Da un’emergenza all’altra: 1944/45-2020
di Maria Landi
Stiamo vivendo in questo inizio del 2020 un tragico periodo della nostra storia. A me, che per 75 anni ho vissuto un’intera esistenza di una certa tranquillità con gli alti e i bassi che capitano ogni tanto, viene da collegare l’attuale momento all’altro terrificante periodo della storia del nostro paese, vissuto nella mia infanzia e adolescenza. Questo perché anche quello fu caratterizzato da pesanti sacrifici, come capita anche ora. Mi riferisco alla seconda guerra mondiale, precisamente l’ultima parte di essa, fra il 1944 e il 1945, quando la sosta invernale del fronte fu stabilita proprio a cavallo del nostro torrente, il Senio. La vita allora aveva un ritmo assai diverso da quello che viviamo attualmente. Il nemico dal quale ci si doveva difendere era ovunque, poteva aggredirti a tua insaputa quando meno te lo aspettavi. In un attimo fatale, un’intera famiglia poteva lasciarci la vita, per lo scoppio di una granata, per una bomba lanciata da un aereo o per una scheggia vagante. Vivevamo le nostre giornate rintanati in angusti rifugi scavati sottoterra, senza luce, senza aria, senza uscire quasi mai allo scoperto, se non a nostro rischio e pericolo. Nessuno ci aveva chiesto o imposto questo sacrificio, nessuno ci aveva consigliato o insegnato il da farsi. La paura che ci attanagliava faceva scuola. Dai rifugi delle campagne, malsicuri e malsani, un po’ alla volta ci avvicinammo al paese per poter essere vicini ad altri esseri umani, chi obbligato dai soldati occupanti che volevano il nostro spazio, chi terrorizzato dalle tragedie che ogni tanto si abbattevano su famiglie e amici. Le cantine del paese si stiparono fino all’inverosimile. A metà dicembre del 1944, con la mia famiglia e quella dei miei zii, ci rifugiammo nei sotterranei della villa Centonara, vicino alla stazione, dove, nelle grandi cantine del palazzo, erano già alloggiate diverse famiglie amiche, provenienti dal Ponte del Castello. La nostra famiglia occupò l’ultima piccola cantina ancora libera, situata sotto le stanze dei servizi. C’era posto sotto un finestrino per la stufa, per cucinare e scaldarcisi, e per quattro reti da letto, dove alla meglio dormivamo in nove persone. Mangiavamo seduti sui letti. Avevamo però un vantaggio: ora eravamo ad un paio di chilometri dal fronte, e i colpi che arrivavano erano più radi. A casa nostra, proprio sul fronte, le cose erano ben diverse. Ora, ogni tanto uscivamo nel parco a respirare l’aria che prima non avevamo, ed era un bel cambiamento. Tutto ciò durò fino a fine gennaio 1945. Poi fummo obbligati e costretti a sfollare un’altra volta. Stavolta ci rifugiammo nelle cantine delle suore domenicane, in centro al paese. Eravamo oltre duecento persone sottoterra, con un unico gabinetto al pian terreno dell’edificio che serviva, in tempo di pace, per la famiglia del custode. Ora, davanti alla porta stazionavano continuamente file di persone in attesa del loro turno. Neanche a dirlo, ogni due o tre giorni il vascone del bagno era da svuotare. Nella nostra cantina, noi nove ci sistemammo in un letto a castello, creato con travi prese tra le macerie delle case crollate. Ora avevamo ben sei letti. I miei zii stavano nella parte di sotto, in quattro su tre letti, noi sopra, in cinque, sempre su tre letti.
Ho raccontato in queste righe come gestimmo allora il problema dell’alloggiare e del dove potersi rifugiare. Ora ci chiedono di stare nelle nostre case, senza uscire, se non per cose estremamente necessarie, ed è comunque un enorme sacrificio per tutti. Noi rimanemmo chiusi fino al 12 aprile 1945. Speriamo e auspichiamoci che venga presto anche per noi il nostro sospirato “12 aprile”.
