S. Antonio a S. Maria della Pace
da una memoria edita di Giovanni Bagnaresi Bacocco ripubblicata su Vita Castellana del gennaio 1976
Quando eravamo giovani si desiderava che il 17 di Gennaio cadesse in una bella giornata, perché ci dava modo di godere un pomeriggio di svago, anche se la neve fosse stata alta sul terreno. Si era sicuri di trovare la via Emilia nel mezzo e tutto il sagrato di Santa Maria della Pace spazzati. Se poi le vie erano libere dalla neve e la giornata soleggiata, era un piacere vedere la strada Maestra andare salda di gente dalle porte del Castello fino al Ponte. L’attrattiva maggiore era data dalla consuetudine, antica, che offriva agli intervenuti lo spettacolo della estrazione a sorte di due maialetti, mercé una lotteria, che si iniziava e si compiva coram populo, senza bisogno di carta e di registri bollati, ma fiduciaria ed allegra.
Non vi era l’osteria al Ponte: ma la gente si spargeva presso i contadini ed il villaggio del Ponte, dove erano sicuri di trovare larga ospitalità: un buon bicchiere di vino e una migliore merenda. Noi non sentivamo bisogno né di bere, né di mangiare. Una melarancia o un po’ di castagna e di anseri (cucciarul), presi da una di quelle bancherelle, che si allineavano ai lati della Chiesa, bastavano a farci contenti. Le giovani, vestite con maggiore semplicità di adesso, senza belletti ed altri cosmetici, col volto un po’ acceso dall’aria frizzante e accaldate dal camminare, ci parevano tanto belle e tanto necessarie al compimento della festa. Ma, mentre esse entravano nella Chiesa ad assistere alla benedizione, noi andavamo al Ponte a fare leggere, a chi non la conosceva, la iscrizione romana, trascritta in una lastra di arenaria posta sotto l’antico ponte: Q.F. Pol. = P.B.O.L.D.D.I.P.Z., iscrizione che venne poi coperta, quando il Ponte, che dicevano antichissimo, fu allargato.
La festa di Sant’Antonio per i parrocchiani della Pace è riconosciuta come la maggiore dell’annata: pochi giorni prima i contadini, i casanti e i carrettieri della località uccidono il maiale per avere la soddisfazione di farsi mangiare dagli invitati il giorno diciassette i ciccioli (grassul), di fegato, la salciccia e l’altra roba insaccata.
La mattina si vedevano venire in paese i contadini e le loro donne, vestiti a festa, acquistare i panini benedetti, che davano per devozione poi da mangiare alle loro bestie, quando ritornavano a casa. Ed era una festa cosi rispettata che ricordo quest’episodio. Un campagnolo aveva un impegno abbastanza importante a Faenza; ma avverti la persona, con cui doveva trovarsi, che non sarebbe andato, perché il cavallo doveva riposare il giorno di Sant’Antonio.
Nel contado anche adesso non vi è casa che nella stalla non abbia murato in una nicchia la sacra immagine. Anche l’uscio d’entrata e gli assiti delle porte ne vanno adorni. Questi della Pace si lamentavano di non aver un vistoso simulacro del protettore del loro bestiame e finalmente, una quarantina di anni fa, il loro padrino, ancor vivo e vegeto, nei suoi 85 anni, poté accontentarli, acquistando nell’argentano una statua grande al naturale.
Nell’antico tempo l’anacoreta della Tebaide si figurava accompagnato soltanto dal porco, che simboleggiava la castità contro l’impurità; ma col volgere del tempo si aggiunsero le fiamme, rappresentanti il fuoco sacro, detto anche di Sant’Antonio, quando verso il Mille una grave epidemia corse a devastare l’Europa. Sotto la protezione di esso santo al porco si unì prima il cavallo, poi il bue, la pecora e gli altri animali da cortile. Anche l’iconografia moderna lo rappresenta colla sua asta pastorale e colla sua grande barba bianca in atto di proteggere il bestiame che ha d’intorno. Così sembra di riprodurre la bella scena, che ogni giorno si rinnova, quando la reggitora verso sera richiama l’innumerevole schiera di pennuti e dà loro il becchime. Il periodo della festa di sant’Antonio comincia dopo l’Epifania detta anche la Pasquetta, e continua per tutto il carnevale. Questa spezzatura della festa nelle diverse domeniche di carnevale dà il modo di dimostrare la grande venerazione che il Santo gode presso i contadini, ma anche l’occasione da dare principio allo scambio dei pranzi e dei ritrovi invernali fra di loro. Infatti comincia l’epoca del maggior passatempo e una parrocchia invita l’altra e la gioventù dei due sessi affronta il freddo e il lungo cammino per ritrovarsi a queste riunioni, che sanno di sacro e di profano. La chiesa, nella sua lunga esperienza secolare, ha assecondato questa umana tendenza di allegrare lo spirito durante il riposo della stagione invernale. Comincia Casalecchio l’11 gennaio, il 17 la Pace e Campiano, poi Biancanigo, indi Casanola. La domenica «galinera», cioè quella penultima di carnevale, ha luogo sant’Antonio al Borello e la domenica precedente la quaresima, detta Lova, la stessa festa ha luogo alla Serra… Questo periodo godereccio pare adatto, perché avviene durante il riposo invernale e nelle giornate più fredde della annata.
