Alessandro Pallantieri (1530?-1610)
Fondatore del Collegio
Non ci sono giunte notizie biografiche del munifico fondatore del Collegio Universitario bolognese. Possiamo solo indicare due date: 10 maggio 1610 giorno in cui Alessandro Pallantieri figlio di Carlo, il quale ultimo potrebbe identificarsi col Carlo maestro d’arme a sua volta figlio del Governatore di Roma, lascia le sue ultime volontà per lo strumento rogato dal notaio Domenico Bussarini, 31 maggio 1610 giorno del decesso. Non sappiamo quanti anni abbia vissuto; il notaio lo dice “sanus Dei omnipotentis Gratia, mente, et intellectu, ac sensu, licet tamen corpore aegrotus”, malattia questa che potrebbe essere stata causata dalla vecchiaia. Possiamo supporre che il Pallantieri avesse dai sessanta agli ottanta anni e che pertanto possa essere nato tra il 1530 ed il 1550. Fu per tutta la vita alto funzionario del governo Pontificio, ricoprendo la carica di Governatore a Meldola, Verucchio e Imola (dopo il 1571), nominato poi Commissario Generale di tutto lo Stato di Alberto Pio (Ducato di Carpi). Si sposò due volte: la prima moglie fu Francesca Naldi; morta costei, nel 1606 sposò Ersilia Serughi, figlia di Ugo Serughi e di Lucrezia Ginnasi sorella del cardinale Domenico. Da nessuna delle due mogli il Pallantieri pare avesse figli viventi al momento della redazione del testamento: viene nominato infatti erede il figlio del cugino Giorgio, Achille il quale aveva all’epoca appena tre anni.
La mancanza di notizie biografiche non permette di conoscere il motivo di un singolare lascito quale fu quello del Collegio. Si può solamente supporre che dietro quel legato vi fossero motivi correlati al lustro che il Pallantieri voleva perpetuare per la sua famiglia, ovvero il voler imitare altri consimili esempi che aveva visto nella sua vita a Bologna o in Italia. Proprio questo legato costituisce la parte principale del testamento nella quale Alessandro Pallantieri vuole che quattro giovani della sua famiglia possano essere ospitati per studiare in Bologna, in una casa da comprarsi a spese dell’eredità. La caratteristica di essere un’istituzione ad esclusivo servizio di una famiglia differenzia il Pallantieri dagli altri collegi universitari bolognesi.
“Si compri in Bologna una Casa di valore di mille scudi da lire quattro l’uno lasciando ad arbitrio degli inf.ti S.S. Commissarj di poter anche spendere lire mille di più, o di meno, conforme alla comodità, e sito che trovarassi, e quella fornire delle massaritie necessarie, e opportune per le camere, come anco de’ rami, e ferri per uso della cucina, e de Vaselli per la Cantina abastanza per servizio delle infrascritte bocche.”
Bologna, Via San Petronio Vecchio. Al posto di questi edifici sorgeva un tempo la casa del Collegio Pallantieri.
Pianta del centro di Bologna: in evidenza la sede del Collegio.
L’esecutore testamentario card. Domenico Ginnasi ed il suo rappresentante a Castel Bolognese Ugo Gottarelli impiegheranno tuttavia ben tredici anni prima di trovare una casa adatta ad ospitarvi il collegio ed essa, situata in una via di Bologna all’epoca piuttosto isolata e comunque lontana dallo Studio: la via San Petronio Vecchio, trasversale di via Guerrazzi, un tempo Cartoleria Nuova, che termina in via Fondazza, costerà ben quattromila lire, senza la spesa per l’arredamento, nonostante più volte il Cardinale si fosse raccomandato di non spendere più di duemila lire, stante l’esiguità dell’asse ereditario. L’esorbitante spesa costrinse gli amministratori ad intaccare altri beni già di proprietà del de cuius; la cosa sollevò le ire della famiglia Pallantieri tanto che gli Assunti di Governo di Bologna, chiamati dal Testatore ad amministrare il Collegio, dovettero ricorrere agli Avvocati, i quali risposero che la disposizione riguardante la fondazione del Collegio era predominante nel testamento e, pertanto, occorreva comunque portarla a termine anche a spese degli altri beneficiati. La decisione, se portò alla fondazione del collegio, provocò una definitiva frattura tra gli Assunti di Governo e la famiglia Pallantieri che si sentirà d’ora in poi defraudata dei beni ereditari e spenderà ogni energia nel corso di due secoli per rientrarne in possesso.
