Oddo Diversi (1908-1984)
Nato a Castel Bolognese il 24 giugno 1908 e morto a Fiume (durante un soggiorno sulla riviera istriana) il 13 gennaio 1984, Oddo Diversi si era dedicato agli studi di storia locale fin dall’anteguerra. Nel 1933-34 pubblicò il suo primo articolo sulla rivista Valdilamone, per interessamento del dott. Antonio Corbara e da allora mantenne in vita, dopo la scomparsa di “Bacocco“, una tradizione dì studi locali, che ancora nell’inoltrato dopoguerra sembrava destinata ad assopirsi tra l’indifferenza di molti; una tradizione che più recentemente si rinnovava nella consapevolezza che i valori espressi dalla cultura locale vanno salvaguardati. Per questo Castel Bolognese non può sottovalutarne il contributo e ricorda con riconoscenza la collaborazione da lui prestata al Prof. Giuseppe Plessi dell’Università di Bologna per il riordino e la sistemazione dello sfortunato archivio del Comune, con il quale il Diversi fu sempre a contatto, con premurosa attenzione, per tutto il periodo in cui svolse la sua professione di impiegato comunale. Questo contributo si è concretizzato, accanto ai vari articoli pubblicati sulla rivista forlivese La Piè e a una ricca produzione di poesia dialettale (in parte inedita) per la quale il Diversi rivelava una particolare inclinazione, in due opere che offrono il meglio delle ricerche e delle memorie da lui raccolte e pubblicate per i tipi delle Grafiche Galeati: Le Cronache Castellane (1972), precedute dalla preziosa ristampa anastatica della “Cronichetta” del Giordani; Dall’ultima trincea tedesca sul Senio-Castelbolognese 1943-1980 (1981), che fornisce un’interessante documentazione sull’ultimo periodo bellico. Una limpida citazione dal Mazzini (autore da lui particolarmente amato), inserita come premessa al suo ultimo libro, sintetizza le finalità che hanno guidato gli studi del Diversi : “…nel Comune dove dormono i vostri padri e vivranno i nati da voi, s’esercitano le vostre facoltà, i vostri diritti personali, si svolge la vostra vita d’individuo”.
Alla vita del nostro Comune, che tanto amò, Oddo Diversi è mancato per sempre, senza vedere realizzato un vivo desiderio, espresso in seno al Comitato per le celebrazioni del Sesto Centenario della Fondazione di Castel Bolognese, di cui faceva parte: evidenziare le fondamenta della trecentesca Torre, se proprio si vuole rinunciare definitivamente alla sua ricostruzione. […]
Bibliografia: Ricordo di Oddo Diversi, Vita castellana, n.1, gennaio-marzo 1984.
Un “trovatore” di Castello: Oddo Diversi
di A. Donati
Nel 1964 uscì, per i tipi della tipografica artigiana di Castelbolognese, un mannello di poesie, in vernacolo romagnolo, che destò l’attenzione dei critici e della stampa che cura questo settore della poesia. II volumetto elegante e tascabile, edito a cura dei “trovatori” di Castello, comprendeva saggi lirici di Ubaldo Galli, il dicitore dalla voce potente che rallegra trebbi e sa affascinare le piazze; Fausto Ferlini, il pittore legato alla gente ed alla natura della nostra terra; Oddo Diversi, poeta dal tono delicato e musicale, legato alle piccole cose, quando non prende la sferza o si rincantuccia ora nel suo romitorio della Serra, sogno realizzato dopo anni di lavoro sodo come impiegato comunale e come libraio. In una sua poesia sempre dialettale, chè per lui il dialetto è una lingua, la lingua italiana la riserva per le scorribande storiche su fatti e persone del nostro paese e per le polemiche che affronta con una certa spavalderia.
Oddo Diversi è castellano puro sangue, di estrazione operaia, (ultimamente ha ricordato le sue ave materne lavoratrici della ditta Santandrea “strazzir”) e, quella posizione che ha raggiunto la deve all’intensità del suo lavoro ed alla economia.
Del padre non ha che una vaga visione nostalgica in un breve componimento poetico: allo scoppiar della prima guerra mondiale, con la madre, accompagnò alla stazione un “uomo”.
Lo vide salire in treno, baciarlo e salutarlo quando il convoglio si mosse. Quell’uomo era suo padre. L’ha atteso, ma non è più tornato. La tragica bufera l’aveva inghiottito, lasciandogli la nostalgia di quel ricordo.
