Alessandro Pallantieri (1505-1571)
La salita al cursus honorum
Alessandro Pallantieri nacque a Castel Bolognese nel 1505. Di famiglia distinta, ma non nobile, zio per parte materna del cardinale Domenico Ginnasi (1550-1639), si diede allo studio del diritto, nel quale riuscì ad eccellere. Non si conoscono notizie riguardanti la sua formazione, che probabilmente è avvenuta all’Università di Bologna. Probabilmente nella stessa città sposò la discendente di una nobile famiglia bolognese, dalla quale ebbe tre figli: Pompeo, Carlo e Cesare ed una figlia, Anna. Molto giovane, e comunque prima del 1530, Alessandro Pallantieri si trasferì a Roma ove lo aspettava una brillante carriera. Qui gli nacque un figlio illegittimo, Orazio, dall’unione con una figlia di un certo mastro Cristoforo, liutaio romano. Verso i 52 anni, morta la moglie, e senza dubbio per esigenze di carriera, si fece sacerdote.
L’anno d’inizio del suo curriculum pubblico può fissarsi attorno al 1530, sotto Clemente VII (1523-1534), quando fu nominato procuratore fiscale in Romagna. Significativo è, a questo proposito, il fatto che lo stesso Papa, in viaggio da Roma a Bologna ove avrebbe incoronato imperatore Carlo V (1500-1558), il 29 ottobre 1529, sostando a Castel Bolognese, si fermi ed entri nella casa dei Pallantieri, ove decora il padre di Alessandro del grado e del titolo di Cavaliere di Cristo. Il prestigioso incarico nella terra natia durò fino al 1534 quando il nuovo papa Paolo III Farnese (1534-1549) mandò in Romagna, in ogni città, un Vescovo per governare.
Indi Alessandro Pallantieri sostituì al governo di Fano Silvestro Aldobrandini, incaricato della cattura del Cardinale di Ravenna Benedetto Accolti, fino alla venuta del successore, il cardinale Girolamo Recanati. Nel 1536 passò a Perugia, ove era la Corte Pontificia; qui diventò uditore del cardinale Marino Grimano. In questo periodo il Pallantieri fu processato e carcerato per qualche giorno, sotto l’imputazione di aver fatto venire di notte in camera sua una detenuta. Fu poi liberato per i buoni uffici del suo protettore, il futuro cardinale Gambara, amico di famiglia. Da Perugia si trasferì quale Governatore dapprima a Cesena poi ad Ascoli (1542), luogotenente di mons. Roberto De Nobili, vescovo di Lucca, indi accettò l’invito del cardinale Giovanni Domenico De Cupi a diventare suo Procuratore Generale nelle Marche; tornò a Roma come luogotenente in criminale di mons. Pietro Paolo Parisio e del suo successore nell’ufficio di uditore di Camera, Giovanni Battista Cicada.
Attorno al 1543, Alessandro Pallantieri fu mandato da Paolo III presso la Regina Maria di Fiandra a svolgere una missione commerciale, portata a termine con successo, tanto che crebbe il di lui credito presso il Papa e presso suo nipote, il cardinale Alessandro Farnese, che gli mostrò l’intenzione di eleggerlo procuratore fiscale, cosa che non fu effettuata per la morte del Pontefice (10 novembre 1549).
Il nuovo Papa, Giulio III (1550-1555), lo confermò luogotenente del Governatore di Roma, incarico che ottenne durante la vacanza pontificia e che proseguì fino al 31 gennaio 1552 quando Alessandro Pallantieri fu nominato Commissario Generale della Camera Apostolica, la quale aveva giurisdizione sulla dogana, e in seguito (marzo 1544) anche notaio della medesima. Nello stesso tempo Giulio III si servì molte volte di lui per varie missioni fuori Roma.
