Le Ricordanze
Il mondo della memoria coi suoi sotterranei richiami dà vita a questo racconto in cui si intrecciato motivi paesani, sorridenti e scherzosi, e vena sottilmente malinconica. L’avvio (e il titolo stesso) è suggerito da uno dei più intensi versi leopardiani, che sembra condurre l’autore alla ricerca di un paese, il suo, di volti cancellati dai tempo, e riportarglieli intatti e ancora vivi, in virtù della forza con cui si sono fissati per sempre nella mente dei bambino.
Vaghe stelle dell’orsa, guardie dei piloti, nel cielo del mio paese voi stavate a picco sopra la torre. Adesso, la torre non c’è più, l’aveva costruita sulla fine del Trecento quell’Antonio di Vincenzo che fece San Petronio di Bologna e un giorno i tedeschi, con la scusa che servirebbe da osservatorio agli inglesi, ci misero sotto una carica di tritolo e buonanotte la torre: diroccò nella piazza Bernardi e la riempì perché è una piazza larga quanto una mano. Molti anni fa i soliti servi sciocchi cavarono il nome di Giovanni Bernardi e ci misero Benito Mussolini, il quale ebbe il giudizio di ordinare a quei sempliciotti di rimettere l’antico nome che meritava di starci se perfino quella mala lingua di Benvenuto, discorrendo del Bernardi, lo chiama “molto valentuomo per far medaglie di quella sorte che io facevo”.
Giovanni era un mirabile intagliatore di cammei, di cristalli e di acciaio e fra molti lavori fece una medaglia col ritratto di Clemente settimo, il Medici che era papa l’anno del Sacco di Roma, e, nel rovescio, Giuseppe che si scopre ai fratelli; di quest’opera bellissima il pontefice lo rimunerò con l’ufficio di mazziere oltre a essere, insieme con Tomaso di Antonio soprannominato Fagiuolo, stampatore nella Zecca.
Il maestro Zappi, garibaldino della battaglia del Volturno (avevo un amico dottore che si chiamava Volturno perché suo padre combatté in quella giornata memoranda), che durò quarant’anni a fare la prima elementare, ci metteva tutta il suo buono a insegnarmi le stelle ma io in quel luccicore non mi raccapezzavo. Il cielo mi ballava davanti agli occhi e stavo a boccaperta mentre lui si affannava con le parole, con le mani, puntando in alto il suo bastone come un fucile: “È possibile che tu non veda il Carro? guardalo com’è bello spicco!” Insomma; io quel benedetto carro bello spicco non ce la faceva a vederlo. Allora lui ebbe un’ispirazione: mi condusse sotto la torre con la faccia voltata contro il muro: “Adesso guarda in su lungo la torre; le vedi? sono quattro stelle in quadro proprio qui sopra”.
Oh gioia, stupore, finalmente vi scopersi, stelle famose, e dopo il grande Carro, con pazienza, trovammo il minore perché i miei occhi avevano penetrato quella palpitante armonia: “E’ l’ultima in capo al timone dell’Orsa minore, che si vede e non si vede, è la stella polare che indica il nord ai naviganti”. Il vecchio garibaldino, felice, si asciugava il sudore sulla grossa testa pelata. Quante cose ho imparato da te, umile maestro che hai fatto sempre la prima classe e forse non possedevi altra patente all’infuori di aver marciato con Garibaldi!
Mi vengono in mente i garibaldini di Grecia, che i vecchi garibaldini li chiamavano quelli di Ricciotti perché nel novantasette erano andati a battersi (e a morire) contro i turchi, sotto il secondo figlio di Garibaldi. Essi, che erano uomini fatti, stavano volentieri in compagnia ai noi studentelli e facevamo una brigata allegra e godereccia. Notti sotto i vecchi portici o intorno al giro delle mura, mentre dalla torre sul paese addormentato scendeva il suono delle ore.
Palìta raccontava per la ennesima volta il fatto di quand’erano partiti, era leggermente balbuziente:
“Il povero Capra (il padre di Capra era stato uno dei Mille) venne a portare la nuova una sera, che eravamo nell’osteria di Banàfa a mangiare i tortelli col prezzemolo e la ricotta; il Banàfa aveva una sorella, Sara, diritta e tornita come un fuso, con due occhi neri che bruciavano e dei seni ondosi con le punte al cielo, che a me mi cavavano il sentimento. Dunque dicevo: Capra tornava da una riunione a Forlì dove Fratti aveva letto il proclama di Ricciotti Garibaldi. “Bisogna arruolarsi, mi sono messo in nota e ho dato anche il tuo nome come eravamo d’accordo” disse a Silvestrini che sedeva accanto a me. Allora saltò su Gnazi: ” Ragazzi, io non so dove sia la Grecia, ma se ci andate voi vengo anch’io”. “E anch’io” fece eco il Maschio che con Gnazi erano due inseparabili. Io pensavo a tutto fuorché partire per casa del diavolo a dare una mano ai greci che combattevano contro i turchi, e le pigliavano, riempii il bicchiere cercando di darmi un contegno distaccato. Sara, che serviva in tavola, si era fermata a sentire: mentre bevevo incontrai i suoi occhi.