Dal 1623 dunque il Collegio prende vita; probabilmente negli anni precedenti il beneficio era stato assegnato distribuendo somme a titolo di borsa di studio. In quell’anno invece entrarono i primi studenti che furono i figli di Lodovico e di Baldassarre Pallantieri: si tratta, rispettivamente, di Tiberio (Castel Bolognese 1610) ed Africano (Castel Bolognese 1611). A servir loro in quella casa che alla stretta facciata su via San Petronio Vecchio, ove peraltro terminava il portico, corrispondeva un lungo budello che si protendeva fin ad una roggia adibita a scolo delle acque fognarie; in quel minuscolo spazio ove si susseguivano strette camere, angusti corridoi e buie corti, v’erano l’economo e la cuoca. Agli scolari spettava una camera ciascuno; un soggiorno per la mensa e la cucina erano le uniche stanze comuni agli studenti. In cantina, alcune botti conservavano il vino che, di buona qualità, non doveva mancare sulla tavola degli scolari, per ordine del testatore.
Pianta del Collegio Pallantieri.
Non era facile la vita degli scolari: disciplina, applicazione nello studio, ordine morale e spirituale, frugalità nel cibo erano le regole cui dovevano soggiacere. In parte, queste furono dettate dallo stesso Pallantieri, altre vennero aggiunte di comune accordo tra gli Assunti ed il cardinale Ginnasi. Non si ammetteva l’ignoranza del regolamento: a tal fine ogni ospite era tenuto, al suo ingresso in collegio, a sottoscriverne una copia dei capitoli; un’altra rimaneva affissa in bella vista nell’istituto. Lo studente riceveva una camera arredata con “una lettiera con un pagliarezzo, un tavolino, due, o tre balzole, una cassa, e una scanzia per mettervi sopra i libri”; materassi, coperte, biancheria e vestiario, nonchè la loro pulizia, erano a suo carico: come nei migliori collegi, anche gli scolari del Pallantieri sarebbero dovuti andare vestiti “di longo fino alli piedi, e d’un medesimo colore, e della medesima robba qual deve essere sempre di lana, e vuole che in tutto il tempo che staranno in detta Casa, essi giovani abbino a spese del lassato una veste di sopra, e quando paresse alli suddetti SS. Assonti Protettori che alcuno per qualche accidente, o per molta sua povertà ne avesse bisogno di due in detto tempo, possono essendovi entrata, commandare che siano fatte.” , ma la scarsità di mezzi dell’Istituto non permise mai l’adozione della divisa.
Capitoli e Ordinazioni del Collegio.
