L’ospedale degli infermi di Castel Bolognese
Erano trascorsi appena sette anni dalla fondazione di Castelbolognese quando, nel 1396, era già in fase di costruzione l’ospedale di Santa Maria “de Castro Bolognesio” o “de Misericordia”. Suo primo rettore fu il francescano frate Pasio di mastro Trentino da Forlì e francescano fu pure lo storico valoroso P. Serafino Gaddoni, che è rimasto l’unica fonte sulle origini di questo antico ospedale, perché ne consultò l’archivio prima che sfortunate vicende lo mutilassero irrimediabilmente. Chiesa ed ospedale di Santa Maria sorgevano lungo la Strada Regale (l’attuale Via Emilia) nel borgo del castello, che i bolognesi fondarono nel 1389, e furono inclusi nella cerchia muraria successivamente ampliata. “L’ospedale nei primi tre secoli – scrive il Gaddoni – era situato a ponente della chiesa; poi fu costruito più ampio dietro la chiesa medesima. Aveva lo scopo di ricoverare gli ammalati, di ospitare i poveri ed i pellegrini, di dotare fanciulle povere, di ricevere gli esposti, che venivano trasportati ora a Faenza ed ora ad Imola, di aiutare i bisognosi, ed in circostanze speciali sovveniva tutto ciò che tornava di decoro al paese”.
L’amministrazione dell’ospedale e dei suoi beni, accumulati con elargizioni che in ogni tempo furono generose, era affidata alla Confraternita della Misericordia, i cui membri vestivano cappa bianca, si radunavano in un oratorio privato e si prodigavano per il buon funzionamento del servizio.
Una lapide, che ancor oggi si legge entrando nella chiesa, ricorda l’atto benefico della contessa Caterina Ginnasi la quale, con disposizione testamentaria del 1643, donava un cospicuo patrimonio alla Confraternita di Santa Maria.
Con la morte di Caterina Ginnasi, nipote del cardinale Domenico, si avviava all’estinzione il ramo della nobile famiglia castellana trapiantato in Roma nel XVI secolo da Francesco Ginnasi che, insieme con il fratello Alessandro, si distinse nel campo della scienza medica.
Francesco Ginnasi si era guadagnato grande fama come lettore di medicina nello Studio bolognese, tanto che molti principi italiani ricorrevano a lui nei momenti più critici della loro salute.
Papa Pio IV Io volle accanto a sé come medico della corte pontificia e lo onorò con una cattedra e un lauto stipendio nella Sapienza di Roma, ove il Ginnasi morì nel 1587, all’età di 72 anni.
Fu sepolto nella chiesa di Santa Maria sopra la Minerva, ove un epitaffio ricorda tuttora le benemerenze dei suoi insigni famigliari.
Altre nobili famiglie castellane sostennero con impulso filantropico la Confraternita dell’ospedale di Santa Maria.
La chiesa fu abbellita ed ampliata in successive ricostruzioni e conserva ancor oggi le eleganti linee architettoniche impresse definitivamente da Cosimo Morelli nella seconda metà del XVIII secolo.
“Sotto il piancito di questa chiesa -scrive il Gaddoni- tanto settariamente profanata, riposano in vari sepolcreti i confratelli della Misericordia, a cui appartennero le persone più distinte e facoltose del paese. Come l’uomo s’inchina rispettoso davanti ad una tomba ignota ovunque rinvenuta, così i fedeli e la gente di senno di Castelbolognese dovrebbero adoperarsi una buona volta di togliere da una deplorevole profanazione questo sacro monumento, che forma una delle glorie più belle dello storico paese”.
L’ammonimento del Gaddoni non ha mai avuto seguito. Tuttavia recenti segnalazioni hanno sottolineato l’urgenza di salvare il monumento dalla progressiva rovina e dal più che secolare stato di abbandono, suscitando interesse presso le autorità della Regione Emilia Romagna.
