Giovanna Zaccherini Alvisi (1890-1961)
Giovanna Zaccherini in Alvisi, detta Giannina, nacque a Castel Bolognese il 2-4-1890. Nel 1903 la famiglia di Giannina si trasferì a Casola Canina … e Giannina cominciò a frequentare il circolo socialista e a lavorare per quel partito. In seguito, stabilitasi a Bologna, si dedicò sempre più attivamente al lavoro di partito e nella sezione socialista che frequentava conobbe Luigi Alvisi che sposò poi nel 1914. In quel periodo, frequentando la sezione socialista, Giannina ebbe occasione di conoscere i Betti e i Dozza. Lea Giaccaglia Betti in particolare le divenne amica e la loro amicizia doveva durare fino alla morte di Lea nel 1937.
Nel 1921, quando avvenne la scissione di Livorno, gli Alvisi aderirono con entusiasmo al partito comunista e da allora non mancarono di continuare il lavoro di propaganda. Le riunioni si facevano nella clandestinità per evitare le aggressioni e le persecuzioni fasciste che già cominciavano ad infierire su chi apparteneva ai movimenti di sinistra.
Ormai staccato dai socialisti il gruppo allora sparuto dei comunisti continuava il suo lavoro di propaganda. Gli Alvisi avevano allora un negozio di calzature che, per ordine di partito, divenne un deposito di stampa clandestina e fu usato per riunioni, collegamenti e per la distribuzione del soccorso rosso. Aveva il vantaggio di poter essere difficilmente segnalato per il continuo vai e vieni dei clienti.
Giannina si era messa a disposizione del partito e s’incaricava soprattutto di smistare la stampa clandestina. Dopo il delitto Matteotti, quando venne scoperto il cadavere del martire, Giannina fu inviata al funerale a rappresentare le donne comuniste bolognesi.
Continuavano intanto le riunioni e i collegamenti nel negozio degli Alvisi, naturalmente con infinite precauzioni perchè spesso i compagni erano sorvegliati. Con tutto questo si riuscì ugualmente ad organizzare in una sala di uno stabile in via Mazzini 45 un congresso provinciale del partito presieduto dal compagno Grieco.
Nel 1925-26, per sviluppare l’azione politica e per migliorare i collegamenti, cominciarono a frequentare il negozio degli Alvisi anche dei compagni che venivano da altre città e l’azione cospirativa, nel clima di reazione violenta di quei tempi, non mancò di episodi di tensione drammatica per riuscire a sviare le indagini della polizia e dell’Ovra. In quel periodo il lavoro di propaganda era diventato ancora più difficile; però si riusciva ugualmente a distribuire con una certa regolarità la stampa nelle fabbriche e Giannina fu sempre molto attiva in questo.
Però, in seguito alla delazione di un compagno arrestato che aveva confessato alla polizia qual era la sua attività, furono arrestate 82 persone e fra queste Giannina e suo marito. Giannina in quell’occasione fu anche picchiata a sangue dai prestanti agenti della polizia fascista e riportò una frattura della spalla destra, perchè le fu trovato addosso del materiale propagandistico e denaro che doveva essere distribuito per il “soccorso rosso”. In carcere fece poi per diciassette giorni lo sciopero della fame per ottenere la scarcerazione del marito e riuscì nel suo intento. Inviata in seguito al carcere di Regina Coeli di Roma, fu processata al Tribunale Speciale il 1° febbraio 1929 e condannata a quindici mesi di carcere per propaganda comunista e a tre mesi per ribellione alla forza pubblica. Quando ritornò a casa, Giannina riprese ad interessarsi della distribuzione della stampa clandestina e del soccorso rosso.
Nel 1934 fu di nuovo arrestata. Aveva favorito la fuga del compagno Bitossi di Firenze che era sfuggito alla polizia. Di nuovo fu costretta a subire la tortura di lunghissimi interrogatori e confronti con compagni indiziati. Fu poi rimandata a casa dopo due mesi di carcere perchè a suo carico non risultò nulla di preciso.
Continuò di nuovo il suo lavoro di propaganda e di aiuto ai compagni che cercavano di sfuggire alle ricerche della polizia, a volte ospitandoli ed aiutandoli anche finanziariamente. Nel periodo della Resistenza si incaricò anche di rifornire i partigiani di armi e di viveri.