Il 3 luglio 1555, sotto Paolo IV (1555-1559) Pallantieri pervenne alla carica di Procuratore Fiscale, essendone stato rimosso Francesco Cultelli da Bologna. Di qui ebbe inizio la sua fortuna e la sua influenza negli affari di Corte. Paolo IV, napoletano, era estremamente inviso agli spagnoli ed ascoltava con crudele avidità tutto quello che di male si andava dicendo contro di essi. Finì quindi per dichiarare guerra contro la Spagna (1556-1557). Il Pallantieri, che in un primo tempo era favorevole alla guerra, lesse, il 27 luglio 1556, in un Concistoro segreto riunitosi intorno al Papa una scrittura il cui titolo era: Proposta di Alessandro Pallantieri, procuratore fiscale, contro l’imperatore Carlo V e il re Filippo suo figliolo. Ma, diventato il Cardinale Carlo Carafa (1517-1561), nipote del Papa ed avversato dal Pallantieri, il maggior fautore di tal disgraziata guerra, ed essendo egli partito da Roma per cercar rinforzi, il Pallantieri si schierò dalla parte del Duca di Paliano, altro nipote del papa, fautore della pace, isolando così, come unico difensore delle perniciose mire del cardinale Carlo, il cardinale Silvestro Aldobrandini, che, in assenza del suo protettore, cadde in disgrazia. L’Aldobrandini si ritirò folgorato dal disprezzo papale e morì il 6 giugno 1558. A nulla valsero i buoni uffici del cardinale Carafa per riabilitarlo presso lo zio. Il trattato di Cave (12 settembre 1557) siglò la fine delle ostilità tra la Spagna vincente, ed il papato.
Ma il cardinale Carafa, umiliato da tanta sconfitta, potè prendersi una saporita rivincita contro uno dei più sottili ed avveduti fautori della caduta dell’Aldobrandini: il 7 ottobre 1557 Alessandro Pallantieri veniva deposto dalla carica di procuratore fiscale ed il 9 ottobre incarcerato nella infamante prigione di Tor di Nona. “Giovedì mattina (così gli avvisi di Roma del 9 ottobre) fu messo prigione in Castello monsignor Alessandro Pallantiero, procuratore fiscale apostolico, dove stette fino a notte, poi fu condotto in Tor di Nona di dove non uscirà che darà conto come si può in pochi anni comprar case e fabbricarle con grossa spesa, comprar un protonotariato apostolico, un Notariato di Camera, cavalierato, beni al paese et altre cose. E’ stato surrogato in suo luogo monsignor Sebastiano Attracino, ch’era auditore del Torrone in Bologna”.
Il Processo del 1557
Chiamato in giudizio, il Pallantieri dovette rispondere, soprattutto, di come si fosse procurato una sì forte ed invidiabile posizione economica. Tutto infatti era stato per lui fonte di guadagno: il viaggio in Fiandra, dove presentò un riscontro delle spese superiore alle vere necessità della missione; l’amministrazione annonaria, dalla quale egli aveva tratto un lucro ragguardevole, la corsa alle cariche lucrose che l’imputato aveva fatto, in special modo quella al fiscalato. Non mancò un’accusa rivolta ai suoi costumi, soprattutto alle relazioni con le figlie del liutaio mastro Cristoforo.
Alessandro Pallantieri si difese da queste accuse facendosi forte su di un fatto, il meno controllabile: le sue vincite al gioco. E’ interessante vedere come al tempo di Giulio III il gioco a “primiera” e a “bestia” fosse uno dei passatempi preferiti dal Papa e dai Cardinali. Il Papa stesso mandava quasi ogni giorno a chiamare Pallantieri affinchè si recasse a Villa Giulia per giocare. Nella deposizione dell’imputato balza chiaramente il fatto che il Papa stesso insisteva affinchè lui, un poco riottoso perchè indaffarato nelle sue missioni, restasse là a giocare. E così l’imputato vinse a quel tavolo migliaia di scudi al Papa, a suo fratello Baldovino, al Vescovo di Pavia Governatore di Roma, a Michelangelo, intento in quegli anni alla fabbrica di San Pietro, al Cardinale di Bologna. Al Pallantieri tuttavia non fu risparmiata la condanna. Ci è ignota la sentenza, che dovette essere senz’altro severa.