In collegio era richiesta una vita moderata ed il rispetto dell’economo; non era permesso portare o tenere con sè armi di qualsiasi genere, sotto pena d’esser cacciati e non poter più venirvi riammessi. “Lo stesso si intenda per chi osasse condurvi donne dishoneste.” Era proibito star fuori dal collegio dopo suonata l’ora di notte, se non per caso molto urgente, “e dormire fori dal collegio senza licenza della Congregazione o del Senatore deputato sotto pena di star senza vitto un mese per la prima volta, la seconda sei mesi, le terza un anno la quarta d’esser cacciati senza poter essere più riammessi.” Per accrescere lo spirito, ed in suffragio del fondatore, quotidianamente gli scolari dovevano riunirsi, nell’ora loro più comoda, per recitare i sette salmi penitenziali “con le Litanie per l’anima di detto Sig. Testatore; e che una volta la settimana in quel giorno che a loro più piacerà adunati insieme unitamente come di sopra dichino e recitino l’Uffizio de’ Morti intiero pregando Iddio che detto Sig. Testatore perdoni i suoi peccati.” Erano inoltre obbligatorie la confessione e la comunione almeno sei volte l’anno. Il vitto quotidiano comprendeva “la mattina una minestra, un antipasto carne ossia formaggio et una frutta e la sera un insalata carne di quella avanzata la mattina e una frutta, mutando di quando in quando le vivande.” Riguardo il riscaldamento, il camino, posto nel refettorio, doveva essere acceso solo dietro il consenso dell’Assunteria, nel tempo e nelle ore da questa decisi. Nel caso in cui vi fosse un solo studente, quella era l’unica stanza riscaldata nella quale lo stesso, giocoforza, era costretto a ritirarsi per studiare, confortato da un minimo di tepore. Diversamente, poteva accendersi il fuoco anche in ogni stanza degli studenti, tuttavia all’economo era vietato dare ad ogni scolaro più di cinque fasci di cavazzadura e due pezzi di legna per giorno. Per l’illuminazione, l’economo ogni sera doveva preparare un lumino per ogni scolaro con olio d’oliva sufficiente per durare il tempo conveniente allo studio, mentre per la tavola doveva servirsi di candele.
L’ingresso degli scolari era fissato per il primo novembre, giorno tradizionalmente d’inizio dell’Anno Accademico; da quel momento decorrevano i cinque anni lasciati allo Studente per laurearsi e per godere dell’ospitalità del Collegio, non laureandosi in tempo od abbandonando gli studi lo scolaro perdeva il diritto all’ospizio con l’obbligo di rifondere tutte le spese sostenute. Diversamente, un laureato nel quinto anno poteva, a sua scelta, restarvi a dozzina per un altro anno, qualora ulteriori studi, tirocinii, o perfezionamenti lo richiedessero. Solamente all’erede era permesso restare ospite del collegio sette anni, senza obbligo per lui di laurearsi entro i cinque.
Alla famiglia Pallantieri era stato lasciato dal Testatore il compito di scegliere gli scolari da ammettere. Come s’è in precedenza detto, il collegio Pallantieri nasce per servizio alla famiglia del fondatore. Gli scolari, maschi, dovevano essere discendenti di Giorgio e Scipione Pallantieri, germani, figli di Achille, notaio, e cugini di Alessandro. Mancando di questi, i beneficiati potevano venire da qualsiasi altra famiglia Pallantieri, purchè residenti ed abitanti a Castel Bolognese; nella ulteriore assenza anche di costoro, erano scelti dalle famiglie Pallantieri che abitavano fuori Castel Bolognese. Nel caso in cui non vi fosse stato alcuno della famiglia, si beneficiavano i giovani di Castel Bolognese a patto che vi fossero nati almeno lui ed il padre. Era tuttavia possibile affiliare altre famiglie alla famiglia Pallantieri; queste avrebbero goduto i pari diritti degli altri maschi della famiglia nel concorso al beneficio. Questa clausola, più d’ogni altra, permise agli eredi di fare della nomina un vero e proprio abuso e, spesso, un mercimonio: nella maggior parte, infatti, gli scolari furono di famiglie aggregate, non solo di Castel Bolognese ma anche di Imola, Faenza e Bologna. Nel settecento, con Pietro Lamberto ed Alessandro la vendita delle aggregazioni diventatò una corsa al miglior offerente, suscitando spesso le ire dell’Assunteria di Governo che lamentava carenza di mezzi per mantenere gli scolari.
Il meccanismo della scelta si basava sulla assemblea di famiglia con a capo l’erede e, quali componenti, Scipione e Giorgio od i loro discendenti maschi di almeno diciotto anni compiuti, e con gli altri maschi di altri rami della famiglia, o discendenti dalla sorella del testatore ed abitanti a Castel Bolognese, di almeno ventidue anni di età; erano esclusi il padre ed i fratelli dell’aspirante, nel caso in cui questi fosse stato un componente della famiglia. L’erede, che poteva presiedere l’assemblea solo a quattordici anni, aveva diritto a tre voti, Scipione e Giorgio od i loro figli a due, i rimanenti ad un voto. Nel palazzo di famiglia, alla presenza di un notaio che, tra l’altro, votava per delega eventualmente ricevuta dai familiari assenti, si doveva tenere la votazione.