Il cibo, ovverossia “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”
Nei momenti di grande emergenza e di continua apprensione, il pensiero che più sconvolge l’animo umano è certamente il timore che venga a mancare il cibo. Rivoluzioni, tafferugli, guerriglie sono spesso scoppiati per la mancanza di alimenti. Un esempio per tutti, la guerra del pane raccontata da Manzoni nei Promessi Sposi. Al giorno d’oggi abbiamo assistito a lotte sfrenate per aggiudicarsi gli ultimi barattoli di Nutella o l’ultimo pacchetto di lievito o altri acquisti sconsiderati per la paura di rimanere a bocca asciutta. Ci siamo abituati alle lunghe file davanti ai supermercati, a distanza di un metro l’uno dall’altro. Tutta questa paura, perché? Da tanto tempo si vive con l’idea e la certezza che le comodità del vivere quotidiano e tutto il ben di Dio a nostra disposizione possano durare all’infinito; sicurezza però, che, data la situazione, è venuta meno. Le file davanti ai supermercati oggi possono ricordare le file del tempo di guerra che si facevano per portare a casa ciò che veniva offerto con le tessere annonarie, fogli di carta in colori diversi, formate da cedole. Ognuna era dedicata a diversi tipi di alimenti. Chi aveva istituito questo sistema da fame dava ad ogni persona un etto e mezzo di pane al giorno, impastato con ogni tipo di farina macinata con cereali, legumi, spesso granoturco e persino patate. Il pane era brutto, duro e soprattutto poco. C’erano poi le cedole settimanali per tutti gli altri prodotti, ben scarsi anche loro. Esisteva una cedola anche per le sigarette: chi non aveva il vizio del fumo fingeva di avercelo, così scambiava le cedole del tabacco con quelle del cibo. Alla fine della fila, tante volte non c’era più niente da mettersi in tasca. Allora, qualcuno si alzava prima che facesse giorno per avere qualcosa da portare a casa. In queste condizioni passarono i primi anni di guerra. Alla fine del 1943 le tessere a poco a poco non garantirono più i poveri ma indispensabili rifornimenti. Non si faceva più la fila perché non c’era quasi niente da portare a casa. Bisognava arrangiarsi da soli. Andavamo a spigolare nei campi dopo la mietitura. Chi aveva il giardino lo convertì in orto, e di questo era privilegiato chi abitava in campagna. Nei campi vicino a casa andavamo a raccogliere erbe commestibili per farne grandi insalate. I contadini avevano bisogno di aiuto per i raccolti, essendo i giovani sotto le armi. In cambio dell’aiuto, ci ricompensavano con i prodotti della terra: patate, fagioli, quello che c’era andava bene tutto. Avevamo polli per le uova. Mio padre andava nel fiume a pescare pesci e anguille. Ci si scambiava con amici e conoscenti quello che si poteva. L’amicizia aiutava molto: oggi si chiama solidarietà. Nei momenti del bisogno questo sentimento fiorisce rigoglioso. Con l’avvicinarsi della linea del fronte, gli accorgimenti adottati per sostituire le tessere che ci avevano salvato dalla fame, vennero a mancare fino a sparire completamente. Una volta sfollati alla villa Centonara, intaccammo le provviste portate da casa, ma era chiaro che non sarebbero durate a lungo, e non c’era altro modo di procurarsi cibo. Poi la Provvidenza, o il caso, ci vennero in aiuto. Un gruppo di soldati tedeschi si stanziò nelle cantine sotto la villa, facendo sgombrare le famiglie che le occupavano. Noi restammo nel nostro piccolo spazio e imparammo a convivere con il nemico. Requisirono mio padre per farlo lavorare per loro. Razziavano dalle campagne bestie che poi macellavano, dando a noi il loro rancio, il loro pane nero e le frattaglie degli animali. Tutto ciò durò fino a fine gennaio, quando ci trasferimmo nelle cantine del convento. I nostri pasti furono allora composti da ciò che si riusciva a rimediare. Si andava ogni tanto ad uno spaccio rifornito da Imola e tutti i giorni la nonna faceva grosse pizze che cuoceva nella stufa. Zia Rosina preparava lunghi spaghettoni che chiamava bigoli, cioè gli antenati degli strozzapreti, e li condiva con prezzemolo e aglio. Nel cortile del convento, nascosta tra paglia e fascine, viveva una mucca da latte, salvata da un contadino per mungerla tutti i giorni e ogni due dava a mia madre mezzo litro di latte perché mio fratello era il bambino più piccolo della cantina. La mamma lo pagava con quattro soldi (una bicicletta).
