, Domenico Bosi, Gastone Raccagna. Il cardinale conosce ad uno ad uno i suoi compagni e non manca mai, nei momenti dell’addio, di ricordarli con umanità e vivo rimpianto. Cosi ha fatto per Minardi, toccando le corde delle poesie in dialetto, in cui il castellano lasciava sfuggire le sue confidenze più sincere. Domenico Minardi era conosciuto per la professione, prima, di veterinario, poi, di insegnante nella locale scuola media, ma lo era ancor di più per la conversazione briosa e la battuta di spirito.
L’apparente sicurezza di sé nascondeva i sentimenti prevalenti nel suo mondo interiore: i teneri affetti famigliari, l’avvertenza della umana fragilità, il timore delle insidie a cui siamo esposti, il compiacimento per tutto ciò che dà vitalità.
Era orgoglioso di avere le radici in questo paese e nella sua gente: un vecchio castellano, come altri rimasti ormai in minoranza, che avvertivano smarrimento della propria identità nei cambiamenti della vita di oggi.
Molti lo hanno conosciuto meglio da vicino quando, poco più di un anno fa, fece un brillante intervento al Trebbo del Vernacolo Romagnolo organizzato nel Centro Sociale Castellano. Recitò, tra l’altro, il suo “Quand ‘ca semia burdél”: “Era bello rincorrere il treno a vapore che, fischiando, si perdeva in fondo alla strada, era bello nel silenzio della notte cantare, sognando di essere divenuti dei re. Dopo tanti anni, contando quei ragazzi, mi sono accorto che ne manca qualcuno, l’ha portato via, credo, colui che ci strappa da questa terra ad uno ad uno”.
La ricordanza era, per Domenico Minardi, espressione di gratitudine al vecchio Castello e al valori che esso ha impresso in tante generazioni, ma era anche un plauso alla giovinezza in cui si esalta la vita:
“… Ricordo che in alto, sulla capanna, c’era un pezzo di latta con su stampato un cuore: il cuore dei ragazzi della mia Romagna, che dopo morti tornano a vivere”.
Domenico è morto a conclusione di una prolungata sofferenza, che non avrebbe augurato a se stesso e ad altri. Il destino ha voluto così, forse perché risaltasse il suo inno ai ragazzi nei quali sentiva battere il suo stesso cuore: un inno alla vita, che egli ha tanto amato, nella certezza della sua continuità oltre la morte.
Stefano Borghesi
Testo tratto da “Il nuovo diario messaggero” del 23 marzo 2002.
Proponiamo di seguito il testo di due poesie in dialetto di Domenico Minardi, pubblicate nel volumetto Quand’ ca semia burdel: poesie dialettali romagnole stampato nel 1981 e una rara registrazione audio della voce di Domenico Minardi intento a recitare le due poesie durante la serata del Folklore castellano tenuta il 23 marzo 1976 nell’Auditorium della Biblioteca comunale.
CampagnaUna bicocca fatta da cent’anni, |
CampagnaUna bicôca fàta da zènt’ènn, una pajéra cun du bus ‘te’ mëz, Miséria! a j’ho pinsê, malincunèja: La vëcia, a sdé, la fila la su róca, e’ su ragàzz che, stés int’ la spagnéra, |
A mia figlia
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A la mì FiòlaA t’ho aspité int’una matèna ‘d’mazz A j‘ho svulè par te al fôl pió bèli A t’ho prumess quel ch’j’è ‘d pie bèl a e’ mond Adëss c’e’ granda a t’ho da dir un quël |
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