Storie di sminatori castellani: Giancarlo Casadio (1927-1945)
Vari furono i castellani che, a guerra finita, decisero di partecipare alla delicata e pericolosa opera di sminamento del territorio che per lunghi mesi era stato occupato dai tedeschi. Alcuni di loro persero la vita: Lieto Beltrani (morto a 18 anni e 8 mesi), Pietro Gentilini (morto a 20 anni e 11 mesi) e Giancarlo Casadio (morto a 17 anni e 11 mesi). Quest’ultimo era alle dipendenze di un ente privato mentre i primi due erano inquadrati nel Comando di zona Emilia Bonifica Campi Minati, Sotto zona di Forlì.
Davvero emblematica è la storia di Giancarlo Casadio, che era nato il 9 luglio 1927.
Dopo aver frequentato le scuole tecniche Alberghetti a Imola, aveva trovato lavoro presso le Officine Minganti di Bologna, che raggiungeva quotidianamente. Poi con l’approssimarsi del fronte e la perdita del lavoro, per far fronte alla miseria sempre più stringente, il giovanissimo Giancarlo fu convinto da alcune persone ad arruolarsi nell’esercito repubblichino. Fu quindi inviato in Germania, assieme ad un altro giovane amico castellano che si era arruolato con lui, per un periodo di 6 mesi di istruzione bellica. Tornò a casa in licenza nell’autunno del 1944, quando i familiari erano già rifugiati nelle cantine: preannunciò loro l’intenzione di disertare non appena si fosse presentata l’occasione, mettendoli in guardia sul fatto che se l’avessero ricercato entro 3 giorni sarebbe stato in grave pericolo, altrimenti l’avrebbe passata sicuramente liscia.
Qualche tempo dopo Giancarlo, che si trovava nella zona di Modena o Parma, approfittò di un momento di confusione su un treno per fuggire. Tornò velocemente a casa per avvisare i familiari della fuga, e subito si nascose presso una zia di Imola. Dopo due giorni i repubblichini si presentarono dalla famiglia per chiedere notizie di Giancarlo: la madre inscenò un pianto per convincerli che non sapeva nulla del figlio, mentre la giovane sorella Maria fu anche accompagnata in bagno per tenere sotto controllo eventuali movimenti sospetti.
Appena fu possibile, Maria si recò a piedi ad Imola, camminando nei fossati, per informare il fratello dell’avvenuta perquisizione: i pericoli affrontati furono enormi per lei, e durante il viaggio di ritorno sfuggì per pochi secondi allo scoppio di una bomba. Giancarlo, dopo l’avviso della sorella, per essere più sicuro, decise di spostarsi dal suo rifugio e di nascondersi presso alcuni parenti a Felisio di Solarolo, dove rimase fino alla Liberazione.
A guerra finita, una volta tornato a casa, andò a lavorare a Riolo per i soldati polacchi. I compagni di lavoro, però, lo sfottevano pesantemente dandogli del “repubblichino”. Giancarlo non riuscì a sopportare la cosa, e dopo 2-3 giorni tornò a casa annunciando ai familiari l’intenzione di diventare sminatore, per lavare così la macchia che sentiva dentro.
Dopo un corso di 15 giorni a Forlì, iniziò la sua opera di sminatore, che durò, però, per pochi giorni. Dopo un primo lavoro nella frazione del Ponte del Castello, fu inviato a Tebano e poi di nuovo al Ponte. Il 13 giugno 1945, mentre stava sminando nel podere della famiglia Lega (i “Milena”), dopo aver disinnescato parecchi ordigni, incappò in tre mine a grappolo e mentre stava disinnescando la prima causò lo scoppio della seconda, rimanendo gravemente ferito; prontamente soccorso, fu portato all’ospedale di Faenza. La voce si sparse presto a Castello e la madre, mentre si trovava in una bottega, sentì dire da alcune donne “povero ragazzo, così giovane”. Il cuore le disse subito che si trattava di suo figlio, e cominciò a correre verso Faenza a piedi. Maria la raggiunse con una bicicletta da uomo e la caricò sul “cannone”. Raggiunto l’ospedale, trovarono Giancarlo ricoverato alla meglio nell’atrio, presso la penultima colonna a sinistra: era ferito ad una mano ed aveva un piccolo foro, simile ad un’asola, vicino al cuore.
Morì poche ore più tardi, dopo essersi raccomandato di pensare all’assicurazione.
E proprio mentre era in corso il suo funerale, qualcuno si presentò a casa di Giancarlo per far firmare delle carte. Non trovando nessuno, le fecero firmare a un vicino di casa e a un giovane analfabeta. Ne conseguì che la madre non vide riconosciuto il diritto alla pensione, e solo dopo molti anni riuscì ad ottenere qualcosa.
Il nome del diciottenne Giancarlo Casadio, assieme a quello dei castellani Pietro Gentilini e Lieto Beltrani (oltre a quello del faentino Franco Bianconcini morto in servizio a Castel Bolognese) è ricordato su una lapide dedicata ai rastrellatori di mine caduti in Romagna, posta in piazza Garibaldi a Ravenna. Fu anche grazie a lui, come recita la lapide, che tornò “a fiorire la terra”.
Andrea Soglia
(da una testimonianza di Maria Geminiani, sorella di Giancarlo, raccolta il 26 novembre 2014)
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