Oddo Diversi per quello che vale e che sa, è un autodidatta e non si può dire che le poche medie frequentate lo abbiano culturizzato. La cultura, e ne ha, se l’è fatta da solo a fatica leggendo i classici, perlustrando gli archivi polverosi, che oggi in parte sono stati venduti da una amministrazione per cui il passato era tutto da dimenticare. Buon per noi se il cultore di storia patria prof. Drei, parroco della Serra da poco scomparso, ne salvò una parte acquistandola come cartaccia vecchia per pochi denari. E’ questa una delle fonti alla quale attinge il Diversi per rievocare le nostre tradizioni e i vecchi tempi castellani.
A questo proposito ricordiamo le abbondanti collaborazioni alla nostra rivista e le due “cronachette” ante e post fronte sul Senio.
Ma a noi interessa la poesia: dopo la prima comparsa con gli altri due moschettieri del “Sem a què” sono usciti per gli stessi tipi e lo stesso formato nel 1968 “Dis garnell d’puisèia” con la prefazione di Nettore Neri e nel 1972 coi tipi della tipografia Galeati di Imola “Cantè, Cante…”. I tre volumetti surricordati sono illustrati da originali xilografie da Fausto Ferlini.
La poesia di Oddo Diversi, pur avendo slanci gioiosi come in “cantè cantè” Canteda rumagnola, “I suranom d’Castelbulgnes” come nelle descrizioni di paesaggi sereni e nelle sferzate ironiche che non risparmiano “la Morte vecchia sdentata”, che prendono in giro le deficenze fisiche magari del cuore “La pumpetta” e giungono a portare il litigio alle soglie dell’eterno “S. Pir e Signor” sono soffusi di una malinconia per le gioie non godute, per le aspirazioni non raggiunte, per gli amori traditori, per le bellezze che sfuggono, di nostalgia per un passato che è bello sol perché è passato e ci rifugiamo in esso per non sentire il ticchettio del tempo che passa o per non vedere riflesso negli altri il guasto del tempo che si opera anche in noi (“A ma a man”). La poesia di Oddo più che rispettare le regole del gioco (e chi le rispetta oggi?) ubbidiscono alla logica musicale che l’autore ha in sé e non può farne a meno: un suono d’organo della Chiesa parrocchiale lo commuove e l’inciela fuor della morta gora dell’esistenza sempre per lui presente.
Se non ci fossero questi slanci istantanei, questo fondo religioso anche se laicistisco, saremmo nel più nero esistenzialismo che farebbe maledire alla vita, che ci fa tribolare all’inizio, ci dà illusione e speranze nella giovinezza per abbandonarci sulla soglia di un mistero che, se non c’è fede, ci porta se non alla disperazione, a quella neghittosità leopardiana che annienta il corpo e la mente. Ma la speranza di qualcosa di nuovo al di là del mistero c’è ed allora i neri cipressi si colorano d’oro, la tela di ragno risplende al sole come argento, il ruscello canta le sue armonie, le campane (hanno tanta importanza nella poesia di Oddo) rallegrano la giornata con la triplice ave Maria.
Abbiamo visto come l’ombra paterna pesi nell’animo dell’adolescente e come si proietta nella sua vita d’uomo attaccato alla sua terra, alla sua casa, ai suoi familiari: due donne, nonostante tante cantate birichine, gli stanno nel cuore: sono le compagne della sua vita, la madre che gli ha dato la vita, la moglie che l’accompagna nell’erto cammino e che gli ha dato le tre vele, i figli, che sono il suo orgoglio. Oddo non ha vissuto grandi avventure: è stato in Africa come molti italiani lusingati da un sogno di gloria. Di questo episodio ricorda semplicemente “la mulatta dolce come il Karkadè”.
Poi la vita si fa sedentaria “ha liso i calzoni” nel servire il pubblico, dice lui, e per spaziare lo sguardo nel passato della sua Romagna per dirne storia e leggende. Naturale dopo tante costrizioni, il suo sogno di farsi una rustica casa nella collina della Serra aperta ed ubertosa, e se l’è fatta sul crinale per vedere la Romagna distesa coi piedi sul mare e circondata di verde. Ed ora, in riposo, nelle sere stellate, quando frignano i grilli, cantano i rosignoli, il suo cuore si apre alla grande speranza quando l’attanaglia il dubbio… Ma una bella cantata e tutto torna a posto. E allora dimentica le stalle vuote “che sono come chiese senza prete”, l’intemperanza e le asprezze della vita moderna, i campi deserti ove la gramigna regna sovrana, le schifezze di una politica quasi senza speranza, per riallacciare i suoi colloqui con il passato, con quella buon’anima di “Bacocco” che gli ha offerto le memorie, l’estro per dipingerci la vita paesana e i tipi di essa, un’età d’oro solo perché è legata alla nostra giovinezza, ed è stata ingoiata dal tempo.
La piè, novembre-dicembre 1983
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