A dire il vero la decadenza della chiesa di Santa Maria della Misericordia ebbe inizio con l’avvento della Repubblica Cisalpina. Il “vento di Francia”, ispiratore di una politica di riforme orientate in direzione laica, fu accolto favorevolmente in loco da illustri cittadini, che simpatizzarono per Napoleone e ricoprirono le cariche pubbliche istituite dal nuovo regime. Il 3 luglio 1798 venne soppressa la confraternita della Misericordia e si provvide ad una nuova ubicazione dell’ospedale, poiché quello più antico era diventato una modesta ed insufficiente infermeria. Il provvedimento fu solo in apparenza rivoluzionario: da tempo la comunità di Castelbolognese avvertiva il bisogno di rivedere il servizio igienico e sanitario e non sempre poteva contare sul senso del dovere dell’unico medico condotto. Nella circostanza di febbri epidemiche che colpirono la popolazione del Comune dal 1765 al 1767, una lettera dell’arciprete ai Reggitori di Bologna esprimeva il pubblico riconoscimento al dottor Passerini per l’assistenza continua prestata agli infermi sia ricchi che poveri.
Ma nel 1785 il governo bolognese si vide indirizzate proteste della cittadinanza per l’operato del medico Masetti, del quale si diceva che si sarebbe dovuto applicare “piuttosto all’arte vilissima di Bettogliere, in cui è nato, che alla Medicina: arte civile, nel cui esercizio richiedesi prudenza, e morigeratezza”; al suddetto medico si rimproverava anche di trascurare i poveri e di insidiare le giovani donne da lui visitate.
Un decreto del Senato di Bologna del 25 aprile 1797 stabiliva di trasferire l’ospedale in una parte del convento dei frati rettori della chiesa di San Francesco. Le rendite dei minori conventuali francescani erano considerate superiori ai loro bisogni. Si ritenne perciò opportuno impiegare il superfluo a vantaggio di tutta la comunità con la costruzione di un nuovo ospedale. La fabbrica fu assegnata a Paolo Antolini di Gioacchino, che doveva eseguire i disegni del fratello Giovanni Antonio, architetto. Ma il progetto non fu definitivo, perché successivamente le autorità cittadine presero la decisione di costruire un nuovo e più funzionale edificio in un terreno che era appartenuto ai conventuali soppressi nel 1798: si trattava dell’orto detto “Masona”, compreso tra il Canale dei Molini e la cerchia muraria di levante.
Il luogo aperto e ventilato si presentava più adatto del convento che, collocato nel centro del paese, risultava meno indicato soprattutto in tempo di epidemie. Il disegno fu affidato all’architetto castellano Giovanni Antonio Antolini, che a Faenza era stato incaricato di erigere nel 1797 il marmoreo arco di trionfo in onore di Napoleone, fuori Porta Imolese e di progettare il salone ottagonale del Palazzo Milzetti.
L’architetto Antolini si era già acquistato grande fama anche al di fuori dei confini della Romagna. Si era formato alla scuola del neoclassicismo, nel quale dimostrò di cogliere una perfezione non solo estetica, ma anche civile, che si conciliava con le sue simpatie politiche per Napoleone. Nel 1801 progettò la sistemazione del Foro Bonaparte a Milano e ricevette i complimenti dell’Imperatore, incontrato a Parigi, il quale tuttavia gli fece capire che il progetto era troppo costoso. Il piano non fu eseguito, ma influenzò i progetti realizzati da altri. L’Antolini restava sempre “architetto di S.M. Imperiale e reale” ed ebbe l’onore di insegnare all’Accademia di Belle Arti di Bologna fino al 1815, quando venne licenziato per ragioni politiche.
Nel paese natale l’architetto romagnolo ebbe la stima di un altro fervente sostenitore del regime napoleonico: Giovanni Damasceno Bragaldi che, dopo il passaggio della Repubblica Cisalpina al Regno d’Italia, fu podestà del Comune di Castelbolognese e assecondò la costruzione del nuovo ospedale, di cui fu uno dei primi benefattori (1).
L’ospedale progettato dall’Antolini è ancor oggi uno dei più belli della Romagna. Vi si apprezzano eleganza e simmetria: l’ingresso, in particolare, col doppio ordine di colonne e il timpano sopra, riproduce la scenografia di un tempio ispirato alle linee più pure del neoclassicismo.