A quel tempo, l’Italia era un paese basato prevalentemente sull’agricoltura, che in tempi di guerra non riusciva a produrre abbastanza per sfamare la popolazione. Mancava la forza lavoro e i campi non erano più luoghi sicuri. Il sentimento di paura per la mancanza di alimenti era diffuso ma giustificato: quello che potevi trovare un giorno, poche ore dopo rischiava di esaurirsi, definitivamente. Non esistevano rifornimenti consistenti, o aiuti da altri paesi. Al giorno d’oggi c’è la possibilità di accedere a qualsiasi cosa in qualsiasi momento, ed è comprensibile che un ritardo a cui non siamo abituati possa gettare nel panico la popolazione. Basta pensare, però, che in fondo si tratta solo di qualche giorno di attesa in più. Quando io avevo 12 anni, purtroppo, anche la speranza di rifornimenti in tempi brevi era vana.
La scuola sospesa… Arrivederci, ragazzi!?
La scuola elementare Carlo Bassi è sita di fronte a casa mia. Assisto con vero piacere all’entrata e all’uscita dei bambini con genitori, nonni e scuolabus che li accompagnano: nessuno arriva da solo. Taluni arrivano a piedi, accompagnati da volontari, dando vita al simpatico progetto “Pedibus”. Per tanti anni ho visto ogni mattina lo svolgersi di questo rito. All’improvviso, questa cerimonia consolidatasi nel tempo, che nessuno immaginava potesse un giorno interrompersi, è sfociata in un’emergenza più forte di tutte le ragioni logiche: è stata decretata la chiusura di tutte le scuole per impedire ulteriormente il diffondersi del contagio. Ora, il viale davanti alla scuola è deserto a tutte le ore. Dov’era il frastuono dei bimbi, c’è un silenzio assordante.
In quello stesso edificio, ottant’anni fa frequentavo le scuole elementari. Ero alla fine del secondo anno, giugno 1940, quando dai palazzi del potere un esaltato, assetato di gloria e di potere, con roboanti parole diede il via alla Seconda guerra mondiale, che travolse e sconvolse la nostra quotidianità. Ho vissuto l’intero periodo scolastico con la guerra in sottofondo. Dalla campagna dove vivevo, facevo il tragitto casa-scuola sempre a piedi e sempre da sola, come tutti gli altri, accompagnata solo nei primi giorni della prima elementare. Lungo la strada ci univamo a gruppi, più o meno numerosi, dando vita a una sorta di Pedibus ante litteram, ma senza accompagnatori adulti. Portavamo borse di straccio, che le nostre mamme confezionavano con avanzi di indumenti consunti e oramai inutilizzabili. La scuola era molto presente e attenta ai bisogni dei ragazzi. Ogni giorno ci somministravano il disgustoso olio di fegato di merluzzo: eravamo malnutriti e la tubercolosi mieteva vittime tra i più deboli. Il regime doveva renderci forti ed invincibili. La mensa scolastica si chiamava refezione ed era gratuita per i figli degli operai, categoria disagiata per la perenne scarsità di lavoro. Funzionava anche quando la scuola era chiusa, come quando non si trovò più combustibile per il riscaldamento nel rigido inverno della mia quarta elementare e così ai bambini fu assicurato un pasto sufficiente, anche in assenza delle lezioni. Anche i libri, i quaderni e le penne erano concessi gratuitamente a chi ne aveva bisogno. Ovviamente non si doveva sprecare: si scriveva anche nei margini dei quaderni e si tenevano bene i libri, già usati, ma che dovevano servire l’anno successivo ad altri studenti.
