Il grido di Sandro Pertini nei ricordi di Pietro Costa

di Stefano Borghesi

A partire dal 1925 la dittatura fascista compie una svolta radicale nella direzione totalitaria. L’approvazione delle leggi liberticide e l’istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato costituiscono una minaccia ed una sfida ad ogni forma di opposizione. La repressione del dissenso assume l’aspetto di una persecuzione, che costringe l‘antifascismo all’azione clandestina e alimenta le file dell’emigrazione politica.

Pietro Costa, venuto a Milano in cerca di lavoro, si trova al fianco di altri anarchici impegnati nella propaganda e nella lotta contro il regime. Il suo apprendistato antifascista risale ad alcuni anni prima: già nel ‘23 è stato licenziato dalla Ferrovia per la condotta politica e per l’adesione agli scioperi.
A Milano il gruppo anarchico è impegnato a dar vita al cosiddetto “soccorso rosso”, per la diffusione di opuscoli di propaganda e la distribuzione di denaro alle vittime politiche e ai loro famigliari. E’ un’attività rischiosa, che si spinge fino a Verona e alle località limitrofe e che è collegata con gli antifascisti italiani emigrati in Svizzera. Giuseppe Peretti, un ferroviere residente a Bellinzona, cittadino svizzero, mantiene i contatti tra le vittime politiche d’oltralpe e gli anarchici italiani. A Milano il Peretti viene spesso ad incontrare Pietro Costa, che si nasconde sotto il nome di Pietro Pasini, per la consegna del denaro raccolto all’estero.

A lungo andare la polizia raccoglie alcuni indizi e si mette sulle tracce del gruppo anarchico. La sera del 26 gennaio 1929 il Costa viene visto al Caffè “Gino” a Porta Volta con due sconosciuti, tra i quali verrà poco dopo identificato Giuseppe Peretti. La trama del “soccorso rosso” finisce ben presto sotto il controllo della polizia. Nel corso degli interrogatori, che precedono il procedimento penale, gli inquirenti vogliono conoscere a tutti i costi nomi e fatti dell’organizzazione “sovversiva” e si procurano le prove sufficienti per trascinare gli imputati davanti al Tribunale speciale, per il reato di “ricostituzione del partito anarchico” (1).

Il giovane Costa deve affrontare una delle esperienze più difficili della sua vita, un vero trauma che lo perseguiterà a lungo come un incubo. Messo a confronto con gli altri imputati, di fronte alle prove schiaccianti e alla morsa stringente degli interrogatori, gli diventa impossibile tenere nascosta la propria identità e fingere di ignorare i compagni coinvolti nella medesima accusa. Ciò è sufficiente per esporlo alle critiche di quanti, mossi da personale rancore, contribuiscono a diffondere un’interpretazione distorta dei fatti. Ma sull’antifascismo irriducibile, che Pietro Costa ha scontato sulla propria pelle, non ci sono dubbi; lo stesso non può dirsi di alcuni suoi avversari, che hanno atteso il passaggio della bufera per atteggiarsi a paladini delle libertà riconquistate.

Più tardi, a Lecce, Pietro Costa condividerà il carcere con molti compagni comunisti, di cui potrà ammirare il coraggio, lo spirito di sacrificio e di solidarietà. Sarà un incontro fondamentale, che gli aprirà nuove prospettive di lotta contro il fascismo e che gli farà abbracciare la stessa fede politica di Antonio Gramsci, allora languente nel carcere di Turi. Nuova esca si offrirà al rancore di avversari ed ex compagni. Ma Pietro Costa, si sa, è sempre stato una persona scomoda a molti del suo paese, soprattutto a quanti non hanno mai conosciuto confini tra mormorazione ed infamia.

Il 30 novembre 1929, Pietro Costa e gli altri anarchici, finiti nel carcere romano di Regina Coeli, vengono trasferiti ai Palazzo di Giustizia (il cosiddetto “Palazzaccio”), per essere giudicati dal Tribunale speciale. Presiede Antonino Tringali Casanova, uno dei fedelissimi del regime, che diverrà ministro della Giustizia nella repubblica di Salò.

Gli imputati vengono rinchiusi in camera di sicurezza, in attesa della conclusione di un processo apertosi alle 9 di quella stessa mattina. Questo è il ricordo che Costa ci ha tramandato: “… Si stava “celebrando” un processo contro un antifascista, di cui non conoscevamo il nome. Dopo poco udimmo un grido: “Viva il socialismo”, seguito, fra uno scalpiccio sul pavimento di legno (erano i carabinieri che tentavano, come di solito, di impedire al recluso di gridare), da un “Abbasso il fascismo”… Un attimo dopo si spalancò la porta e ne uscì il condannato quasi buttato tra le braccia del maresciallo dei carabinieri che comandava la nostra scorta. Pertini, lo sapemmo dopo che era lui il condannato, fu accompagnato nella camera di sicurezza in attesa che finissimo noi, per riportarci tutti a Regina Coeli…” (2).

