Ricordo di don Pietro Amadei (1864-1942), parroco di Biancanigo
di Angelo Donati
Una croce di marmo, con una dicitura quasi illeggibile, resa tale dalle intemperie e dalla incuria degli uomini, all’ombra di un salice piangente, al mormorio delle acque del “suo” canale riposa nel tempo D. Pietro Amadei, uno dei cari sacerdoti della nostra giovinezza che egli da buon saggio antico, definiva “diafana”, con una certa sottile ironia. Sacerdote di Cristo, ma perfetto latinista sì da imitare nelle sue odi e nei suoi distici, Orazio, Catullo e Virgilio (per l’ultimo dei quali aveva una predilezione speciale come “profeta pagano”) vedeva nella lingua di Roma la lingua madre della Chiesa che “univa in un corpo solo tutti i popoli”. Per le letture “familiari”, alcune delle quali serbiamo con cura, usava il chiaro stile ciceroniano unito alla bonarietà manzoniana. Sapeva nascondere saggezza e cultura nel suo tono dimesso del dire e dello stare che si faceva eloquente quando doveva trattare con le “anime” delicate da condurre, alla perfezione o diventava tagliente romagnolesco diremmo, quando doveva difendere in un tempo di eresia i principi della fede e della morale o la filosofia intramontabile di Tommaso, cantore del mistero Eucaristico.
Nato in San Pier Laguna (che lo zio mons. Taroni, morto in concetto di santità, sulle orme di D. Bosco, cantò con versi delicati e spontanei) nel 1864, seguì giovanetto la vocazione religiosa sotto la guida dello zio stesso ed entrò nel seminario di Faenza ove sviluppò il suo spirito nella Fede e nella cultura letteraria e filosofica, “beni universali”, “doni di Dio” che non sono in contrasto tra loro: ebbe a maestro mons. Baldassarri vescovo di Imola letterato e scrittore e mons. Berardi, filosofo e moralista di fama mondiale. A 31 anni era già cappellano a Biancanigo e dopo un periodo di economato (nell’interregno fra due parroci) fu nominato egli stesso curatore della Parrocchia che l’ebbe per quasi dieci lustri buon pastore e padre amorevole di pecorelle, a volte sbandate dalle nuove ideologie. Noi lo abbiamo conosciuto che era già una pianta risecchita per vita rigorosa e povera che conduceva e lo studio che lo assorbiva anche parte della notte, studio legato alle pratiche pastorali e alla guida delle anime. Si era creato una ricca biblioteca che fu lasciata in eredità ai PP. Cappuccini del nostro paese “per le solerti cure svolte nella ma Parrocchia” e che purtroppo la guerra ed il disinteresse degli uomini hanno disperso. Essa comprendeva testi filosofici di ogni tendenza e di lettere specialmente latine che costituivano una sua oasi di evasione: qualcosa è stato salvato: si trova ammucchiato alla men peggio in convento. C’è una memoria nell’archivio parrocchiale di Biancanigo che ricorda questa donazione di grande valore culturale e sentimentale che andrebbe recuperata per rimetterla in sede; ma con i tanti problemi odierni, chi può pensare a ciò?
Viveva in povertà francescana, distribuendo ciò che ricavava dai beni parrocchiani tra i poveri, i bisognosi di ogni estrazione politica, e i seminaristi dei quali assumeva la retta: era l’Apostolo, all’apparenza rozzo e sciatto, che preparava con la preghiera e con l’aiuto materiale i futuri apostoli di Cristo. Molti sacerdoti del nostro tempo, non tutti di famiglie religiose devono a lui la loro vocazione spirituale; molte religiose dovettero alla sua perspicacia ed alla sua guida la scelta delle “vergini sagge” al servizio di Dio e dei fratelli.
Nessuno era respinto dalla sua porta sempre aperta ai tormentati dello spirito ed ai delusi: dopo un colloquio, magari alla romagnola, ognuno tornava sereno e rassicurato. Noi che gli siamo stati vicini, che gli abbiamo chiesto tante volte consiglio don Amadei ora si staglia come figura spirituale di prima grandezza. Lo ricordiamo alla stessa maniera d’un tempo: alto solenne, bonario, il volto scabro e rugoso, gli occhi celesti intelligenti affossati dalle lunghe ciglie, rimpiccioliti dallo studio e dalle veglie notturne, la talare lisa, dimessa resa verdastra dall’uso, la bocca atteggiata al sorriso.
Fu il buon “padrino” di Biancanigo che ci aprì la mente alle bellezze della letteratura latina ed alle profondità della filosofia e della teologia dell’Aquinate, allora non di moda a causa dell’irrompente idealismo crociano.
Parlavamo lì, presso l’angolo del giardino che coltivava con cura, dove profumava (e ci teneva tanto) l’issopo della Palestina, su una dura panca di pietra. Poi la vita ci prese e ci portò lontano: rimanemmo però legati da affetto e ci scambievamo “epistole”, lui in latino ed io in volgare e magari in romagnolo. In una delle ultime gli ricordavamo la sua cultura lirica con una certa enfasi e lui di rimando ci tirava le orecchie perchè “certe cose non erano da scrivere ad un povero prete” che “non meritava di essere ricordato in nessun modo“.
Poi più nulla. Improvvisa, sebbene “vecchio d’anni e di candido crine” la notizia: il “padrino era morto”, presso la finestra contemplando il cielo con l’ansia di incontrarsi con Dio e con la Madre celeste alla quale aveva dedicato sullo stile di Orazio nel “solemna tercentenaria ab asiatica lue depulsa“. Era il 10 aprile 1942: lo stesso giorno di Aprile, quarant’anni prima, nel seminario di Faenza, nello stesso modo, era deceduto mons. Taroni lo zio che aveva cantato “la mia laguna è là” e che egli ammirava come un santo. Una strana coincidenza forse chiesta all’Eterno dallo stanco operaio che aveva tanto operato nella piccola parte della Vigna immensa del Signore. A noi restano come ricordo alcune lettere, alcune meditazioni del Sales donateci in una visita al “monsignore” contro sua volontà ed i suoi versi: con la menzionata lode alla Vergine ricordiamo “In Puccam“, località assai nota allora per le sue acque minerali e le scampagnate domenicali e l’Ode in occasione della prima messa del sacerdote Edmondo Zaccherini. E ci resta l’eco della sua bontà e del suo consiglio che ci diressero nella gioventù svagata a buona meta morale, sociale e religiosa.
Molto di ciò che abbiamo di sincerezza e di fede lo dobbiamo a lui che è bene ricordarlo fu la guida spirituale di quell’istituzione paesana che fu D. Antonio Garavini.
Testo tratto da Vita castellana, giugno 1978
Lascia un commento