Si comincia con San Mauro, che avviene il 15 Gennaio: San Meuver, che fa tarmè e cadever; poi al diciassette Sant’Antonio: Sant Antogni dalla berba bianca; al venti cade San Bas-cian che fa tarmè la coda e can, e così tutti gli altri Santi del freddo. A vincere il freddo niente è piu giovevole di una vita sana, movimentata, con cibo nutriente, condito con qualche bicchiere di vino buono.
La compagnia di Sant’Antonio, della quale fanno parte i reggitori delle case coloniche della parrocchia, elegge ogni anno due priori, incaricati di raccogliere le offerte in denaro e in natura, che devono sopperire alle spese della festa. Essi accompagnano il Padrino nel giro della parrocchia e, mentre il parroco benedice la stalla, i priori ritirano le offerte. Poi combinano le modalità del pranzo, il numero delle persone e quali autorità da invitare il giorno della festa. Mi contò Pirita d’Caldarè, che una volta riuscì priore con Ciurlò. Essi accompagnavano don Leopoldo Savini nel giro. L’uno teneva il paniere delle uova e l’altro il calice e l’aspersorio, ma tenevano in custodia anche il denaro raccolto. Passando dallo spaccio dei sali e tabacchi del Ponte, mentre don Poldino era entrato a benedire alcune stalle di quei birrocciai, essi pensarono che potevano prelevarsi dal denaro raccolto due soldi per uno per l’acquisto di un toscano. Poi tutti assieme proseguirono nelle visite, ma, per il fatto di aver defraudato S. Antonio di quattro soldi, ebbero nell’annata a patire la perdita l’uno di un vitello e l’altro di due maiali.
La mattina del 17 accorrono tutte le famiglie alla chiesa di Santa Maria della Pace ad assistere alle funzioni propiziatrici e, quando ne escono, portano seco uno o più invitati. Tutte le piccole strade sono allora percorse da questa gente indomenicata, che non sente il freddo e che sa che si va avvicinando il mezzogiorno. Parenti ed amici s’assidono attorno al fuoco nella grande stanza, che serve anche da cucina, la quale da un lato ha due cassoni di noce massiccia ripuliti per l’occasione, dall’altro il buratto per cernere la farina e da un terzo lato il tagliere affisso al muro, con sopra l’asse del pane, due panchette, oltre ad un certo numero di sedie che servono per sedere: le panche per quelli di casa e le sedie per i parenti. Gli uomini stanno chiacchierando, mentre le donne finiscono di cuocere i cappelletti nel grande paiuolo pieno di brodo. Sopra la loro testa da una pertica pendono i codeghini e le salciccie ed il resto della roba insaccata. Quando la minestra è in tavola e le fondine sono piene, la reggitrice invita tutti a mettersi a tavola. Adesso comincia la prova dei buoni stomaci, che si servono due o tre volte dalle terrine che sempre si riempiono. Dopo la minestra viene il lesso composto di varie carni; segue l’arrosto di pollo e di coniglio e si finisce con la zuppa inglese e la ciambella dolce. Fra ciarle e discorsi allegri gli uomini si mettono a giocare al fotecchio o alla bestia, e le donne accudiscono alla pulizia degli oggetti da cucina ed alle altre faccende.