Il Processo Carafa
Pallantieri uscì di prigione durante la vacanza pontificia che portò all’elezione di papa Pio IV (1559-1565). Il 19 gennaio 1560 egli fu assolto per sentenza del Papa stesso, che lo reintegròx nella carica di procuratore fiscale. A questi ed al Governatore di Roma fu affidato il processo contro la famiglia Carafa: il cardinale Carlo, suo fratello Giovanni duca di Paliano, il di lui cognato conte d’Alife ed un altro parente, Lionardo di Cardine. I primi due erano accusati di aver approfittato dell’alta carica dello zio, Paolo IV, per arricchirsi alle sue spalle; tutti inoltre erano accusati di aver ucciso la moglie del duca di Paliano, Violante d’Alife, ed il suo presunto amante Marcello Capece. Il Pallantieri poteva dunque prendersi ora la rivincita nei confronti del cardinal Carafa e della sua odiata famiglia. Peraltro egli fu lasciato libero dal Papa di ricercare comunque e dovunque prove compromettenti, ed il risultato non si fece aspettare.
L’intero popolo romano, alla morte di Paolo IV, peraltro avvenuta in concetto di santità per lo sforzo profuso durante il suo pontificato a purificare la Curia e lo Stato dalle ingiustizie che vi regnavano, si scagliò contro la famiglia Carafa, rea di avere tenuto una condotta sempre sprezzante dei diritti altrui governando spesso in modo bizzarro e capriccioso. Risultato di questa politica fu la guerra contro la Spagna. Ma vediamo quali furono le accuse particolari mosse agli imputati. Il cardinale Carlo, oltre che di parecchi assassinii, molti dei quali erano stati compiuti quando egli era soldato, era incolpato di aver indotto il defunto zio, con menzogne ed inganni alla infausta guerra contro la Spagna alleandosi con la Francia. Un sospetto di eresia balenò quando furono scoperte compromettenti relazioni fra il Cardinale ed il principe luterano Alberto Alcibiade di Brandeburgo ed i Turchi al fine di muoverli contro la Spagna.
Il Duca di Paliano doveva rispondere di grandi malversazioni nell’amministrazione dello Stato e di abuso di autorità nell’amministrazione della giustizia.
Ma l’accusa principale per tutti fu l’omicidio della duchessa di Paliano e del Capece, suo presunto amante, accusa mossa anche agli altri arrestati. Essi infatti avrebbero, per mezzo di un processo nel quale fu lesa ogni garanzia giuridica, estorto al Capece, per mezzo di torture, l’esistenza della relazione. Lo sventurato fu pugnalato immediatamente, nella notte tra il 26 ed il 27 luglio 1559, dal Duca di Paliano. Lionardo di Cardine, zio della Duchessa, ora inquisito ed il Conte d’Alife, portarono a termine il tristo compito di uccidere la duchessa per lavare l’onta caduta sull’onore della famiglia. A tutt’oggi non è dimostrato con sicurezza che la duchessa fosse rea di adulterio, e fino ad ora non è stata fatta luce completa sull’atteggiamento tenuto da Paolo IV, allora malato a morte, in questa faccenda.