Quando iniziò l’anno scolastico 1943-44 cambiò tutto. Avevo concluso il ciclo elementare con buon profitto. Ero felice e desideravo imparare sempre più. Ora avrei frequentato l’avviamento professionale, che, dopo l’8 settembre ‘43 fu trasferito nell’orfanatrofio Ginnasi. Mio fratello Luciano iniziò quell’anno la prima elementare, ma a Natale i miei genitori lo ritirarono, perché era aumentato il pericolo lungo la Via Emilia, fra il via vai dei mezzi militari e le incursioni degli aerei alleati. Per quanto riguarda me, continuai a frequentare l’avviamento solo di tanto in tanto, a causa dei frequenti allarmi che le sirene e la campana della torre civica diffondevano nell’aria. Quasi tutti i giorni le lezioni venivano interrotte per metterci al sicuro e la scuola chiudeva i battenti. In queste condizioni arrivammo al 2 maggio 1944, giorno del mio dodicesimo compleanno, durante il quale un terribile bombardamento sconvolse Faenza, che subì gravi perdite tra la cittadinanza. Il giorno seguente andammo a scuola mogi e terrorizzati da quanto avvenuto, ma la trovammo chiusa: non si sarebbe riaperta più. Un cartello avvertiva di tornare il 15 maggio a ritirare le pagelle. La nostra insegnante di italiano, Elvira Borghi di Faenza, perì nel secondo bombardamento del 13 maggio. Fummo messi a parte di questa notizia dolorosa il giorno del ritiro delle pagelle. Piangemmo tutti, addolorati per la fine della nostra cara maestra. Il 2 maggio non era terminata solo la scuola, ma pure la mia vita da giovane studentessa, che non sarebbe tornata mai più. Il successivo anno scolastico 1944-1945 non iniziò affatto.
Durante l’estate 1945, a qualcuno venne il pensiero che i bimbi della prima elementare, avendo terminato per forza maggiore l’esperienza scolastica dopo neanche due mesi nel ‘43, avrebbero perso un ulteriore anno. Alcuni volontari allestirono in alcuni ambienti sinistrati sì, ma non pericolanti, una parvenza di scuola. Così, si salvò l’intero anno. Mio fratello Luciano era uno di quei bambini.
La nostra generazione, per le cause accennate, venne depredata di un intero anno scolastico. Per certi versi, in dosi minori, è quello che sta capitando anche agli studenti di oggi. La chiusura delle scuole tra febbraio e marzo è stata una decisione preventiva, per evitare di non far correre alcun rischio ulteriore agli studenti, alle famiglie e al personale scolastico. Noi, invece, continuammo ad andare a scuola, tra un allarme aereo e l’altro, finché non diventò ufficialmente troppo pericoloso dato l’avvicinarsi dei disastrosi eventi bellici. Fortunatamente, gli strumenti che hanno oggi a disposizione gli studenti permettono di procedere con le lezioni in modo sicuro e continuativo, ma sicuramente l’esperienza sui banchi di scuola rimane più completa e gratificante. Nonostante questa anomalia durante il percorso scolastico, i ragazzi di oggi avranno la possibilità di recuperare prossimamente, senza interruzioni. Purtroppo, la sorte destinata a noi fu diversa perché, una volta finita l’emergenza, ci fu il difficile periodo della ricostruzione che impossibilitò molti di noi, me compresa, a riprendere a frequentare la scuola, perché la nostra presenza era fondamentale per aiutare a casa.