Chi ne avesse avuto i requisiti ed avesse voluto concorrere ad un posto nel collegio, si sarebbe dovuto armare di certosina pazienza per sottostare alle rigide regole imposte dal testatore per l’ammissione. Innanzitutto la domanda formale, diretta agli eredi Pallantieri doveva svolgersi sotto forma di atto notarile; ad essa l’aspirante doveva allegare una fede di conoscenza di buoni costumi rilasciata dal Parroco e un certificato di battesimo che dimostrasse, se l’aspirante non era dei Pallantieri, la sua nascita e quella del padre a Castel Bolognese. Depositata la domanda, i Pallantieri, riuniti in adunanza alla presenza del notaio, designavano i prescelti. Copia autentica notarile della delibera, assieme ad un documento rilasciato da un Maestro che certificava l’attitudine allo studio dell’aspirante, doveva da questi essere presentata agli Assunti di governo, a Bologna. Ratificata da parte di costoro la decisione della famiglia, lo studente era tenuto a fornire all’Assunteria idonea garanzia economica di laurearsi in cinque anni, pena la restituzione di tutte le spese per lui fatte dal collegio. Era pertanto necessario trovare un fideiussore che, con strumento notarile, fornisse la garanzia richiesta. Questa clausola, che di primo acchito può sembrare non consona ad una istituzione che, comunque, era benefica, nelle intenzioni del testatore doveva servire come spauracchio allo studente affinchè si dedicasse con animo e senza indugio allo studio. A questo punto, copia del Decreto di ammissione, fornita dal Segretario dell’Assunteria, era rilasciata allo studente che, esibendola all’economo, otteneva così l’iscrizione al Collegio.
Per il sostentamento economico del Collegio il Pallantieri vincolò tre poderi:
“Una Casa con Colombara, e Capanno, e altre sue pertinenze con trentaotto tornature di terra incirca tutte in un pezzo poste nella villa del Borello Territ. di C. Bolognese in luogo detto alli Prati confine la strada maestra da due Bande, e dall’altre due bande le Terre Savorite della Possessione del Sig. Bernardo Aspini Bergamasco detta la Cassina, o Casazza. Item diecisette tornature incirca di prato poste nel territorio di Solarolo in due pezzi, l’uno di dieci tornature confino alla via Longa da un canto, da altri tre lati con li Prati dell’Ill.mo Sig. Ginnasio Card.le; l’altro pezzo è di sette tornature confino il Rio Fantino detto il Canalvecchio del detto Ill.mo Sig. Cardinale Ginnasio e con quelli di Lorenzo Antolini, ovvero del Sig. Orazio Rondini. Item una possessione posta nella villa della Serra detta il Borgo, o per altro nome l’Oliveta, confino da più lati con gli eredi di M. Taddeo Amonio, con la via che dividde i beni con il Sig. Cardinale Ginnasio, e il Rio Fantino, con altri campi confino al detto Sig. Ill.mo Cardinale Ginnasio, con altri campi confino a M. Domenico Contoli e Domenico Morini, e in somma tutte terre lavorative salde, e boschive, che detto Sig. Testatore possiede intorno a detta Casa, e che partengono a detta Possessione dell’Oliveta. Item un altra possessione posta nella villa della Serra detta la Cornacchia confino col Rio Fantino con le ragioni di S. Maria della Misericordia con la via pubblica, con quella del Trarè, insomma tutte le terre lavorative, e salde che partengono a detta Possessione della Cornacchia che li lavoratori, che stanno a detta Possessione hanno tenuto, e tengono, e lavorano.”
