Personaggi singolari: Tac
Le promesse sono come i debiti: i debiti vanno pagati, le promesse vanno mantenute e allora parliamo di TAC.
Tac, Sante Alvisi, nato nel 1908 e morto nel 974, viveva con un fratello, Francesco Casadio Alvisi, nato nell’897 e morto nel 984, uomo scontroso, ispido come un istrice, diffidente, ombroso: era chiamato Pagan: forse il soprannome ne riassumeva in una parola il carattere e i comportamenti. Era il fratello maggiore e quindi esercitava su Tac un’autorità che rasentava la tirannia, perché Tac passava per un sempliciotto, incapace di districarsi fra le maglie in cui è impastoiata la vita quotidiana, bisognoso quindi di chi lo aiutasse a difendersi dalle pastocchie, ché di birbanti a ‘sto mondo ce n’è tanti che cercano di vivere alle spalle dei meno provveduti. E forse il primo birbante che viveva alle spalle di Tac era proprio Pagan.
C’è un piccolo mistero nel cognome di Tac e Pagan: perchè Tac Sante Alvisi e Pagan Francesco Casadio Alvisi se il padre dei due era Angelo Casadio Alvisi? Ho voluto nasare Un po’, ma quando si va prima del 1886 tutto diventa buio; bisognerebbe frugare nei registri dei battezzati, ammesso che tutti gli archivi parrocchiali si siano salvati dalle distruzioni belliche e da altri eventi calamitosi e così sono rimasto con i miei dubbi. Un’ava aveva il cognome Alvisi, ma questo non spiega il doppio cognome; e poi come si è perduto il cognome Casadio quando è nato Sante? Un errore? Una dimenticanza nella trascrizione? Se qualcuno vuol provarsi a decifrare questo piccolo mistero, si accomodi e il merito sarà tutto suo.
Gli abiti, le camicie, le scarpe dei due fratelli erano grossolani, rattoppati, però Pagan, che godeva delle cure della moglie – Tac era scapolo -. andava vestito più a modo, si direbbe quasi con una certa ricercatezza, una qualche civetteria per quella lunga catena che sopra il corpetto, d’estate e d’inverno, gli attraversava la pancia un po’ sporgente – Tac era asciutto come un’aringa – e reggeva un orologio a cipolla, che, mentre ciabattava rumorosamente lungo i portici, consultava di frequente traendolo dal taschino sinistro.
Qualche volta appariva sbarbato e con i capelli tagliati da un barbiere; si aggirava solo, come un cane ringhioso, grugnendo fra sé e sé insolenze contro qualcuno e contro tutti, poiché tutti gli uomini lo infastidivano per il solo fatto di esistere. D’estate portava un paio di sandali di tela, mentre Tac si annunciava sempre con il suo passo ferrato: infatti la pianta delle sue scarpe era piena di bullette e ben grosse, perché la suola non doveva consumarsi. Naturalmente pesavano molto, ma che importanza aveva il peso? tanto toccava a Tac trascinarsele dietro! Barba generalmente ispida, incolta come i capelli che, si diceva – e senz’altro corrispondeva a verità – ci pensasse Pagan a raccorciare con un paio di forbici poco taglienti.
Parlava a monosillabi smossicati ed era difficile che riuscisse a imbastire un discorso in cui più frasi Si sviluppassero secondo un filo logico e non giustapposte e legate solo dagli “ah” nasali ripetuti come i “cioè” di molti nostri giovani. Era fondamentalmente buono e per questo credeva che anche gli altri lo fossero e non riteneva possibile che molti si divertissero alle sue spalle giocandogli tiri mancini o imponendogli i lavori più umili e faticosi. Quando qualcuno lo tormentava, si poneva le mani a difesa del volto e “l’at’ me stê boja: me te fat gnit, boja (lasciami stare, birbante: io non ti ho fatto niente)!” Era un gran lavoratore: certo aveva bisogno di essere indirizzato, direi quasi guidato, ma non si concedeva riposo. Dopo la guerra, occupato nei cantieri Fanfani, faceva più lavoro lui e bene che tutta la squadra messa assieme e certamente era riconoscente per quel piatto caldo di minestra che a mezzogiorno gli veniva preparato. I suoi soldi? Li amministrava Pagan e certamente per le mani di Tac ne passavano pochini. D’altra parte diceva Pagan “che se ne deve fare dei soldi? Tac non ha vizi: bere? Non beve (per forza non ne aveva!); non fuma; le donne gli fanno paura. Le scarpe le ha; anche i panni e quindi…”. Però, proprio a proposito di donne, un gruppo di buontemponi decise di giocargli un tiro mancino e di divertirsi alle sue spalle. I componenti di quel gruppo erano degli abitué delle case chiuse in quel di Imola. Si accordarono con la tenutaria e le ospiti della casa per portarvi Tac. Gli raccomandarono di lavarsi bene; gli rasero la barba e gli fecero tagliare per bene i capelli, gli fecero indossare i panni migliori – le scarpe erano le solite, ma ben ripulite e lucidate – e lo portarono a Imola da “cal burdëli”. Tac fu accolto come un gran signore. Le ospiti, tutte profumate con essenze forti, voluttuose, gli si affollavano intorno; gli danzavano davanti con vesti vaporose che lasciavano trasparire le loro forme. Tac era piuttosto frastornato e inebriato. Provava l’istinto di scappare, perché non capiva che gli stesse accadendo, e però come fuggire?…
“Me voj andê Ca” (Voglio andare a casa). “Ma non stai bene qui?” “Sê, ma me voj andê ca”. E lo portarono via. “Parchè tóti bëli babin, tot udôr, sta sempar ca? Me gnit vest par stré” (Perché tutte quelle belle bambine, tutto profumo, stanno sempre in casa? Io non ne ho visto per strada) Ed ecco perché, dopo quella esperienza, se per strada incontrava due o tre ragazze insieme, indicandole, a qualcuno che gli passava vicino, diceva: “Vit bëli babin, tot udôr!”. Per lui voleva essere un complimento, un attestato di ammirazione.
Sulla sua morte corsero voci strane; ma oramai è passato tempo, tanto…
[…]
Emilio Gondoni
Testo tratto da: Linea Diretta, anno V, n. 1, marzo 1997.
Fotografie gentilmente concesse da Tonino Bosi (pubblicata il 21 febbraio 2015) e da Emilio Bosi (pubblicata il 23 luglio 2015)
Lascia un commento