Disavventure… “igienistiche”
La tremenda pandemia che da alcuni mesi sta mettendo in ginocchio il mondo intero sta sconvolgendo l’esistenza di tutti gli uomini. Anche chi non è colpito dal subdolo contagio, deve sottostare a severe regole e dettami di comportamento che, se pur necessari, hanno cambiato radicalmente le nostre abitudini. Ora ci si deve privare di tante cose che prima erano ovvie. Può sembrare banale, ma non lo è affatto. Dopo l’ordinanza che ha previsto la serrata di negozi ed esercizi, niente più parrucchiera, estetista, barbiere, piscina, palestra, ginnastica. Tutte cose necessarie per l’igiene e la salute del nostro corpo, alle quali eravamo assuefatti. Ci rimane però il vantaggio di avere, in ogni abitazione, bagni comodi e ben forniti di tutti i prodotti occorrenti. Così, pulizia e igiene sono salvi.
Facciamo ora un salto indietro nel tempo e arriviamo all’altra grande crisi che coinvolse e decimò tutto il mondo per lunghi anni, la Seconda guerra mondiale. Sembrava che da quell’orrore non ci si dovesse sollevare mai più. Per gli abitanti di Castel Bolognese ci fu un’aggiunta di pena e di guai grossi, quasi insormontabili. Si cominciò, sin da settembre-ottobre ’44 a fare la vita del rifugio. Ad ogni squillo di sirena o suono di campanone, ci fiondavamo dentro quelle tane che più che altro servivano a darci una parvenza di sicurezza, mentre gli aerei alleati tenevano la Via Emilia sotto controllo, per cacciare qualche mezzo di trasporto tedesco o bombardare la nostra stazione. Non si poteva più andare al fiume il sabato per fare il bagno settimanale, insaponandoci col brutto sapone fatto in casa dalle nostre mamme. Non potevamo più lavare i nostri panni nelle limpide e cristalline acque del Senio. Tutto era finito. I giorni passavano e il pericolo aumentava. L’avanzata degli Alleati era lenta e noi stavamo in trepida attesa.
La visita improvvisa di un sacerdote tedesco, don Otto, conosciuto durante l’estate, mise in subbuglio gli uomini di casa, ai quali consigliò il modo migliore per salvare le nostre vite. Dopo di ciò, fu scavata dentro la stanza dei nonni, morti nel ’43, un rifugio a prova di bomba. Dentro quel rifugio, uno accanto all’altro, dormivamo in dieci. Andavamo nella cucina lì accanto per mangiare, scendendo nel rifugio dal sottoscala solo in caso di pericolo. C’erano un mastello e un secchio d’acqua e ogni tanto andavamo a darci una sciacquata alla meglio che si poteva. Mia madre un giorno decise di farsi un bagno come si deve: preparò in una stanza di servizio dietro la nostra casa, una mastella di acqua calda con un po’ di soda. Si immerse godendosi quel bagno tanto desiderato, ma un aereo sganciò una bomba per colpire una postazione tedesca. La bomba cadde a cinque metri dalla casa, facendo scoperchiare il tetto, che si rovesciò su mia madre nella mastella. Il babbo la trovò sotto le macerie, ancora a bagno, spaventata ma illesa.