Dopo la fine della guerra fu sempre molto attiva partecipando alle riunioni del suo partito e alla distribuzione dei giornali di propaganda.
Morì a 71 anni il 15 agosto 1961.
N.B. Con delibera del Consiglio Comunale del 29/7/1977, il Comune di Bologna ha intitolato una via a Giovanna Zaccherini Alvisi, con la seguente denominazione: Giovanna Zaccherini Alvisi, perseguitata politica (1890-1961) (nota a cura di Andrea Soglia)
Testo tratto da: Gli *antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel Bolognese, 1919-1945, vol. 5.
Gli Alvisi davanti al loro negozio di calzature in Strada Maggiore (in angolo con la via Broccaindosso) a Bologna. La foto fu scattata nell’estate del 1927. Nella fila dietro, Giovanna “Giannina” Zaccherini e il marito Luigi Alvisi. Nella fila davanti, al centro, la loro figlia Liliana Alvisi con in braccio il cane Morino; alla sua destra un’amica di famiglia e alla sua sinistra Luigi Cardelli, uno dei lavoranti nel negozio Alvisi, che verrà con loro arrestato il 19 ottobre 1927. Liliana Alvisi (1915-2005) divenne poi medico, specialista in ostetricia-ginecologia e fu consigliere comunale a Bologna dal 1950 al 1960; durante la Resistenza fu protagonista dei Gruppi di Difesa della Donna. (Foto tratta dalla copertina del libro autobiografico scritto da Liliana Alvisi “Sarà la volta buona?”, edito dalla Galileo di Bologna nel 1964)
Giovanna Zaccherini Alvisi, in occasione del primo anniversario della morte di Giacomo Matteotti, incontrò a Fratta Polesine la madre di Matteotti. Liliana Alvisi, nel suo citato libro “Sarà la volta buona?” riporta il resoconto di quell’incontro (il testo è stato pubblicato anche in: L’antifascista, mensile degli antifascisti di ieri e di oggi, n. 3-4, marzo-aprile 2005).
“Nel primo anniversario della morte di Matteotti, Giannina fu incaricata dai compagni di portare una palma di bronzo sulla tomba del martire, come segno del costante ricordo dei compagni bolognesi.
Il treno sul quale salì era stracarico di camicie nere inviate a Fratta Polesine. Giannina pensava di ritrovare al suo arrivo la stessa atmosfera dell’anno precedente; credeva pure d’incontrare di nuovo i delegati delle varie città ed ingenuamente s’illudeva che, almeno nella cittadina che era stata la culla del Caduto, i fascisti non avrebbero osato mettere piede. Invece, quando il treno si fermò vide che tutta la stazione di Fratta Polesine era piena di uomini vocianti in camicia nera, che sostavano sotto il sole; neppure una persona in abito borghese scese dal treno, l’unica fu Giannina col suo pacco. Provò un senso di fastidio e quasi di disgusto nell’attraversare quella massa compatta di fascisti e riuscì a stento a farsi largo fra loro fino al piazzale della stazione. Il paese sembrava in stato d’assedio.
Lungo il viale che portava al centro, ai due lati, era allineata una lunga fila di camicie nere. Giannina ebbe un attimo d’esitazione, anche perché sentiva gli sguardi di quei fascisti posati su di lei, unica persona non in divisa uscita dalla stazione. Ma si riprese subito e si avviò con decisione per il viale, tenendo per lo spago il pacco che dalla forma denunciava molto bene il contenuto. Intanto tentava di rendere il suo passo il più disinvolto possibile, perché le veniva d’istinto d’affrettarlo, ed andava formulando un piano nella sua mente. Pensava che forse non era consigliabile avviarsi direttamente al cimitero, sia perché vedeva che la strada continuava ad essere presidiata dai fascisti, sia perché aveva in tasca una targa d’ottone che portava inciso: “Nel primo anniversario del tuo sacrificio, i compagni comunisti bolognesi”. Si accorse allora quale ingenuo e compromettente sentimentalismo era stato quello di voler far sapere che i comunisti bolognesi non dimenticavano. Decise quindi di recarsi al ristorante dove aveva avuto occasione di andare anche l’anno precedente, sempre seguita dagli sguardi curiosi dei fascisti.
