Quando Zagliòna e Brandolino andarono al taglio della testa

Mia nonna Oliva, di cara memoria, mi à, più di una volta, raccontato l’episodio della decapitazione di Pirazzini Giovanni, detto Zagliòna e di Antonio Gaddoni, detto Brandolino eseguita a Castelbolognese. Era, si capiva subito, l’avvenimento più emozionante a cui ella avesse assistito nella sua lunga vita: è morta nel 1922 essendo nata nel 1836.

Quante volte me lo sono fatto ripetere. Fu la mattina presto, sulle sette, e faceva un gran freddo. La galuténa (la ghigliottina) era rizzata in piazza e precisamente contro la torre dell’orologio, dal lato destro. La campana maggiore cominciò alle sei a suonare lenti e funebri rintocchi.
Oh, il senso che faceva quella campana! Chè tutto il paese sapeva: Jè Zagliòna e Brandulè chi va a e’tai dla testa.

Da tempo ogni speranza era caduta e si attendeva il carnefice da un giorno all’altro. La grazia, sollecitata in tutti i modi a cui le sventurate famiglie avevano fatto ricorso, era stata respinta.
I soldati austriaci, cun al baiunètt in cana, tenevano sgombro un vasto quadrato avanti il patibolo. La piazza era gremita di popolo silenzioso. Molte donne piangevano. Si levò un brusio indistinto: arrivavano i condannati. Zagliòna procedeva tra i soldati spedito, le mani legate dietro la schiena, la camicia aperta sul petto. Era alto, un po’ calvo, con una gran barba nera. Brandolino era livido. Il boia chiudeva il lugubre corteo, due suoi aiutanti si tenevano immobili vicino al palco.

Oliva, per vedere, si era intrufolata fra la gente ed era così pervenuta proprio dietro ai soldati. Ne trovò uno gentile: l’ éra un biundè, con gli occhi chiari, più tosto giovine, che sbirciava ogni tanto con la coda dell’occhio quella romagnolotta bruna che, talora, premuta dalla folla, lo urtava. E le sorrideva da sotto i mustacchi fini e biondi. L’era un tudesch zintil, chè i più erano cattivi come gli accidenti.
Quando i condannati comparvero, rullarono i tamburi e la campana si mise a suonare a martello. Si udirono delle grida, dei pianti, forse qualche saluto, forse qualche imprecazione. La nonna non sapeva bene, chè lo strepito dei tamburi copriva ogni cosa ed ella era come impietrata, gli occhi sbarrati sulla scena.

Il primo fu Brandolino ridotto un cencio tanto era sfatto di terrore con le mascelle inchiodate in una smorfia paurosa. Ma Zagliòna no. Come venne la sua volta, salì i gradini del palco, e apparve in alto. Tutti Io videro. Si guardò intorno. Era soltanto pallidissimo. Lo fecero inginocchiare e non si vide più, ma fu un attimo e si levò dalla folla un confuso clamore: la testa del condannato spiccava sinistramente dalla lunetta fatale e pareva accennasse in alto. Ecco: la barba, fluente, era rimasta presa sotto e il condannato si sforzava di liberarla tentando di alzare il capo imprigionato. Così lo colse la fatal bipenne che lo liberò per sempre e la testa sparì. Oliva non respirava più, non si reggeva più; non vide neanche il todesco gentile che provava a rianimarla d’ un sorriso.

-Quanti anni avevate, nonna?
-Ero una burdléta; deve essere stato l’anno del colera.
Nonna, se tu fossi al mondo, mi siederei con te accanto al fuoco e ti spiegherei le Sentenze di Zagliòna e di Brandolino, adesso che le ò trovate. Tu non ti eri sbagliata che di poco! L’anno del colera fu il 1855 e 1’ esecuzione è del 19 dicembre ‘54; tu dunque avevi dieciotto anni.
-E perchè, nonna, li mandarono al taglio della testa ?
-I géva par la pulética.

Francesco Serantini

Tratto da La Piè, n. 1, gennaio 1931

Oliva Diversi (1836-1922)

Oliva Diversi (1836-1922): la fonte orale, da cui il Serantini ha spesso tratto ispirazione per molte vicende dei suoi romanzi. E’ la “nonna Oliva”, che raccontava a lui bambino le gesta leggendarie. Aveva assistito alla decapitazione di “Zagliòna” e aveva visto a Castelbolognese il cadavere del Passatore, caricato su un birroccio e portato in giro per la Romagna, perchè tutti lo vedessero.