Una sera venne a bussare alla nostra porta un soldato tedesco, stanco e affamato. Sedette accanto al fuoco e ci raccontò le sue vicissitudini. A un certo punto chiese a mio padre un posto per poter dormire almeno un paio d’ore. Alle dieci doveva tornare sul fronte al fiume. Diede il suo orologio a mio padre che gli offrì posto nel nostro letto. Noi saremmo andati a dormire dopo. Restammo tranquilli in cucina, di notte era difficile che sparassero. Ambrogio, così si chiamava il tedesco, se ne andrò ringraziandoci e benedicendoci. Alcuni giorni dopo, mio fratello Luciano cominciò a lamentarsi di un prurito che lo assaliva di tanto in tanto. Mia madre svestì il bambino e lo trovò infestato dai pidocchi. Ambrogio ci aveva lasciato la sua povera eredità. Mia mamma tentò invano di ripulire mio fratello ma non ci fu niente da fare. I pidocchi erano felici di aver trovato carne fresca. Dopo un paio di giorni ne eravamo infestati tutti e dieci e non ci saremmo liberati più della loro compagnia che durò ben cinque mesi, fino alla liberazione. Quando a metà dicembre fummo costretti a lasciare la nostra casa, portammo con noi, a villa Centonara, i nostri pidocchi ben contenti di rimanere con noi. Quando di notte ci stringevamo in nove (il nonno era andato a rifugiarsi con il parroco in convento, dove poi lo raggiungemmo) sui quattro letti che avevamo, tutti girati per un verso, se uno aveva bisogno di grattarsi, diventava un grattarsi corale. Luciano chiedeva alla nonna di grattarlo un po’ per alleviare il tormento. Un bambino di sette anni che non chiede giocattoli o dolciumi, ma solo una mano per grattarsi un po’, sembrava un sogno orribile ma era reale. Eravamo partiti da casa convinti di restare lontani una settimana o poco più. Siccome da Forlì a Faenza l’esercito alleato aveva impiegato una decina di giorni, pensavamo che da Faenza a Castel Bolognese ci avrebbe messo meno. Restammo lontani quattro eterni mesi.
Vorrei approfittare di questo spazio per ringraziare Andrea, infaticabile ricercatore della nostra storia, che insieme a Paolo, altro prezioso storico locale, ha pensato di coinvolgermi in questa iniziativa, permettendo a me e ai lettori di riempire un po’ le giornate in questo periodo strano con ricordi dell’altro grande momento particolare della nostra storia, momento che ha lasciato in chi l’ha vissuto, un segno indelebile tanto da ricordare ancora come fosse ieri e da interessare più generazioni successive.
Ma vorrei anche ringraziare con affetto tutti coloro che hanno letto, apprezzato e commentato i miei racconti. Ho ritrovato con piacere cari amici, conoscenti e persone che non vedevo da un po’…. da prima della nostra “clausura”. Auguri di Buona Pasqua a tutti, nella speranza di poterci rivedere e ritrovare presto insieme.
“Ogni uomo è mio fratello”
Era ormai convinzione assodata che in generale la vita degli uomini si svolgesse all’insegna del “penso solo per me”, cioè ai miei cari, al mio benessere, al soddisfare la pancia, a proteggere il mio orticello, quasi tutto il resto non mi riguarda. Quelli fuori dal mio giro, “gli altri”, si devono arrangiare e districare senza il mio intervento. È bastata la grande mazzata che di questi tempi ha colpito il mondo intero per scoprire che non era vero niente. Dietro la facciata di indifferenza e di egoismo personale stanno donne e uomini che soffrono per gli altri, che aiutano coloro che sono nel bisogno, che partecipano ai dolori e alle tragedie che purtroppo colpiscono gran parte dell’umanità. Sono così esplosi e fioriti sentimenti di altruismo, solidarietà e amore che fanno veramente onore a coloro che li condividono con altri uomini, come fossero veramente fratelli.
Anche la Seconda guerra mondiale fece fiorire e rinsaldare un profondo sentimento di amicizia, di altruismo e di comprensione nei rapporti fra gli uomini. Ricordo fatti e situazioni capitati nell’ambito della mia famiglia o delle nostre conoscenze, come quando una granata sparata da oltre il fiume aveva distrutto il forno di una famiglia di nostri vicini. Ora, in quella casa dove vivevano dieci persone, non c’era più modo di cucinare il pane e la situazione era molto critica. Fu convocato mio padre che sapeva fare anche il muratore. Accettò, perché non aveva mai negato il suo aiuto a nessuno, nonostante i pianti e le suppliche di mia madre terrorizzata dalla paura. Il pericolo era costante, dalle colline sparavano a tutto ciò che era in movimento. E infatti una sera, mentre tornava a casa, una scarica di granate cadde proprio nel suo tragitto. Mio padre si trovò lungo disteso su un mucchio di zucche: era illeso, a differenza delle zucche sotto di lui, spaccate e sbriciolate. Aveva avuto fortuna.