Si tratta di tre poderi (quello dei Prati di Solarolo era unico, ma diviso in tre distinti appezzamenti separati da altre terre della famiglia Ginnasi) ancor oggi esistenti e che hanno per lo più conservato il medesimo nome. L’Uliveta si trova nel territorio di Campiano, lungo la via Giovannina. Dalle mappe catastali tuttavia le terre del Collegio sembrano piuttosto quelle a valle della strada, anzichè quelle a monte, venendo dal colle della Giovannina, che oggi ospitano una ricca villa padronale. Il fondo Cornacchia, nella parrocchia della Serra, conserva tutt’oggi l’antico toponimo. Uliveta e Cornacchia sono al presente terre produttrici di ottimo vino e di abbondante frutta, al tempo del Collegio soffrivano di sotto utilizzazione, di cattiva gestione, sfiorando, addirittura la Cornacchia, l’aridità per via della penuria di concime organico necessario alla terra. La possessione dei Prati fra Castel Bolognese e Solarolo è oggi difficilmente individuabile ma, tuttavia, si può collocarne una parte all’interno del quadrilatero formato dalle vie Canalvecchio, Nuova Prati e Lunga, più verso il Canalvecchio; l’altra, con la casa, dalla parte opposta di via Canalvecchio, guardando il Canale dei Mulini. Non si dimentichi che all’epoca, la via Canalvecchio era il rio Fantino stesso, che si disperdeva poco oltre i prati di Solarolo; l’alveo fungeva da strada. Proprio le continue piene del corso d’acqua, che solo nell’ottocento verrà artificialmente deviato verso il Rio Sanguinario tramite il cosiddetto rio Candiano, non permettevano redditizie coltivazioni in una terra di pianura che era ed è tuttora fertilissima: fieno e cereali (da qui il toponimo “Prati”) erano le uniche coltivazioni possibili in una zona allora così poco felice.
Durante tutto il secolo XVII il collegio si dibattè tra ristrettezze e debiti. Mai si poterono ospitare più di tre studenti contemporaneamente, spesso due, a volte solo uno. Tra gli ospiti si ricorda l’erede Achille Pallantieri. Nei periodi di chiusura, o quando v’era un solo scolaro, si riuscì a fare qualche risparmio; tuttavia più volte l’Assunteria dovette intervenire per appianare le perdite. La ragione di ciò è da ricercarsi nella cattiva gestione dei terreni, come due relazioni del 1659 e del 1669 fanno presente. L’enorme spesa occorrente per un investimento mirato al miglioramento dei fondi non venne mai affrontata, e nemmeno il Governo cittadino pensà ad anticiparne il danaro occorrente. Si proseguì pertanto nell’affitto delle terre che, se da un lato assicurava il ricavo certo di una somma ogni anno, al riparo da qualsiasi evento o calamità naturale, dall’altro finiva sempre più per depauperare il patrimonio fondiario dell’istituto in quanto gli affittuari non avevano alcun interesse ad impiantare coltivazioni che non avessero loro assicurato un reddito sufficiente nell’anno agrario.
Lo stato dei beni, come emerge dal resoconto di una visita effettuata dagli Assunti di Governo alla sede del Collegio il 28 marzo 1643 lascia trasparire un’enorme incuria. La casa, sede del Collegio, viene trovata in condizioni di manutenzione appena sufficienti; manca soprattutto l’igiene, poichè nell’orto, sul quale si affaccia oltretutto la cucina, ristagnano le acque piovane e quelle luride del collegio, senza che queste possano scolare nella chiavica che si trova appena fuori la proprietà. Il fondo Oliveta, condotto da Dionisio Quarantini è ben coltivato. Vengono trovate sei piante d’olivo, che pare abbiano dato il nome al podere, oltre a molte querce, olmi e alberi da radice; vi sono pure tre noci, che però non fanno più frutti e, pertanto, sembra opportuno abbatterli per venderne il legno onde acquistare piante di vite da mettere a dimora in quel terreno che sembra per esse molto adatto. Nelle sue terre si seminano otto corbe di frumento, ma occorre al più presto raccogliere stabbio per concimare. Il podere Cornacchia è più grande dell’Oliveta, ma rende poco; il contadino, Vincenzo Frontali viene trovato in stato miserabile, talmente povero che fa fatica a mantenere due bestie. In quell’anno sono state seminate nove, dieci corbe di grano, ma la povertà del terreno, in molti punti sassoso, farà sì che la resa del raccolto sarà di molto inferiore al previsto.