La prima pietra fu posta il 5 ottobre 1802. La solenne inaugurazione ebbe luogo il 15 agosto 1813 alla presenza delle autorità e di numeroso popoloplaudente il discorso del podestà Bragaldi. “Quella giornata memoranda di festa popolare -leggiamo in una cronaca- rallegrata da luminarie, fuochi pirotecnici e lieti suoni di bande, come ci risulta da poche testimonianze sparse e più dalle tradizioni degli avi, segnava la conquista paziente di quei nostri antenati per un’opera filantropica e patriottica come l’attesta ancora la bella iscrizione dettata dall’illustre Bragaldi, posta sul frontale dell’atrio romanico:
Cives civibus XVIII KAL. SEPT. A. MDCCCIII.
Erano le 6 pomeridiane della domenica 15 agosto 1813. La data non fu scelta a caso. In quel giorno si volle celebrare con maggiore solennità l’onomastico e il natalizio di Napoleone Bonaparte, che già per tradizione si festeggiava con il canto del Te Deum a mezzogiorno nella chiesa arcipretale di San Petronio.
Pochi mesi dopo, in ottobre, sul campo di battaglia di Lipsia, il mito di Napoleone si avviava al tramonto.
In seguito alla restaurazione del Governo Pontificio il servizio ospedaliero di Castelbolognese veniva sottoposto a qualche riforma e il nuovo ordinamento restava pressochè invariato almeno fino al 1859.
Tra i più illustri benefattori dell’ospedale di Castelbolognese, che si ricordano insieme con Giovanni Damasceno Bragaldi, fu Silvestro Camerini, nato nel 1777 da una poverissima famiglia di Biancanigo e partito dal paese all’età di vent’anni per fare fortuna nel Ferrarese. Grazie alle doti di ingegno e al tirocinio di un duro lavoro nel delta padano, il Camerini accumulò immense ricchezze. L’arciprete di San Petronio, Tomaso Gamberini, ne conosceva l’animo ben disposto alla beneficenza e si adoperò in tutti i modi, ricorrendo allo stesso vescovo di Imola Mastai Ferretti, per indurre il Camerini a tradurre in atto le reiterate promesse a favore dei poveri del paese natale.
Nel 1846 il cardinale Mastai Ferretti salì al soglio pontificio coi nome di Pio IX, senza dimenticare Castelbolognese. Scrive a questo proposito l’arciprete Gamberini: “… poche settimane dopo la sua elezione, presentatosi l’E.mo Cardinale Gadolini Arciv.vo di Ferrara per licenziarsi a far ritorno alla sua Diocesi, il Papa gli disse =Date la mia Benedizione, e portate questa Croce (ed era la croce di Commendatore Cavaliere) al Sig. Camerini, ma ditegli che si ricordi di Castelbolognese, quando no lo scavaliero=. Il Camerini vedutosi così onorato dal nuovo Papa memore delle sue promesse scrivendo una lettera di ringraziamento offri per Castelbolognese annui scudi trecento in perpetuo da erogarsi a favore di poveri fanciulli, e fanciulle, che si applicassero ad un mestiere; e tutti questi particolari seppi io dal Papa stesso quando nel Settembre 1846 ebbi la sorte di visitarlo in Roma, e trattenermi presso di Lui quasi un mese”.
Nel 1856 Silvestro Camerini, divenuto Gonfaloniere di Ferrara e già insignito dal Papa del titolo di conte, espresse al vescovo imolese Baluffi la volontà di istituire un’altra beneficenza a favore dei cronici del paese natale e di affidarne la giurisdizione al vescovo stesso. Nasceva così l’ “Opera Pia Camerini pei poveri Invalidi del Comune di Castelbolognese”, per la quale veniva assicurata in perpetuo una rendita annua, garantita dalla tenuta del Camerini a Belricetto di Lugo, come si dichiarava nell’atto della stipulazione. “Prima che si facesse quest’Istromento -scrive don Gamberini- io già mi era portato a Ferrara col Magistrato per rendere le ben dovute grazie all’illustre Benefattore, ed in questa circostanza strinsi buona relazione col medesimo. La seconda Domenica di Novembre poi dopo la stipulazione dell’Istromento cantai una Messa solenne con Te Deum di ringraziamento a Dio coll’intervento di tutte le Autorità del paese, in questa Chiesa Arcipretale, e la sera vi fu illuminazione, e Festa municipale”. Il nuovo governo italiano, subentrato dopo le vicende politiche del 1859-60, tentò di togliere al vescovo di Imola la giurisdizione della Beneficenza Camerini, ma poi ci rinunciò per non alienarsi l’animo del generoso benefattore rimasto fedele al Papa, che nel 1866 gli conferì il titolo di duca.