Siamo nel 1854, a Roma, nel Palazzo Innocenziano, quello stesso che diventerà poi la sede del Parlamento italico, ove il cavaliere Bernini aveva profuso le dovizie del barocco e del suo ingegno per farne la reggia di una donna che comandava al mondo dietro una tiara: Olimpia Maldacchini, la bellissima la perversa la lussuriosa cognata e amica di Giovan Battista Pamfili romano pontefice col nome di Innocenzo X. Un altro Innocenzo, il duodecimo, il napoletano Pignatelli, per reazione al nepotismo del suo predecessore, farà. più tardi trasformare da Carlo Fontana la reggia magnifica in sede dei tribunali.

E’ il giorno di venerdì 6 febbraio 1854 e il primo turno del Supremo Tribunale della Sacra Consulta è riunito nella grande aula del Palazzo Innocenziano di Montecitorio per giudicare in merito alla Causa intitolata: “Castelbolognese di omicidio in persona di Giovanni Budini”. Il fatto di cui si deve conoscere è avvenuto sette anni prima, nel 1847.

Entrano gli lllustrissimi e reverendissimi giudici. Ecco monsignor Salvo Maria Sagretti, il temuto Presidente, seguito dai giudici monsignori: Costantino Borgia, Domenico Bartolini, Giuseppe Arborio Mella, Lorenzo Valenzi, Gaetano De Ruggiero. Prendono posto monsignor Pietro Benvenuti Procuratore generale del Fisco, e della Reverenda Camera Apostolica e il difensore d’officio dell’imputato avvocato Lorenzo Fieri. Il Cancelliere Castelli chiama la causa contro Pirazzini Giovanni, detto Zagliòna, di Michele, di anni 43, nato e domiciliato a Castelbolognese, fattore, coniugato con prole.

Si levano le dovute preci all’ Altissimo e subito viene introdotto l’inquisito libero e sciolto. Monsignor Bartolini fa il rapporto, cioè la relazione, della causa, il Presidente interroga l’imputato, monsignor Fiscale prende le conclusioni, il difensore propone le discolpe, si chiude la discussione e restano soli i gudici per deliberare.

Giovanni Budini era da vari anni contumace, per furti e grassazioni, quando la Guardia Civica di Castelbolognese, di cui il Pirazzini era tenente e comandante, riuscì ad arrestarlo il 28 settembre 1847. Oppose una resistenza accanita, tanto che la Forza si vide costretta a reagire e lo ferì con una fucilata. Chiuso nelle carceri, il Pirazzini, con la scusa che queste erano mal sicure, la mattina dell’11 ottobre caricò il prigioniero su di un biroccio per trasportarlo in Imola. In località Torretta fu fatto scendere, gli fu ingiunto di camminare innanzi e mentre così andava il Pirazzini, ché capeggiava la scorta, gli esplose alla schiena la sua schioppa, uccidendolo. In paese, fecero correr voce che il Budini era stato ucciso perché aveva tentato darsi alla fuga alla vista di sconosciuti i quali venivano in suo aiuto. Su tale difesa l’imputato persistette sempre, ma pare che testimoni lo smentissero.

Movente: l’odio verso il Budini per i misfatti commessi, accresciuto per via della resistenza opposta al momento dell’arresto. Tutto ciò premesso, “visto e considerato quant’altro era a vedersi e considerarsi” visto l’art. 275 del Regolamento penale, il Supremo Tribunale, a pieni voti, condannò il Pirazzini “all’ ultimo supplizio”.

Il 27 maggio 1854, giorno di sabato, lo stesso primo turno del Supremo Tribunale, composto nell’identico modo, giudicò la causa dal titolo: “Castelbolognese di Omicidi” contro Pirazzini Giovanni, detto Zagliòna; Zaccarini Antonio, detto Gnocca; Dari Giovanni, detto il figlio del Zoppo Bronzino; Zannelli Domenico, detto Cesarino; Pediani Antonio; Capra Giovanni; Borghi Carlo, detto Barullone; Gaddoni Antonio, detto Brandolino; Sangiorgi Francesco, detto Segone; tutti carcerati e Paolo Pirazzoli contumace.