Il processo Carafa, condotto con animosità e parzialità da due nemici giurati della famiglia, si concluse con la condanna a morte per tutti gli imputati. Per arrivare a questo il Pallantieri indusse perfino a far testimoniare il falso ad un teste ed a sostituire alcune prove del processo, favorevoli ai Carafa, con altre loro sfavorevoli. Pio IV rigettò la domanda di grazia. Il cardinal Carlo fu strangolato in Castel Sant’Angelo nella notte del 5 marzo 1561. L’operazione fu difficoltosa: infatti essendo la vittima particolarmente pesante, il laccio, col quale il boia gli stringeva la gola, si ruppe e fu necessario continuare il macabro rito con un altro laccio. Questo terrificante particolare non fu risparmiato dalla satira velenosa del libellista Niccolò Franco (1515-1570), che così scrisse:
Extinxit laqueus vix te, Carafa, secundus; tanto enim scleleri non satis unus erit.
Ti finì il secondo laccio, Carafa, tanto eri scellerato che uno non bastò.
Gli altri tre condannati furono decapitati nel cortile della prigione di Tor di Nona. Alla sentenza capitale seguì la confisca di tutti i beni dei condannati, molti dei quali finirono in casa Pallantieri.
Roma. Ponte e Castel Sant’Angelo.
La teoria degli angeli fa da cornice alla tetra prigione, che pure nel ‘500 era la prigione dei nobili e dei ricchi. Il ponte invece era il luogo delle esecuzioni per tutti. Qui venne esposta l’intera famiglia Carafa, dopo l’esecuzione, e sempre qui fu esposto Pallantieri, dopo che gli fu mozzata la testa.
L’apice della potenza
Il 26 aprile 1563 Alessandro Pallantieri venne nominato Governatore di Roma. In questa qualità, l’ 11 aprile 1564 emanò in Roma il Bando Sopra i libelli famosi che comminava la pena di morte a chiunque scrivesse o collaborasse a scrivere libelli infamanti, li leggesse, li pubblicasse o li tenesse presso di sè. Il bando mirava a stroncare la diffusione dei libelli di pasquinate, poesie satiriche e diffamatorie che a Roma venivano attaccate alle cosiddette statue parlanti: Pasquino, Marforio, Madama Lucrezia ed altre, oppure stampati e diffusi clandestinamente. Ironia della sorte, proprio questo bando fu fatale allo stesso sottoscrittore, senza dubbio la vittima più illustre. Quale Governatore, Pallantieri si dovette occupare del duplice assassinio di Vittoria Savelli e dell’amante Troiano, un famiglio, avvenuto il 27 luglio 1563 nel castello dei Savelli a Cretone, nei pressi di Monterotondo; gli amanti furono colti in flagrante, a letto ed i sospetti caddero sul marito tradito, Giovanni Battista, che invocò il delitto d’onore. In seguito al sopralluogo eseguito sul teatro del delitto il 29 luglio, Alessandro Pallantieri fece sequestrare vari beni ma, come al solito, molti presero la via del palazzo del Governatore.
Roma. La statua di Pasquino.
Si trova a ridosso del palazzo Braschi, del quale si vede il bugnato. Questa statua era la voce popolare, salace, critica, del popolo romano; per essa molti persero la testa…
Roma. Ingresso del Palazzo della Cancelleria;
questo edificio fu la sede del potere pubblico della città dalla fine del ‘500 in poi.
Il 7 gennaio 1566 veniva eletto papa Pio V (1566-1572), il quale non faceva mistero delle sue simpatie per i superstiti di casa Carafa. Il successivo 24 febbraio il Pontefice si portò a Castel Sant’Angelo e fece aprire le casse in cui si custodivano gli incartamenti del processo contro quella famiglia. Ne prese visione, rimase alquanto a meditare e ripartì. Questi sintomi furono rivelatori: Pio V ordinò la revisione del processo Carafa che fu affidata a monsignor Baldo Ferratino vescovo di Amelia. Per allontanare da Roma il Pallantieri, sul quale come da prassi, sarebbe dovuta cadere la nomina a revisore del processo, fu nominato il 1° gennaio 1567 Governatore della Marca di Ancona, cedendo il posto di Governatore di Roma al Ferratino.
