Addio sindaco contadino: Reginaldo Dal Pane ci ha lasciato
di Paolo Grandi
Lo aveva addirittura scritto nel titolo del suo ultimo libro, uscito nel settembre 2024 in occasione del suo novantanovesimo compleanno: non sono stanco di vivere. Ma dall’Alto, quell’aldilà cristiano nel quale lui ha sempre creduto, è arrivata la chiamata dopo un breve malattia che tuttavia non gli aveva fatto perdere l’abituale lucidità, nel tardo pomeriggio del 5 novembre 2024.
Nato nella parrocchia di Formellino di Faenza in una famiglia contadina patriarcale che si spostava da un podere all’altro per trovare sempre migliori condizioni di vita e di lavoro, il piccolo Reginaldo, arrivò a due anni nella casa di via Farosi dove rimarrà fino alla morte, in una parte di quel podere, di proprietà dei conti Ginnasi che abitavano poco lontano, nel cosiddetto “Palazz d’Orsoni” che la famiglia aveva abbandonato oltre un decennio prima perché, così indiviso, era troppo grande per le forze lavoro di quel tempo. Il piccolo Reginaldo crebbe frequentando per i giochi una delle figlie dei Ginnasi e per la dottrina cristiana la parrocchia di Casalecchio. Il suo percorso di studi s’interruppe dopo la quinta elementare: la famiglia non aveva le possibilità economiche né lui stesso si era opposto, benché fosse stato uno scolaro esemplare e molto diligente, perché gli premeva lavorare per non pesare sulla famiglia. Da autodidatta formò la propria cultura leggendo i classici ed avendo libero accesso alla biblioteca dei Ginnasi. Una cosa, tuttavia, Reginaldo non accettava: sentire i suoi chiamare i conti “signor padrone”; certo, ragionava, erano padroni della terra, ma non i padroni delle persone; gli seccava quando sentiva il nonno, capofamiglia, uomo anziano, dare del lei alla figlia del conte Carlo, che era una ragazzina poco più grande di lui, la quale a sua volta gli dava del tu. E così egli rifletteva sul fatto che in India vi erano le caste, abolite per legge, ma di fatto ancora in vigore. Ma non c’erano caste anche qui?
Fu proprio la ricerca di questo senso di giustizia a spingere nel dopoguerra Reginaldo in politica, che fu dapprima attratto dalla sinistra per un profondo senso di giustizia che sentiva in sé e per il desiderio di aiutare la povera gente; “ero forse uno dei pochi che leggeva l’Unità nella casa del popolo, ma non mi piaceva l’esaltazione dell’Unione Sovietica e di Stalin e sapevo che non poteva esistere la dittatura del proletariato.” Così Reginaldo ricorda.
Una sera fu invitato a un incontro che si tenne presso il cortile della chiesa arcipretale di Castel Bolognese. C’era a parlare un giovane bolognese, che poi sarebbe diventato deputato e della cui amicizia fu onorato per tutta la vita: era Giovanni Bersani. Quell’incontro fu per lui illuminante e così cominciò a leggere e a studiare alcuni libri sulla dottrina sociale della Chiesa, soprattutto l’enciclica di Leone XIII, Rerum novarum. Era il 1947, vigilia delle elezioni politiche che si tennero nella primavera successiva. L’impegno della Chiesa fu immane: in ogni parrocchia vi era una persona che si impegnava a convogliare i voti verso la Democrazia Cristiana e Reginaldo fu il “collettore” di Casalecchio. Nel 1948 l’iscrizione alla Democrazia Cristiana e poco dopo la sua elezione nel Consiglio Provinciale del partito e contemporaneamente nacque il suo impegno nel sindacato CISL e nelle ACLI. Per Reginaldo il politico era l’uomo che intende spendersi per il bene comune, per il bene-benessere della gente e non per un tornaconto, ma per l’intima convinzione di dover mettere a frutto il proprio talento per migliorare le condizioni di vita della gente, liberamente e gratuitamente, tanto che per tutta la vita Reginaldo ha vissuto del lavoro dei campi, alla ricerca della giustizia sociale da coniugare con la libertà ed avendo come stella polare la parabola dei talenti.
Nel 1956 fu eletto in Consiglio Comunale ed a sua volta votato quale Sindaco dalla maggioranza, carica che mantenne fino al 1964. Questa esperienza è stata descritta nel suo libro “Il sindaco contadino”, ma in breve può così riassumersi: lotta alla disoccupazione attraverso l’esecuzione di una serie di lavori pubblici: Acquedotto, con la costruzione della torre piezometrica, lavatoio pubblico, fognature, case popolari, restauro e riapertura dell’ospedale ma, soprattutto, la dichiarazione di Castel Bolognese come “comune depresso”, cosa che gli attirò le ire delle sinistra all’opposizione ma che costituì la base per attirare investimenti e creare la zona industriale che, sviluppatasi poi nei decenni successivi, oggi è un fiore all’occhiello della nostra città che molti ci invidiano. Si provvide, tramite la costruzione delle case popolari, ad abbattere gradualmente le baracche che ospitavano i senzatetto della guerra; arrivò il metano e si impostò l’acquisto del terreno ove poi sarebbero sorte la nuova scuola media e l’asilo nido, prevedendo l’abbattimento della casa di Pagnòca. Ricordo che, assieme a mio padre che lui stimava molto, partiva per Roma per appuntamenti nei Ministeri: un viaggio defatigante che iniziava poco prima delle 23 salendo sull’ultimo treno per Ancona e da là con un “accelerato” che partiva verso le 4 ed arrivava a Roma alle 7 e mezzo della mattina, col solo biglietto di seconda classe ed a proprie spese. Dopo le visite ed un frugale pasto, il viaggio di ritorno che iniziava nel pomeriggio e terminava alle 10.30 della sera. Si passava da Ancona perché allora la tariffa ferroviaria era chilometrica e l’itinerario più breve ed economico era via Orte e Ancona, naturalmente in seconda classe!
Dopo un breve incarico di Consigliere nel Consiglio Provinciale, Reginaldo optò per il Sindacato. Come frequentatore della sede della Democrazia Cristiana e collaboratore di quel partito fino al suo scioglimento lo ricordo quale “vecchio saggio” (vecchio perché ero giovane io!): alle riunioni, anche le più animate, ove comunque lui non alzava mai la voce, era un piacere ascoltarlo nel suggerire le soluzioni ai problemi o le proposte da vagliare e discutere magari dopo un confronto in Consiglio Comunale.
Certamente, Reginaldo era conscio che la sua era una generazione tutta particolare, che ha conosciuto una accelerazione a livello tecnologico quale mai era accaduto. Dall’aratura coi buoi ancora praticata nel dopoguerra allo sbarco sulla luna, per tacer dei computer, internet ecc.. La sua è stata una generazione che ha conosciuto la povertà, condizioni di vita oggi difficilmente immaginabili nei nostri territori, che è cresciuta sotto il fascismo e ha sperimentato gli orrori e le devastazioni della guerra.
Voglio concludere con le ultime parole del suo libro “Non dipende da me arrivare a cento anni, ma anche se non ci vedo e non ci sento bene, non mi sono stancato di vivere.” E se si pensa che tra gli ultimi atti del suo peregrinare terreno v’è stata la Confessione e la Comunione, prima di morire dopo pochi minuti, il suo esempio di vita e di Cristiano ci illumini, pensando che il 5 novembre 2024, nel tardo tramonto, un Giusto è salito nel Regno dei Cieli a dar gloria a Dio.
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