Sandro Pertini, mal sopportando l’esilio in Francia, è entrato in Italia con un passaporto falso nel marzo del 1929. Viene arrestato a Pisa in seguito alla denuncia di un delatore, che lo ha riconosciuto in un incontro con Ernesto Rossi. Il 30 novembre successivo compare davanti al Tribunale speciale; dopo di lui, in quella stessa mattina, devono essere processati gli anarchici identificati a Milano. Sono presenti in aula molti giornalisti, tra i quali gli inviati speciali dei quotidiani svizzeri, perché tra gli imputati figura il cittadino elvetico Giuseppe Peretti. E’ una buona occasione per provocare i giudici, gridando un’accusa contro l’odiato regime, tanto più che la condanna, pronunciata da un tribunale di partito, è scontata. Quando il presidente comincia a leggere la sentenza, Pertini, facendo appello a tutto il suo coraggio e cogliendo di sorpresa i carcerieri, lancia quel duplice grido, che giunge fino agli orecchi degli altri imputati chiusi in camera di sicurezza. “Tringali Casanova era pallido — rammenta Pertini — il pubblico ministero mi guardava con una faccia che se fosse stato un coltello mi avrebbe ammazzato, soprattutto perché sapeva che c’erano degli stranieri fra il pubblico, quei giornalisti svizzeri che prendevano nota sui loro taccuini” (3).

Sandro Pertini viene condannato a dieci anni e nove mesi di reclusione per “menomazione del prestigio nazionale all’estero e attività sovversiva”. Gli altri imputati, processati subito dopo e condannati per “ricostituzione del partito anarchico”, vengono ricondotti in camera di sicurezza. “Pertini che era seduto in un angolo sulla panca murale — ricorda Pietro Costa — si alzò e, ribassato il bavero del cappotto, disse: “Ecco dieci anni digeriti”. Ci raccontò poi l’episodio della fuga di Turati da Milano e del viaggio in motoscafo, del guasto al motore in alto mare, sotto una pioggia battente e dell’arrivo nel porticciolo còrso…

Con Pertini ci rivedemmo dopo circa un mese nella sala di transito del carcere, dove eravamo ammucchiati con tanti altri detenuti “comuni” in attesa di partire per la nostra destinazione; Pertini per Santo Stefano ed io per Lecce. Ci fecero salire sul treno diretto a Caserta e chiusi ognuno nel proprio abitacolo del vagone cellulare. Durante il viaggio ci scambiavamo saluti e frasi di… circostanza. Ad una di queste: “sursum corda!”, Pertini replicò: “Su su per la corda”, come traduceva Farinacci…”(4).

Due anni di carcere scontati a Lecce non furono mai barattati da Pietro Costa, con una domanda di grazia. La madre, Maria Pasini, si era interessata alla sua scarcerazione con l’aiuto di una parente monaca a Fognano. Ma Costa rifiutò di compiere quel passo, per “espiare fino in fondo”, come diceva, ciò di cui era stato accusato. Come sovversivo schedato non ebbe vita facile per tutta la durata del regime. Ritornò in carcere il 19 giugno 1943, quando fu arrestato a Castelbolognese e trasferito a Ravenna, dove rimase fino al 23 agosto successivo. In quello stesso mese arrivava la libertà anche a Sandro Pertini, dopo la lunga reclusione, che aveva avuto inizio dall’”ergastolo” di Santo Stefano.
Nel luglio 1978 Sandro Pertini viene eletto alla più alta carica dello Stato. La stampa si diffonde nella biografia del neopresidente e ne rievoca l’esemplare milizia politica. Pietro Costa ne conserva un ricordo personale e allo storico Paolo Spriano, autore di un profilo del coraggioso antifascista (5), invia il racconto scritto di quel processo, ormai lontano nel tempo, ma sempre impresso nella memoria. E’ una testimonianza interessante, che Spriano fa conoscere al Presidente della Repubblica. La risposta del Quirinale non si fa attendere a lungo, con parole di viva gratitudine che Pertini scrive di suo pugno a Pietro Costa (6). E’ un messaggio spontaneo, dettato dal ricordo indelebile di un’esperienza che il presente ha reso ancor più significativa.

Il ricordo di quel duplice grido era ritornato alla mente di Sandro Pertini, quando gli era stata annunciata l’elezione alla presidenza della Repubblica. E’ il primo pomeriggio di sabato 8 luglio 1978: a due giornalisti che sono riusciti, non senza difficoltà, a raggiungerlo, Pertini dice soddisfatto: “Davanti al Tribunale speciale che mi condannava al carcere, ho gridato: “Viva il socialismo! Abbasso il fascismo!” (7).

Il ricordo diventa un commento, che sottolinea il significato più vero di quella elezione. Si apre una pagina nuova nella storia della Repubblica, si avverano le parole, quasi profetiche, scritte da Piero Gobetti ad un amico nel lontano ‘25: “Esiste in Italia un gruppo di uomini nei partiti e fuori dei partiti, gente che non ha ceduto e non cederà… Anche se pochi, rimarranno come un esempio per la classe politica di domani… La loro rettilinea protesta salva i quadri dell’Italia politica futura”.

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testo tratto da “La Torre”, n. 4, settembre 1982

1) Vedi: Commissione istruttoria presso il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato. Sentenza nel procedimento penale a carico di Costa P., Peretti G., Cimoso G., Rognoni A., Biscardo U., ecc., Istituto Storico della Resistenza – Ravenna.
2) Lettera di P. Costa a P. Spriano – Luglio 1978. Carteggio P. Costa. Bibl. Com. di Castelbolognese.
3) R. Uboldi, Il cittadino Sandro Pertini, Rizzoli, Milano, 1982, p. 97.
4) Lettera di P. Costa, cit.
5) P. Spriano, Sandro Pertini un socialista scomodo, in “L’Unità”, 7 luglio 1978,
6) Carteggio P. Costa. Bibl. Com. di Castelbolognese.
7) R. Uboldi, op. cit., p. 97.

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