Primi piani: Angelo Biancini
(introduzione) Vi proponiamo, con il consenso del figlio Cesare, un ritratto davvero particolare di Angelo Biancini, scritto sul Carlino da una penna illustre, quella di Roberto Gervaso, che era amico di Biancini sin dai tempi delle frequentazioni con Orio Vergani. E’ un ritratto di Biancini uomo in cui tanti castellani ritroveranno il Biancini che ricordano ancora oggi. Gervaso naturalmente esagera ironicamente le abitudini di Anzulé e certe situazioni, che sono però tutte realmente accadute: chi non ricorda, infatti, il Biancini autostoppista e il suo inseparabile sigaro?
Arricchisce il testo, del 1974, una fotografia scattata da Giorgio Giovannini (per la quale ringraziamo Domenico Giovannini) durante la Pentecoste dello stesso anno che ritrae Biancini, davanti al Bar Commercio, in mezzo ai castellani. D’altronde, come scriveva Gervaso, Biancini “conosce tutti e tutti conoscono lui. A tutti dà del tu e tutti lo danno a lui”. Bellissima, infine, ci sembra l’immagine di Anzulé, talmente appassionato del suo lavoro, che “scolpisce anche quando dorme”. (A.S.)
di Roberto Gervaso
tratto da Il Resto del Carlino, giovedì 7 novembre 1974
Tempo fa, Angelo Biancini, meglio noto come Anzulé, fu invitato a commemorare Michelangelo. La cerimonia era stata fissata per le quattro del pomeriggio a Caprese, dove il Buonarroti nacque. Alle quattro meno un quarto tutte le autorità, con in testa Fanfani, erano già sul posto. Mancava solo Anzulé. Cosa gli era successo? Qualcuno avanzò l’ipotesi che l’auto su cui viaggiava fosse rimasta in panne. Altri il timore che si fosse dimenticato dell’appuntamento. Niente di tutto questo.
Dalla sua casa di Castel Bolognese, in quel di Imola, Angelo, memore dell’impegno pomeridiano, era partito all’alba, naturalmente in autostop, suo unico mezzo di locomozione. Ad Anghiari s’era fermato per mangiare un panino e bere un bicchiere di vino. Ma il panino era diventato una doppia porzione di riso e fagioli, una bistecca alla fiorentina per quattro, un’insalata mista per sei, una fetta di castagnaccio per otto, il tutto innaffiato da un paio di fiaschi di Chianti e alcuni grappini. Alla fine del pantagruelico pasto Anzulé fu assalito da una tale ceccagna che decise di farci su una dormita. Il trattore gli mise a disposizione un bugigattolo, adibito a ripostiglio, dove spiccava una sgangheratissima branda.
A quella vista, gli occhietti furbi e fanciulleschi di Biancini s’illuminarono come se, invece d’un traballante e bisunto giaciglio, gli fosse apparsa la Madonna di Lourdes o Sophia Loren. Non fece in tempo a sdraiarsi che le palpebre gli s’abbassarono e la bocca gli si aprì, anzi gli si spalancò. Quando, dopo tre ore si svegliò, per quanti sforzi facesse, non riusciva a capire dov’era e, soprattutto, perché si trovava in quel buio e polveroso anfratto. Si stropicciò gli occhi, accese un sigaro e, per una decina di minuti, restò lì, come imbambolato. Non era la prima volta — e non sarà nemmeno l’ultima — che gli capitavano simili infortuni.
Ripresa, finalmente, conoscenza, saltò giù dalla branda, infilò la porta, scese a precipizio le scale e, smoccolando, abbordò il primo mezzo diretto a Caprese. Arrivò a destinazione alle cinque accolto da un silenzio gelido e da sguardi riprovatori. Agitando con una mano il sombrero, che porta in tutte le stagioni e a tutte le latitudini, e con l’altra l’inseparabile toscano, Anzulé guadagnò di corsa la tribuna e si piantò davanti al microfono. Poiché nel viaggio aveva perduto gli appunti, dovette parlare a braccio. Non ricorda quel che disse, perché lo disse sotto i fumi dell’alcool, che non aveva ancora completamente smaltito. Ricorda solo che ebbe un gran successo, un mucchio d’applausi e il perdono generale.
Come avrebbero potuto negarglielo? Di Biancini non si può non essere amici. A Castel Bolognese, dove è nato e vive, è ormai un’istituzione. Anzi, un nume tutelare, un santo patrono. Conosce tutti e tutti conoscono lui. A tutti dà del tu e tutti lo danno a lui. Quando passa per le strade o attraversa la piazza, salutando a destra e a manca, lanciando occhiate nient’affatto furtive alle donne, fissando appuntamenti in questo o quel caffè per una partita a scopa o a tressette, commentando ad alta voce il goal di Riva o la volata di Gimondi, come se Riva o Gimondi fosse lui, lo diresti più un discendente del Passatore che un emulo di Michelangelo.
Il suo trombone è lo scalpello e non manca mai il bersaglio. Cominciò a maneggiarlo da ragazzo, per consolarsi di non poter lavorare nei campi o spignattare in cucina. Avrebbe, infatti, voluto fare il contadino, come il bisnonno, o il cuoco, come il nonno, famoso alla corte sabauda per i suoi tortellini e il suo pollo alla cacciatora. Da allora non l’ha più deposto. Lo tiene in tasca, come un talismano, fra banconote, santini, toscani e mille altre cianfrusaglie.