Occorrerebbe concimare a fondo il terreno per cercare di renderlo più fertile, ma quelle uniche due vacche non fanno sufficiente stabbio per un appezzamento così grande. Si consiglia di fare alcuni lavori di bonifica (il terreno si trova sul rivale di una stretta valle ove a volte ristagna l’acqua, ed in parte è coperto da bosco) affinchè si possa coltivare anche più foraggio in maniera da poter mantenere più bestie. Vengono trovati piantati diciassette alberi, tra salici e pioppi, mentre non vi sono alberi da frutto, escluso alcuni mori. I Prati sono lavorati da Domenico Mazzolani; qui vengono trovate buonissime coltivazioni, compresi alberi da frutto e molte viti. Si suggerisce tuttavia di piantare altri mori od alberi lungo i confini.
L’inizio secolo XVIII addensava presagi sinistri sopra la benefica istituzione bolognese. Nell’archivio mancano documenti relativi agli scolari per i primi vent’anni del secolo; è probabile pertanto che il Collegio sia rimasto vuoto od abbia ospitato sporadicamente qualche studente. La situazione economica era peggiorata poichè l’incuria, le cattive annate agrarie e la crisi economica intervenuta nel primo decennio avevano alquanto ridotto le rendite dei terreni. Di contro, gli Assunti si trovavano a dover combattere contro Pietro Lamberto Pallantieri (Castel Bolognese 1679 – 1764) che, arrogandosi d’essere l’ultimo discendente della famiglia, continuava a sfornare nomine affiliando alla famiglia gli aspiranti, naturalmente dietro congruo compenso. Ridotto in estrema povertà a causa delle liti giudiziarie tra i familiari che si trascinarono per anni riguardo l’interpretazione delle clausole fidecommissarie del testamento del 1610 (l’erede Achille era morto giovane senza eredi diretti), gran parte di beni di famiglia sarebbero stati dissipati negli Avvocati, finchè, a liti concluse, anche i residui si erano a loro volta grandemente deteriorati con conseguente diminuzione del loro valore economico.
Lo stato dei beni immobili di sostentamento non migliorò negli anni successivi, tanto che nella relazione del 1729 fu lanciato un allarme sul vistoso calo delle rendite degli affitti dei terreni che si erano ridotte ad appena 525 lire l’anno. Gli Assunti proposero pertanto, finito il quinquennio di permanenza dell’unico scolaro presente in quel momento, di chiudere il collegio per vedere di riportare almeno in pareggio il bilancio. Dalla relazione dell’anno successivo emerse che sarebbero occorse oltre 1.100 lire per sistemare gli immobili di Bologna e Castel Bolognese, spesa assolutamente esorbitante. Alcuni scolari furono comunque ospitati fra il 1737 ed il 1749, dei quali uno solo, Antonio Capra, d’origine castellana. E’ probabile che da questo momento gli Assunti decidessero, per risparmiare sulle spese, di spartire tra gli studenti la rendita del collegio per un ammontare di scudi 48 annui ognuno, autorizzandoli ad alloggiare presso case private, licenziando il personale di servizio e dando in locazione la casa di via San Petronio Vecchio. L’istituzione si trasformò così in una sorta di borsa di studio.