Un altro episodio che ricordo è legato a un poveraccio che conoscemmo poiché viveva tutto il giorno in una postazione sulla via Emilia vicino a casa nostra, segnalando il pericolo di aerei nemici in volo. Il suo pranzo era un tozzo di pane. Noi avevamo poco, ma per tutto il periodo che rimase in quel posto, una scodella di minestra ci fu anche per lui. Poi non si vide più. Tornò all’improvviso un giorno, spaventato, chiedendoci di nasconderlo per un po’, perché era in pericolo. Il gruppo del quale faceva parte stava per essere trasferito in Germania e lui, malato come era, non voleva partire. Senza pensare al rischio che avremmo corso qualora venissimo scoperti, lo nascondemmo in un rifugio in mezzo alla campagna. Ogni tanto qualcuno gli portava da mangiare. Rimase nascosto cinque giorni, dopo di che si aggregò alla nostra famiglia e rimase fino a quando il fronte si avvicinò e lui si spostò in paese, vicino ai miei zii. Si chiamava Anzini Vincenzo ed era di Chieti. Non era tornato a casa dopo l’8 settembre, aveva preferito arruolarsi nell’esercito repubblichino, dove si era ammalato gravemente. Poiché non aveva niente per cambiarsi, nel periodo che rimase da noi, con la lana delle nostre pecore tinta di verde con erbe di campagna, gli confezionammo un maglione con cui passò l’inverno.
Era il 17 dicembre 1944 e proprio il giorno prima era saltato il ponte del Castello. Soldati tedeschi in giro non se ne vedevano. Eravamo tutti in cucina aspettando gli eventi, quando qualcuno bussò alla porta. Tre soldati armati di tutto punto ma vestiti in maniera diversa dai soliti tedeschi, ci interpellarono con un “bona sera famèja”, nel nostro dialetto. Erano tre soldati italiani, forlivesi, che tentavano di tornare a casa. Nessuno li aveva fermati durante il lungo trasferimento e non sapevano che il fronte ora era sul Senio, che Faenza era già liberata, che il ponte non c’era più e che il fiume, dopo le piogge di novembre, era in piena. Chiesero abiti civili per travestirsi. Era rimasto poco, perché dopo l’8 settembre avevamo finito i vestiti degli uomini per darli ai soldati che erano tornati a casa dopo lo smembramento dell’esercito. I tre tentarono la traversata del fiume ma tornarono avviliti da noi, che li ospitammo in un rifugio per la notte. Prima di mezzanotte, il parroco venne ad avvertirci che la mattina dopo alle cinque dovevamo liberare la casa. Nella fretta e nell’angoscia della partenza, dimenticammo i tre soldati addormentati nel rifugio. Eravamo già arrivati alla nostra destinazione quando qualcuno si ricordò dei tre ragazzi. Mio padre e sua sorella, che erano i più coraggiosi e i più forti, partirono di corsa per tornare a casa a svegliarli. Se fossero stati scoperti dai Tedeschi che avrebbero occupato la nostra casa in giornata, sarebbero finiti male. Li conoscevamo appena, non avevamo legami di parentela o di amicizia, ma erano esseri umani che condividevano la nostra sfortuna.
Oggi ci sentiamo tutti sfortunati e a rischio, chi più chi meno, non sappiamo quando e come ne usciremo, temiamo che la nostra bella libertà tarderà a ritornare, ma questa precarietà ha tirato fuori qualcosa di buono. Nel pericolo e nel disagio ci sentiamo più vicini. Speriamo di conservare almeno un po’ di questi buoni sentimenti anche in futuro.
Pubblicata in 5 puntate sulla pagina facebook Storia di Castel Bolognese dal 31 marzo 2020 al 20 aprile 2020
Lascia un commento