Nel luglio 1863 il vescovo Baluffi ordinò l’avvio dei lavori per la costruzione di un nuovo fabbricato, annesso all’ospedale, destinato ai cronici, con viva soddisfazione di tutta la comunità. Non poco valsero le raccomandazioni dell’arciprete Tomaso Gamberini che ebbe molto a cuore la pubblica beneficenza e legò all’ospizio dei cronici la sua eredità. Per interessamento dello stesso don Gamberini, nel 1880 venivano a prestare servizio nell’ospedale castellano le suore della Carità. La conferma veniva data dalla Visitatrice delle Figlie della Carità, suor Gottofrey, che dalla Casa Madre di Siena scriveva all’arciprete, in data 23 aprile 1880: “…Credo che MS. Rev.ma pure sarà contenta di questa nostra determinazione, mentre speriamo che il Signore vorrà accompagnare queste nostre Suore colle sue celesti benedizioni, tanto più che vi si saranno disposte coi S. Spirituali Esercizi, il che ci fa sperare veramente un buon esito… Non dubiti che abbiamo scelto delle Suore che s’intendono dei malati e dell’andamento d’uno Spedale…”.
Le Figlie della Carità hanno prestato servizio a Castelbolognese per oltre cento anni.
L’ospedale non era dotato di una farmacia propria e l’unica spezieria che prestava servizio nel paese fu gestita fin dal XVIII secolo dalla famiglia Tassinari. Sotto i portici dell’ex Corso Garibaldi, nel 1886, un decreto prefettizio istituiva un secondo servizio farmaceutico intestato al dott. Francesco Bolognini, capostipite di un’altra generazione di farmacisti non ancora estintasi.
Il più illustre discendente dei Tassinari fu Paolo, nato a Castelbolognese nel 1829, che trasse dalla tradizione famigliare la passione per gli studi scientifici. Dopo aver conseguito nel 1852 a Bologna il diploma di farmacista per assecondare la volontà del padre Gabriele, approfondì gli studi prediletti di chimica a Pisa. Si specializzò per qualche tempo ad Heidelberg presso il grande Bunsen e ritornò a Pisa a ricoprire l’insegnamento universitario e successivamente la carica di Rettore di quella Università. Particolarmente versato nella sperimentazione, favorì anche nell’insegnamento la pratica del laboratorio con finalità didattiche per quei tempi innovative.
Nel 1875 applicò un metodo speciale per la distruzione dei conigli che avevano invaso la tenuta reale di San Rossore e ne ebbe in dono da Vittorio Emanuele II un prezioso anello. Nel 1898, in seguito al disastro ferroviario dei Giovi, fu incaricato di compiere un’accurata inchiesta sulla qualità dei carboni usati dalle società ferroviarie. Per i meriti acquisiti fu insignito delle più importanti onorificenze italiane. L’imperatore Don Pedro gli conferì l’ordine della Rosa del Brasile. Ma fra tutti i cimeli Paolo Tassinari custodiva con maggiore orgoglio la fotografia con dedica di Giuseppe Garibaldi. Essa gli ricordava uno degli incarichi più delicati affidati alla sua perizia di chimico: l’esame del pus che usciva dalla ferita riportata da Garibaldi nel tragico scontro di Aspromonte del 1862.
Gli incarichi onorifici erano anche un riconoscimento delle sue convinzioni liberali, che lo portarono a schierarsi sempre a favore del risorgimento italiano. Proveniva da una famiglia di proprietari terrieri, ma si manifestò sensibile all’emancipazione dei contadini.
Abbandonato l’insegnamento per raggiunti limiti di età, si ritirò definitivamente nella villa situata nella campagna di Casanola, tra Castelbolognese e Solarolo e dedicò le sue ultime energie all’agricoltura. Protesse fin dalla fondazione la Società Operaia di Castelbolognese con piena intuizione dei mutamenti sociali dei nuovi tempi.
Paolo Tassinari incarnò la figura dello scienziato umanitario ed altruista e fu l’antesignano di un orientamento seguito da molti uomini di scienza influenzati dalla cultura positivista alla fine dell’Ottocento. Gli stessi ideali ispirarono il pensiero e l’azione di Umberto Brunelli, che a Castelbolognese portò l’esempio di un doppio apostolato come medico e come uomo politicamente impegnato.