Da quest’ora la casa è una specie di corte imbandita e viene il fabbro, il falegname, il calzolaio, e gli amici a bere e a mangiare un pezzo di ciambella. Anche la canonica accoglie ospiti. I priori vi hanno portato ognuno due fascine e un mezzo quintale di schiappa per riscaldare l’ambiente; inoltre ognuno una damigiana di vino per dare da bere a chi verrà nel pomeriggio. Essi sono stati a pranzo dal padrino cogli invitati, fra cui il comandante la stazione dei carabinieri, il medico ecc. Durante il pomeriggio sono essi che fanno il servizio d’ordine e sanno mettere a posto, se bisogna, qualche sfaccendato, che volesse non tenersi al suo posto. La benedizione la sbrigavano presto per dare il tempo necessario allo svolgimento della lotteria, giacché in gennaio le giornate sono corte e viene presto la sera. Due o tre tavolini con un giovanetto seduto accanto, tenevano un registro aperto e segnavano le poste di quelli che giocavano ai maialini. Per concorrervi si scrivevano le cosiddette voci. Si dicevano voci i cartellini o schedine concorrenti al premio, perché rievocavano con esse i nomi cari di persone defunte. Una madre, che avesse avuto la disgrazia di perdere un figlio o una figlia fai ava scrivete il nome del defunto col segno della morta cosi: Maria Callegari messa da Callegari Antonia della parrocchia di Casanola. Cosi una figlia il nome del padre, un figlio quello della madre, un fratello il nome del fratello. Ricordando il nome dei loro cari, che non erano più, speravano che, per il bene che si erano voluti in vita, i cari defunti potessero dall’al di là aiutarli a vincere anche il piccolo premio.
Ma non tutti mettevano parenti: chi si raccomandava alla Madonna, chi ai Santi, persino alle anime benedette del Purgatorio. Altri lasciando in pace i morti ed i Santi mettevano nelle voci cose allegre. Una giovane si raccomanda a San Antonio che le prepari la dote: Ann ch’am uvleva maridè, / a mes a e porz e in me vus d’è; / S’un m’aiuta Sant’Antogni / um va da mel e matrimogni. / Un altro scrive la sciocchezza seguente: E tira la boffa, / E scosa la cocla, / Mamma la breva, / e bab us arroffa. / Un altro, se non vince, fa il proponimento di non giuocare mai più: A met a e porz e mei an l’ho, / se in me dà, anmi met piò.
Ma ad un tratto si aprono le imposte verdi della finestra del piano superiore della casa parrocchiale e s’affaccia il viso roseo e rubicondo di Antonio Landi, il cuoco del pranzo, che continua a rendere giuliva la giornata. Tutto pulito, mentre si ferma gli occhiali sul naso e fa una riverenza al pubblico, pronunzia una specie di zirudella. Si vede la figura ben portante con la giubba nera, il corpetto verde, gesticolare; ma la voce viene accolta da fischi ed ironiche esclamazioni. Egli rimane impassibile e compie le ultime operazioni preliminari della lotteria. In una federetta bianca di bucato sono contenute tutte le voci che concorrono al premio. Egli addita una scatoletta posata sul davanzale della finestra, in cui, misti a molti cartellini bianchi, se ne trovano pochi altri, che hanno scritto la parola «Grazia». La folla si riversa e continua a convenire sotto la finestra ed il Landi a rallegrarla tra i fischi e le urla. Non per nulla egli faceva la parte di Dulcamara in una ricordevole mascherata ideata dal Maggiore Leonida Marzari e che si produsse qui e nei paesi vicini. Fra un relativo silenzio una bambina estrae dalla federetta la prima voce e il Landi legge forte: Quatter ragazzi in t’una nosa, / S’ai ho e porz am faz la sposa. / S’un m’aiuta Sant’ Antogni, / Um va da mel e matrimogni, messo da me Sante Bacchilega della parrocchia di Tebano.
Una bambina, sempre in vista del popolo, toglie la schedina, che il Laudi guarda e dice: — Bianca —. Indi estrae un’altra voce: Sant’Antogni e sta là drett. / cun la panza pina d’caplett, / ma i dis, che un è vera gnint, / i caplett ui ha magnè i prit. / Poi un’altra voce: E pont de Castel, / e pont dla Turretta, / e ai ho e porz / ai e met a la vetta. Da osservarsi che sono i due ponti estremi nel territorio di Castel Bolognese. Poi un’altra voce: Quatter cochel int una nosa, se ai ho e porz am faz e spos /. Finalmente si estrae quella che è accompagnata dalla schedina portante la parola «Grazia». Allora il Landi dice il nume della persona che ha vinto il primo maiale. L’estrazione prosegue finché un’altra voce è seguita dalla parola «Grazia». Detto il nome che ha vinto il secondo maialetto, il Landi pronunzia un discorso in versi col quale si ringrazia il popolo dell’onore fatto a Sant’Antonio. Le ultime parole sono urlate e fischiate e la festa è finita. La gente sfolla verso il paese, mentre i ragazzi, abbandonati a ve stessi, cantano in coro:
Sant Antogni, becca l’ova, / l’è imbariegh cum è una troia: / l’è imbariegh cum è un guten; / Sant’Antogni ballaren /.
Castel Bolognese, 17 gennaio 1931.
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