Entrata si sedette ad un tavolo ed ordinò il pranzo. Mentre la cameriera apparecchiava, Giannina si era ritirata nella toilette per lavarsi le mani e qui riuscì a nascondere la targhetta d’ottone. Rientrò poi nella sala e, mentre passava accanto ad un signore, seduto ad un tavolo vicino al suo, e che prima aveva guardato con uno sguardo significativo il pacco, sentì che questi le sussurrava con un cenno d’intesa: – Vada dai carabinieri -. Mentre mangiava la cameriera si era avvicinata al tavolo – Come mai ci sono tanti fascisti in giro? – le chiese Giannina con noncuranza. – Non lo sa? Oggi è l’anniversario della morte di Matteotti – le rispose la cameriera – è per questo che sono arrivati tanti fascisti da fuori. – ma che cosa c’entrano i fascisti? – C’entrano, e come! Hanno proibito qualsiasi manifestazione e non vogliono neppure che si vada al cimitero. E’ da ieri che sono cominciati ad arrivare.
Giannina finse di non interessarsi più della questione. Appena ebbe finito di pranzare, uscì dal ristorante e si avviò alla stazione dei carabinieri. Chiese del comandante. Fu ricevuta subito con molta gentilezza.
– Mi dispiace disturbarla – disse subito Giannina, – ma ho saputo che non è possibile l’accesso al cimitero e per questo mi rivolgo a lei con la speranza che per me si possa fare un’eccezione. Vengo da Bologna e mi dispiacerebbe ritornare senza essere andata sulla tomba di Matteotti. E’ per questo che ho fatto il viaggio.
– Ma lei è delegata di qualche partito od associazione? Chiese il comandante.
– Oh, no! Cosa dice mai! – rispose Giannina facendo un cenno di diniego col capo – Ero semplicemente una conoscente dell’on. Matteotti. Niente di più.
Il comandante le sorrise con comprensione: – Ecco vede, io non avrei alcuna difficoltà ad esaudire il suo desiderio, ma purtroppo abbiamo disposizioni tassative da parte del prefetto e del questore: impedire a chiunque l’accesso al cimitero.
Giannina sospirò: – E’ un vero peccato! Non avrei mai immaginato tante difficoltà!… Cosa c’è di male a portare un fiore sulla tomba di un morto?
– Non posso darle torto! – riprese il comandante con simpatia – Comunque cercherò di vedere se, in via del tutto eccezionale, potrò favorirla. Proverò a telefonare al questore per sentire cosa ne pensa -. Dopo più di un’ora di attesa giunse una risposta negativa.
Il comandante rimase per qualche istante pensieroso, poi, col tono di chi prende un’importante decisione, disse a Giannina: – Senta! Ora l’accompagno io dalla signora Matteotti; non ci sono disposizioni che lo vietino.
Giannina uscì dalla sede dei carabinieri. Fuori intanto si era formato un piccolo assembramento di fascisti. Si mossero incuriositi quando la videro scortata dal comandante e da un altro milite dell’Arma. Riprese così la strada, in mezzo a due ali di fascisti che, a gruppetti, cominciarono a seguirla e si avviò alla casa dei Matteotti. La madre del martire era sulla soglia in attesa. Qualcuno, forse lo stesso comandante, doveva averla avvertita. Prese Giannina fra le braccia con trasporto e cominciò a dire: – Cara, cara, grazie di essere venuta! – Quando vide i fascisti che si avvicinavano un’espressione di rabbia e di disgusto le apparve sul viso. Si eresse sulla figura ed agitando le braccia gridò: – Briganti! Assassini! Lontano di qui!… Non avete alcun diritto di presidiare la mia casa e tanto meno d’impedirmi d’andare sulla tomba di mio figlio! Assassini! Assassini! – Sembrò farsi più alta nell’abito a lutto che la ricopriva e, muovendo il braccio in ampio gesto, ripeté ancora : – Assassini! Assassini!
I fascisti che avanzavano si fermarono di colpo e sentendo quell’insulto, sputato loro in faccia, parvero improvvisamente vergognarsi. La guardarono ancora un istante come intimiditi ed esitanti, poi abbasarono la testa. Nessuno di essi fiatò.
Giannina poté così rimanere tutto il giorno vicino a quella madre indomita. Nel pomeriggio poi, insieme, andarono sulla tomba di Matteotti; fu così l’unica persona, estranea alla famiglia, a portare conforto in quel giorno a quella donna eccezionale ed a dimostrarle che non tutti si erano piegati al fascismo”
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