In seguito ad una supplica promossa dall’Assunteria di Governo, papa Clemente XIII (Carlo Rezzonico 1758-1769), con proprio decreto dell’8 dicembre 1759 ordinò di dare in enfiteusi i beni rustici di Castel Bolognese per un canone annuo di lire 630 di Bologna, e di collocare i giovani nel Seminario o in altro collegio come avessero preferito gli Assunti, con l’obbligo agli scolari di adempiere le preci e i Sacramenti. Continuarono da parte di Pietro Lamberto Pallantieri le nomine di scolari affiliati alla famiglia. Forse per contrastarlo, dopo la segnalazione ufficiale della comunità di Castel Bolognese che lo denunciava assieme al figlio Alessandro di aver frodato la comunità aggregando forestieri alla Famiglia per denaro e non permettendo ai castellani di beneficiare del Collegio, forte della pronuncia della Congregazione dei Concili del 1767, il Senato bolognese si rivolse nel 1773 all’Ambasciatore Bolognese a Roma perchè dalle autorità preposte ottenesse il consenso di arrogarsi la potestà delle nomine togliendola al Pallantieri, stante la mancata osservanza del testamento per quanto riguarda la clausola della collegialità di esse (Alessandro era al momento l’unico Pallantieri vivente a Castel Bolognese). Da Roma fu risposto che, a tenore del testamento, gli Assunti avevano solo la protezione del collegio, la sovrintendenza dell’amministrazione e la cura della volontà del testatore, ma non potevano vantare alcun diritto sulla nomina degli scolari e sulle aggregazioni di famiglie. I legali romani consigliarono di proporre, eventualmente, una supplica al papa; morti i Commissari e l’esecutore testamentario sembrò loro infatti che l’Assunteria avesse un giusto titolo per vigilare sugli abusi fatti dal Pallantieri e potesse domandare che qualunque nomina o aggregazione da lui fatta in futuro fosse preventivamente esaminata dagli Assunti per riconoscere se rispondesse alla volontà del testatore, con facoltà di negarla qualora non lo fosse. Riguardo la richiesta della Comunità di Castel Bolognese, riguardo la precedenza nelle nomine, i consultori romani furono dell’opinione che prevalessero i giovani di Castel Bolognese. Questa seconda decisione non dev’essere troppo piaciuta al Senato bolognese: da alcuni anni infatti i beneficati erano tutti della città e forse non era politicamente opportuno perdere un istituto di beneficenza. E’ probabile quindi che tra Alessandro Pallantieri e l’Assunteria di Governo sia sbocciata una tregua: al Pallantieri veniva lasciata libertà di aggregare e nominare scolari, purchè bolognesi; gli Assunti non avrebbero più coltivato alcuna azione avversa assicurando la Comunità di Castel Bolognese sul corretto operato. Si spiegherebbe così come tutti i successivi scolari, salvo rare eccezioni, siano Bolognesi. Solo nel 1781 la nomina toccò ad un castellano: Giovanni Andrea Tassinari studente di grammatica Nel febbraio del 1786 morì a Castel Bolognese Alessandro Pallantieri e suo figlio ed erede Giovanni Francesco (Castel Bolognese 1771), che era un giovanetto di appena sedici anni, chiese ed ottenne di essere ammesso al beneficio. Dalla morte del padre aveva lasciato la città natale assieme alla sorella Colomba, di ventiquattro anni, per trasferirsi a Bologna presso una zia materna.
Colomba, anche a nome di Giovanni Francesco, pensò di ricorrere al Sommo Pontefice chiedendo la soppressione della distribuzione delle rendite del collegio per dieci anni, al fine di riuscire a costituirsi una dote ed a far terminare gli studi al fratello, ma l’istanza venne respinta. Stavano comunque maturando tempi nuovi nella vita della città e del contado bolognese, destinati a mutare definitivamente le sorti del Collegio Pallantieri. Con motu proprio di papa Pio VI (1775-1799) del 15 giugno 1794, il territorio di Castel Bolognese fu distaccato dalla Legazione di Bologna per essere aggregato a quello di Ravenna.
L’impossibilità per il governo cittadino bolognese di agire fuori dai confini di Legazione decretarono la fine del Collegio Pallantieri: con motu proprio del 1796, Pio VI ne ordinò la soppressione e l’assegnazione delle sue rendite ai superstiti della famiglia Pallantieri.
Dopo quasi centonovant’anni moriva un’istituzione benefica che aveva unito la città di Bologna al suo avamposto romagnolo e si scriveva la parola fine alla tormentata vicenda dell’eredità di Alessandro Pallantieri.
tratto da: GRANDI P., Il Collegio Universitario Pallantieri in Bologna, Castel Bolognese 1999.
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