Dicevano tutto quello che due occhi di donna sanno dire meglio dello parole, dicevano: e tu cosa fai? resti a casa? loro a fare le schioppettate e tu a casa? sei un uomo da niente, hai dell’acqua nelle vene, non venirmi più attorno. Posai lentamente il bicchiere, la guardai negli occhi e dissi: “Naturalmente, anch’io vengo con voi”. Sul tardi capitò Pavlò e finì che decise di partire con noi.” Così ci andarono in sei (dei settanta di Villa Glori dieci erano del mio paese), Capra e Silvestrini caddero sul campo di Domokòs insieme con Antonio Fratti, Palita si portò a casa, dentro una coscia, una palla turca: era gente che faceva sul serio.
Gnazi era anarchico e faceva il fornaio, delle notti capitavamo da lui sulle quattro quando sfornava i padelloni delle ciambelline da un soldo, così calde croccanti si sfacevano in bocca come una rugiada dolce, sua moglie faceva la faccia puntuta perché, tra che il conto della mangiata non tornava mai, spesso Gnazi compariva con un paio di bottiglie per completare la bisboccia. Era piccolo, grasso, rotondo, buono come il pane, aveva rimasto un rancore irsuto contro i greci che gratificava di epiteti violenti: “Mentre loro si schierarono prudentemente in cima alla montagna, noi ci cacciarono nelle trincee del pendio sicché eravamo esposti a un tiro micidiale, ma questo è niente: quando i turchi ebbero quasi aggirata l’ala destra e il principe Costantino, che comandava, ordinò la ritirata per non restare in trappola, noi dovemmo risalire l’erta allo scoperto sotto un diluvio di palle”.
Noi però sapevamo il recondito perché di quel rovello che è durato tutta la vita, ce lo aveva confidato il Maschio: dunque la compagnia di Gnazi fu mandata dalle parti di Farsalia, sulla calata del sole Gnazi e un altro volontario si fermarono in una osteria a bere, Gnazi beveva come un fiume e il compagno gli teneva gagliardamente bordone, solo che quel vino non era l’albana o il sangiovese di Romagna; usciti dall’osteria, non avevano fatto mezzo miglio che erano cotti tutti e due: si lasciarono cadere ai piedi di un albero e si addormentarono come sassi. Si riscossero al fresco dell’alba con la testa che gli scoppiava e il fiele in bocca, in compenso non avevano più le scarpe, il facile era sparito, sparito il portamonete dove c’era tutto il poco che possedevano. “Non mi parlare di quella gente!!”, ringhiava Gnazi dopo tanti anni.
Un battaglione di regolari greci e una Compagnia garibaldina erano chiusi nel forte di Arta assediato dai turchi: l’assedio si era fatto stretto, non avevano quasi più acqua, di viveri c’era rimasto del baccalà puzzolente, in effetti si nutrivano di poca galletta; Gnazi e il Maschio, avvezzi ai generosi mangiari della loro terra, dimagrivano sospirando melanconicamente anche perché il vino era finito, a Gnazi la divisa gli cascava di dosso tant’era calato. Una notte, il Maschio era di sentinella, c’era una luna che si vedeva come di giorno, a un trattovide un grosso topo che girava lì intorno; lui non stette a pensarci sopra, lo prese di mira e sparò. Accorse il sergente greco capoposto, il Maschio sapeva dire soltanto pòlemos, per il resto si arrangiava in romagnolo, che è press’a poco come il greco, si spiegarono e il sergente tornò a dormire. Di li a un’ora, ecco che vien fuori un altro topo che era il doppio del primo, pareva un gatto, e il Maschio, pensando alla mangiata che avrebbe fatto col suo amico Gnazi, tirò anche a quello. Stavolta andò meno liscia, il sergente sembrava poco persuaso e la spiegazione riuscì alquanto laboriosa; prima di smontare di fazione il Maschio cacciò in un nascondiglio le due vittime e in branda riscosse Gnazi per dargli la buona nuova, Gnazi si sognò tutta la notte che era da Banàfa con gli amici e mangiavano dei gatti in salmì. La mattina, il Maschio andò per prelevare i topi ma al posto dei topi trovò le due code. Gnazi voleva tirare al sergente greco.
Gnazi, il Maschio, Palìta, Pavlò: sono tutti sotto terra e anche tu, vecchia torre del mio paese. Quante volte, guardando le tue pietre nere per il tempo, mi sono detto che avresti seppellito anche me, viceversa sei morta tu, ti ho vista io in polvere: pulvis e cinis e adesso non so se sarò buono di ritrovare le stelle dell’Orsa.
Tratto da: Racconti / Francesco Serantini ; scelta e commento a cura di Giovanna Maramotti Bosi. – Bologna : Calderini, 1970
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