Il fatto, in breve, era il seguente: il 26 febbraio 1849 il conte Gaetano Zampieri, Giuseppe Spadoni e Giovanni Conti denunziavano al Tenente della Guardia Civica Pirazzini che, in parrocchia Castelnuovo, erano stati aggrediti da quattro malandrini armati, derubati del denaro, nonché di cavallo e biroccino. Il Pirazzini, nutrendo forse dei sospetti, arrestò certi Gio Batta Gaddoni, Antonio Signani e i fratelli Ruggero e Giacomo Casadio. Era vicina l’Ave Maria e i militi si incamminavano verso Castelbolognese, quando il Pirazzini ordinò che tutti volgessero in un campo attiguo e ivi giunti tentò di ottenere la confessione del misfatto, minacciando di farli fucilare sul posto. Persistendo quei disavventurati nel proclamarsi innocenti, il Tenente, fatti schierare i suoi uomini, ordinò la scarica. Cadono Casadio Giacomo e il Gaddoni, mentre Signani e Ruggero Casadio riescono a darsi alla fuga, arnmanettati com’erano, inseguiti dai Civici. Intanto il Gaddoni, che era rimasto illeso e si era in vece rovesciato a terra come se fosse stato ferito, profittò del momento per darsi alla fuga. Gli altri due furono raggiunti e fu ripetuta su di loro la scarica che uccise il Casadio, ferendo gravemente il Signani. Tolsero a entrambi le manette e se ne andarono lasciandoli sul terreno. Il Signani riuscì a trascinarsi a casa, di là fu portato all’ospedale donde passò al carcere da cui fu poscia dimesso in libertà.

La difesa del Pirazzini fu la solita: il tentativo di fuga da parte degli arrestati. Ma, intanto, dovette egli stesso confessare un particolare gravissimo: che, cioé, egli non aveva avuto alcun ragionevole indizio, nè in seguito lo aveva acquistato, in base al quale procedere all’arresto dei quattro, arresto che apparve dunque arbitrario. Signani e Gaddoni, scampati miracolosamente alla morte, lo accusarono esplicitamente confortati, sembra, da quattro testimoni presenti al fatto.

Antonio Gaddoni e Francesco Sangiorgi furono assolti “perché non constò abbastanza della specifica colpabilità loro”. Pirazzini fu condannato “all’ ultimo supplizio”. In base alla nostra legge penale i soldati i quali avevano eseguito l’ordine del loro comandante sarebbero andati immuni da pena. In vece, Zaccarini, Dari, Pedìani e Borghi, furono condannati “alla galera in vita” Zannelli a venti anni, Capra a quindici, data la loro età minore rispettivamente dei 20 e dei 18 anni. Sono dunque già due le condanne a morte che pesano sul capo di Pirazzini Giovanni. In entrambe le Sentenze è detto che “non consta abbastanza dello spirito di parte”. Sembra adunque che qui la politica non sia entrata. Certo non è difficile ritenere che il Governo Pontificio restaurato sulla punta delle austriache baionette, avesse una matta voglia di disfarsi di tutti coloro i quali “al tempo della isfrenata licenza” avevano eretti sulle piazze gli alberi della libertà sormontati dal berretto frigio. Ma, onestamente e per storica obiettività, non si può disconoscere come il Pirazzini abbia in effetto commesso condannevoli abusi là dove l’arbitrio e la violenza offendono le leggi patrimonio e tutela supremi dei cittadini.


Gaddoni Antonio, detto Brandolino, detto anche il figlio del buon ladrone, per questa volta l’aveva scampata.  Ma la sua gioia fu breve. Quel dì stesso il medesimo Tribunale si riunì di nuovo per conoscere e giudicare altra causa dal titolo: “Castelbolognese, omicidio in persona del dottor Francesco Contoli”. Stavolta Brandolino si buscò una condanna a morte, votata a maggioranza. Non era ancora l’irreparabile. Le sentenze della Sacra Consulta erano inappellabili, ma, a mente dell’art. 550 del Regolamento Organico e di Procedura criminale, qualora la sentenza fosse stata pronunciata a maggioranza di voti, era consentito al condannato il ricorso avanti lo stesso Tribunale che giudicava a turni riuniti. Il male consisteva in questo che, cioè, del nuovo Collegio di revisione facevano parte anche giudici del primo. Brandolino adunque ricorse in appello, ma la sorte gli fu avversa. Era scritto che, per qualche verso, quella testa dovesse cadere.

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