E’ un lavoratore caparbio e incontentabile. Gli allievi dell’Istituto di Ceramica di Faenza, questa Sorbona romagnola, di cui è direttore artistico, lo temono quasi quanto lo amano. Esigentissimo con sé stesso, non lo è meno coi discepoli. Quando sbagliano, le sue urla trafiggono le mura dell’Istituto investendo la vicina piazza. Chi non ne conosce la causa, potrebbe pensare che qualcuno, colto da improvvisa follia, stia consumando un delitto o uno stupro. E, invece, è Anzulé, fuori di sé per un’argilla cotta male o un bronzo mal cesellato. Ma le sue ire, per fortuna, sbollono subito. Dopo un paio d’ululati, conditi d’irriferibili moccoli, Anzulé diventa più affettuoso e compagnone di prima. L’unica cosa che non torna come prima è la glicemia, la quale sale a picco al di là d’ogni limite di guardia.
Se la porta addosso da una ventina d’anni come da una ventina d’anni, a giudicare almeno dallo sfrittellamento e dalla ciancicatezza, porta addosso il completo “bianco”, confezionatogli, dice lui, dal migliore sarto di Castel Bolognese, che, se s’intona col sombrero di paglia, fa a pugni con uno sbrindellatissimo maglioncino marrone e un paio di sandali frateschi, dal colore indefinibile. Quand’è stanco — e la sera, dopo dodici ore di bulino — è stanchissimo, si dimentica perfino di spogliarsi. Si corica vestito, con le mani ancora impastate d’argilla e il sigaro acceso, che la moglie gli spegne, appena s’addormenta.
La mattina s’alza alle quattro e mezzo e alle cinque è già fuori coi cani, un barboncino e un lupo, che personalmente accudisce e sfama. Vanno insieme a prendere il “Carlino”, poi si dirigono verso il parco o lo scalo ferroviario, a seconda della stagione. Letto il giornale, riporta i cani a casa e comincia l’antelucano pellegrinaggio ai vari bar del paese. Sosta in tutti, meno uno, gestito da una donna con la quale ha litigato. E in tutti beve un caffè, un grappino o un sangiovese. Con quali conseguenze per il diabete ve lo lascio immaginare. Se gli capita, fa anche una partitina a scopa ma, a quell’ora, è difficile che gli capiti.
Alle cinque e mezzo, con in bocca il terzo sigaro della giornata, si piazza ai bordi della via Emilia, in attesa che qualche automobilista gli dia uno strappo sino a Faenza. Una volta ci andava in bicicletta, ma da quando un camion di Foggia, carico di mozzarelle, per poco non lo travolse, preferisce l’autostop. Sale sulla prima macchina e in dieci minuti è a Faenza. Altri dieci li passa nel bar di fronte all’Istituto d’arte dove, fra un altro caffè e un altro grappino, fuma un altro sigaro: il quinto, perché il quarto l’ha fumato nel tragitto fra Castel Bolognese e Faenza.
Alle sei in punto varca la soglia della scuola e alle sei e cinque è già al lavoro. Si toglie la giacca, infila lo spolverino e, con piglio michelangiolesco, comincia a dar di scalpello. Per raddoppiare la foga, quasi che i grappini ingurgitati non gliene avessero infusa abbastanza, si mette a cantare a squarciagola l’”Aida” o il “Trovatore”, svegliando non solo i custodi della scuola, ma tutti i vicini. La glicemia nuovamente gli sale, ma lui non ci bada: vorrà dire che, invece d’una doppia porzione di tortellini, ne mangerà una e mezzo, invece di due fiaschi di trebbiano, s’accontenterà di uno. Alle nove comincia le lezioni. Alle nove e cinque leva le prime urla. A mezzogiorno riprende la via di casa, sempre in autostop, e dopo essersi sorbito un ennesimo grappino e fumato un ennesimo sigaro.
Alle tre è di nuovo all’Istituto, dove resta fino alle sette. Il tempo per sfornare un altro capolavoro, lanciare altre urla, fumarsi un’altra dozzina di sigari e, fra un urlo e un toscano, bersi un altro gotto di sangiovese o di trebbiano. Quando, finalmente, dopo una cena, che lui definisce frugale perché di pasta e fagioli ne mangia solo un piatto e di vino ne beve solo un fiasco, si corica, la glicemia ha allegramente doppiato il livello di guardia. Un altro, al suo posto, sarebbe già in pieno coma diabetico. Biancini no. Lui è fra le braccia di Morfeo, e russa così fragorosamente che la moglie, i vicini e persino il pappagallo e i cani non riescono ad addormentarsi.
I suoi sogni sono invariabilmente ambientati in una vecchia trattoria, in questo o quel bar, nelle aule dell’Accademia. Sì, perchè Anzulé scolpisce anche quando dorme. La sua passione per il bronzo, l’argilla, il bulino non l’abbandona mai. Ce l’ha nel sangue e ce l’ha così prepotente che nemmeno la glicemia riesce a domarla, o anche solo a smorzarla. Lui il diabete lo combatte — e lo vince — senza medicine. Un buon colpo di scalpello, e quelli di Biancini sono infallibili, gli fa meglio di cento dosi d’insulina.
Quanti ne dia, ogni giorno — e ogni notte — non so. Quel che so è che le sue opere — ceramiche e bronzi — hanno fatto, e fanno, il giro del mondo; che non c’è collezionista, degno di questo nome, che non ne possieda almeno una; che la galleria d’arte moderna del Vaticano ne trabocca; che il Papa gli ha affidato, e gli affida, commissioni su commissioni (il monumento a San Tommaso d’ Aquino l’ha fatto lui).
Se Anzulé fosse nato al tempo del Vasari, un posto di proscenio nelle Vite non gliel’avrebbe tolto nessuno. Ma, forse, è meglio che sia nato in questo secolo. Come avremmo altrimenti potuto fare la sua conoscenza, godere i suoi capolavori e udire, passeggiando per Faenza, le sue urla e i suoi “do” di petto?
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