La revisione del processo Carafa rivelò compromettenti azioni del Pallantieri. Mentre fervevano i lavori di esame delle carte processuali, fu arrestato a Roma Niccolò Franco, scrittore di pasquinate, il quale rivelò che Alessandro Pallantieri, uscito dal carcere dopo il processo del 1557, si era accomunato nell’odio sordo e volgare contro tutto quanto riguardava il pontificato di Paolo IV. La misura era colma. Dalla città di Ancona fu richiamato a Roma e, il 17 settembre 1569 arrestato e carcerato. Fece seguito una perquisizione nella sua abitazione, specie tra le carte, di cui gran copia venne trasportata nel palazzo dell’Inquisizione dove furono inventariate.
Il processo Pallantieri
Il 29 ottobre 1569 venne emanato un motu proprio in cui erano formulate le accuse e venivano stabiliti i limiti giuridici del Tribunale speciale che avrebbe giudicato il Pallantieri. Nel medesimo giorno un secondo motu proprio nominava Procuratore fiscale Giovanni Battista Brugnatello, Il Tribunale, inappellabile e procedente in maniera sommaria, era costituito da un giudice unico nella persona di Mons. Donato Stampa vescovo di Nepi e Sutri. Entrambi erano nemici dichiarati del Pallantieri.
Le accuse principali che gli vennero mosse furono: lesa maestà nella quale era incorso collaborando alle pasquinate; sodomia riguardante i rapporti intercorsi con un suo servitore, tal Pier Vincenzo Mucino da Jesi; sottrazione di beni e appropriazione indebite, accuse che riguardavano i beni dei Carafa da lui trattenuti e non versati alla Camera Apostolica, e altre somme sottratte alla stessa; abusi nell’amministrazione della giustizia, fra i quali quelli nei confronti dei Carafa.
Le confessioni del Franco si dimostrarono vere: fra le carte dell’ex Governatore di Roma fu trovato un libello infamante. Gli interrogatori durarono diciotto mesi e al Pallantieri non fu risparmiata la tortura, pur essendo vecchio (aveva 66 anni) e malfermo in salute. Alessandro Pallantieri amante della cabale e dei sortilegi non sapeva che il suo destino era scritto a nitidi caratteri su un bando da lui stesso emanato: et ognuno se guardi dalla mala ventura e di contravenire aveva avuto cura di annotare in fondo alla grida. Novella spada di Damocle, la mannaia del boia, da lui stesso sollevata, gli rimase sospesa sul capo per sette anni, sin quando il giudice Donato Stampa ne pronunciò la condanna a morte.
Il Papa rigettò ogni richiesta di clemenza. Tutti i beni vennero confiscati. All’alba del 7 giugno 1571 Alessandro Pallantieri venne decapitato nel cortile della prigione di Tor di Nona. Suo confortatore spirituale in punto di morte fu san Filippo Neri. I miseri resti, esposti in Ponte Sant’Angelo, furono poi portati nella chiesa di San Giovanni Decollato dalla Confraternita della Misericordia e, più tardi, sepolti nella chiesa di San Girolamo della Carità ove operava S. Filippo Neri, e dove il condannato aveva desiderato avere l’estrema dimora.
La valutazione degli averi del Pallantieri all’atto della morte, tra mobili ed immobili era fatta ascendere a centomila scudi, ma quasi sicuramente essa era inferiore al vero. Pare tuttavia che qualche decennio dopo gli eredi ottenessero che almeno quelli giacenti sotto la giurisdizione bolognese fossero restituiti agli aventi diritto, avendo il Senato Bolognese fatto valere, con supplica al Pontefice, il privilegio dell’esenzione dell’esecutività di tale pena nella città di Bologna e nel suo contado.
Et quando venne a Roma era un povero sbiro concludeva un avviso di Roma commentando la tragica sorte del castellano.
Roma. Scorcio della Chiesa di S. Girolamo della Carità. In essa fu sepolto il Pallantieri.
di Paolo Grandi
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