E smarì ‘d Catarnò: un furbo al servizio di Caterina
E smarì ‘d Catarnôn l’andeva a tartofla cu un bò, il tonto di Caterinona andava a trifola con un bue; Fé e smarì ‘d Catarnôn, fare il tonto di Caterinona cioè il finto tonto, sono due coloriti modi di dire romagnoli per descrivere una persona che finge d’essere un po’ ritardata per ricavarne notizie o vantaggi da sfruttare. Pare tuttavia provato che il modo di dire tragga la sua origine da una verità storica: si tramanda infatti di persone finte tonte inviate per le nostre campagne da Caterina Sforza le quali, proprio per il loro modo di fare, venivano accolte nelle case e provocavano i contadini a parlare del governo cittadino; costoro, vedendo il (finto) ritardo mentale della persona, si lasciavano di conseguenza scappare in libertà male parole che, puntualmente il (finto) tonto riferiva a Caterina. La scaltra signora di Imola e Forlì, vissuta alla fine del secolo XV, veniva così informata dell’umore dei cittadini e poteva pertanto prendere le opportune decisioni anche per reprimere i pericolosi oppositori.
Resta dunque da chiederci chi fossero queste persone che si prestavano a far da delatori; è probabile che tra questi, oltre ad alcuni italiani, probabilmente nei posti di comando, vi fossero anche degli stranieri che in tal modo univano, al fare il (finto) tonto, anche la difficoltà nel parlare dovuta alla lingua poco conosciuta, tutti comunque al soldo della bella Caterina. Quale miglior garanzia dunque, per il popolo scontento, poter sfogarsi con un povero (finto) scemo che neppure poteva capire ciò che gli si stava dicendo? Nell’archivio notarile di Castel Bolognese ho reperito un curioso documento in proposito: il 16 giugno 1498 il solito notaio Babone Ramberti, nostra conoscenza, roga un atto, nella farmacia di Pietro Pallantieri col quale Balduccio di Castel Bolognese e Gualtiero Gualtieri di Castel Bolognese promettono a Babino fu Naldo di Tasutti di Vezzano abitante a Castel Bolognese di non più offendere ser Ceccone e i suoi fratelli, figli del fu Scipione da Tossignano, né Monte fu Monti e Baldassarre di Ferrara nonché Palamone, albanese, arciere stipendiato da Caterina Sforza signora di Imola e Forlì. Il bravo Palamone potrebbe proprio essere un smarì ‘d Catarnôn: ne avrebbe tutti i requisiti: soldato di Caterina, straniero e girovago per le nostre campagne, può essersi imbattuto negli ignari Balduccio e Gualtiero i quali si sarebbero lasciati scappare qualche malevolo apprezzamento sulla Signora per il quale poi lo spione gli avrebbe fatto passare un brutto quarto d’ora; riconosco di star lavorando molto con la fantasia, tuttavia spesso la storia è più vicina a certe congetture di quanto non ci possa sembrare. Quale differenza ci trovate tra queste vicende e le trame spionistiche della CIA o del KGB?
Merita concludere questi brevi pensieri con un ritratto di questa grande donna della storia italiana. Caterina Sforza (1463-1509) era figlia di Galeazzo Maria (1444-1476), a sua volta figlio illegittimo di Francesco (1401-1466) duca di Milano e nipote del capostipite Muzio Attendolo da Cotignola. Caterina sposò Girolamo Riario signore di Imola e Forlì e successivamente, nel 1496, Giovanni de’ Medici dal quale ebbe il figlio Giovanni dalle Bande Nere. Dopo aver perso Imola, nel 1499 difese accanitamente Forlì contro Cesare Borgia, ma finì coll’essere vinta. Nonostante un dipinto conservato nella Pinacoteca di Imola ce la ritragga delicata nei lineamenti e con uno sguardo innocente e quasi smarrito, storia e leggenda la disegnano come una virago coraggiosa ed indomita ma tuttavia crudele, efferata e dissoluta. Parlerebbero tuttora di lei i fantasmi dei tanti nemici, oppositori od amanti gettati nei pozzi a rasoio delle rocche di Imola, Riolo, Monte Poggiolo e Castrocaro che di quando in quando apparirebbero vagare in quelle fortezze. La bella Caterina avrebbe addirittura sfidato il diavolo che in una sola notte le avrebbe costruito l’elegante Palazzo Sersanti che fronteggia sulla piazza di Imola. Verità o leggenda, Caterina rimane l’ultima Signora della Romagna rinascimentale.
Paolo Grandi
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