Il Brunelli, di origine cesenate, proveniva dalla scuola di medicina di Augusto Murri, con il quale aveva discusso la tesi di laurea nell’Università di Bologna l’11 luglio 1885. Appena laureato si arruolò volontario per prestare la sua opera di medico in soccorso dei colpiti dal colera in Sicilia. Nel 1886 vinse il concorso per una condotta medica a Castelbologriese ed in questo piccolo centro fissò la definitiva dimora. Veniva a prestare servizio nel locale ospedale, quando i problemi dell’assistenza sanitaria richiedevano soluzioni più aggiornate in rapporto alle mutate condizioni sociali e le stesse prestazioni della condotta medica esigevano di essere rivalutate. Alternò alla pratica scrupolosa della professione un impegno molto attivo all’interno del partito socialista, che rappresentò come deputato in Parlamento. Furono al centro delle sue rivendicazioni politiche i problemi della classe medica e del rinnovamento dell’organizzazione sanitaria. Un suo collega nel cenacolo dei più fedeli discepoli del Murri lo definì “medico dei poveri e medico spirituale dei medici”.
A quei tempi, soprattutto nei Comuni rurali, le amministrazioni locali tenevano in scarsa considerazione le prestazioni professionali dei medici, che percepivano stipendi modesti. Era questa pure la volontà dei ceti più ricchi, che non volevano pagare nuove imposte per contribuire all’aumento delle spese comunali. Umberto Brunelli fu tra i fondatori dell’Associazione Nazionale dei medici condotti, che riscosse larghe adesioni in tutto il Paese e contribuì a far maturare tra i colleghi la coscienza professionale e sindacale. “La questione dell’assistenza sanitaria -disse ai medici riuniti a congresso nel 1913- è diventata una delle più ardenti ed urgenti questioni nazionali.., e la soluzione radicale e razionale è quella da noi agitata, quella, che attraverso a un immediato miglioramento del servizio di condotta coll’intervento integrativo dcl Governo e conseguentemente delle sorti dei medici che renda meno illusoria l’attuale opera loro di fattorini della medicina, sbocchi in una più larga diffusione degli ospedali e culmini nell’assicurazione obbligatoria contro le malattie…”.
A nome dell’Associazione, di cui fu più volte confermato presidente, il Brunelli pubblicava da Castelbolognese un bollettino mensile “dove accanto ai problemi sindacali, che interessavano i medici condotti, riportava la rassegna delle esperienze e degli studi e i risultati pratici ottenuti dalla scienza medica mondiale”.
Per impulso del “medico dei poveri” l’organizzazione sanitaria anche a Castelbolognese si avviava, sia pure lentamente, a farsi interprete dei bisogni di una società in trasformazione. L’ospedale, che nel 1896 veniva ampliato con l’aggiunta di due padiglioni laterali (non ben inseriti, a dire il vero, nella struttura progettata dall’Antolini), doveva realizzare le nuove finalità di un’assistenza intesa sempre più come servizio che come beneficenza pubblica.
Ogni novità, tuttavia, era accolta nel solco della tradizione. Nel 1907 veniva murato all’ingresso dell’ospedale l’antico portale di marmo trasportato dalla chiesa di Santa Maria. Ai lati del portale venivano posti i busti di Giovanni Damasceno Bragaldi e di Silvestro Camerini, opere dello scultore Torrigiani, a memoria perenne di quel civismo che era stato vivo fin dalle origini.
(1) Giovanni Damasceno Bragaldi (1763-1829) fu nominato da Napoleone membro del Comitato consulente federativo di Milano e, successivamente, membro del Corpo legislativo della Repubblica Cisalpina in rappresentanza, insieme con Luigi Tassinari, del Dipartimento del Lamone e di Faenza. Era pronipote del Padre Giovanni Damasceno Bragaldi (1664-1716) dei minori conventuali, che donò a Castel Bolognese il prezioso reliquiario conservato nella chiesa di San Francesco.
Tratto da: Pestilenze nei secoli a Faenza e nelle valli del Lamone e del Senio / Antonio Ferlini; presentazione Francesco Chiodo; saggi di F. Aulizio … [et al.]. – Faenza: Tipografia faentina editrice, stampa 1990.
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