Giovanna Caroli, l’ultima custode dello Scodellino

(introduzione) Il 23 dicembre 2024 è scomparsa a 91 anni Giovanna Caroli. La ricordiamo con questa intervista che risale al 2022. Un grazie a Lorenzo Raccagna per aver messo cortesemente a disposizione il testo che pubblichiamo per ricordare Giovanna. Alcune fotografie che illustrano il testo sono tratte dalla pagina Facebook del Mulino Scodellino. (A.S.)

di Lorenzo Raccagna
(tratto da Il Nuovo Diario Messaggero, 10 marzo 2022)

La storia dimora nei luoghi, ma a farla sono sempre le persone che quei luoghi li hanno animati. E la storia della castellana Giovanna Caroli è indissolubilmente legata a quella del mulino Scodellino, e viceversa. Per 60 anni, infatti, la sua famiglia ha custodito uno dei luoghi più importanti e simbolici di Castel Bolognese. Sei decenni durante i quali il mulino è stato la loro casa, la loro fonte di reddito, il centro di tutta la loro vita. Ce lo ha raccontato direttamente la signora Giovanna accogliendoci in casa sua assieme a Rosanna Pasi, presidente dell’associazione Amici del Mulino Scodellino, che forte dell’amicizia con la Caroli e delle conoscenze sulla vita di una volta nei mulini ci ha gentilmente accompagnato.
Classe 1933, con una memoria ancora lucidissima, Giovanna racconta che la sua famiglia arrivò al mulino nel 1938, quando lei doveva compiere ancora cinque anni. «Siccome io sono figlia unica, eravamo in tre: io, mio babbo Enrico (Piraja per tutti i castellani) e mia mamma Ninetta. Prima abitavamo a Brisighella, dove mio padre lavorava già in un mulino. Poi decise di scendere in pianura e di prendere in affitto il mulino Scodellino».

Nemmeno l’acqua potabile

I primi tempi furono molto duri, Giovanna non lo nasconde. «Non avevamo nemmeno l’acqua da bere, perché qualcuno per dispetto aveva buttato del letame nel pozzo e quindi non si poteva usare. Domandammo tante volte al Comune di bonificarlo ma non vennero mai. C’era l’acqua del canale, ma quella non era potabile, la usavamo soltanto per lavare. Alla fine l’acqua che ci serviva per bere e cucinare ce l’hanno sempre data i vicini. Il fatto è che i precedenti proprietari erano andati via “alla chetichella”, senza avvisare nessuno, e quando arrivammo noi il mulino era messo male. Mio padre dovette lavorare parecchio per renderlo di nuovo funzionante.
Un altro problema erano i ratti e le tope d’acqua (al tupadûr); babbo ci tirava con il fucile e metteva di continuo delle trappole. Freddo e umidità? Nei mesi freddi compravamo la legna e facevamo sempre andare le stufe della casa a pieno regime, perciò anche se avevamo il canale praticamente sotto i piedi un gran freddo non l’abbiamo mai sofferto».

La guerra vista dal mulino

Nel 1944 il fronte bellico si fermò sul Senio e Castel Bolognese fu investita in pieno dal turbine della guerra. Un comando di soldati si stabilì proprio a poca distanza dal mulino, senza però gravi conseguenze. «I tedeschi con noi si sono sempre comportati abbastanza bene. C’era un sergente maggiore dell’esercito che aveva fatto amicizia con babbo e ci trattava con un occhio di riguardo. E infatti finché ci fu il comando vicino a casa, grossi problemi non ne abbiamo mai avuti. C’era sempre un reciproco rispetto». Una notte però alle due fu proprio il sergente che li andò a svegliare all’improvviso. «Noi ci spaventammo, ma in realtà voleva soltanto salutarci. Ci spiegò che con la ritirata del fronte li facevano partire. Volle il nostro indirizzo e disse a mio padre: “Se mi salvo, torno”. Ma non ritornò mai. Qualche giorno dopo ci fu un grande combattimento sul Po, chissà che non sia caduto lì» ipotizza Giovanna.
Anche durante gli anni del conflitto il mulino non cessò mai di funzionare, se non per un breve periodo. «Lo chiusero perché dissero che dovevano lavorare soltanto i mulini grandi – racconta Giovanna –, ma il vero motivo era che mio babbo non aveva la tessera di partito. Così vennero le guardie a piombare le macine. Per un po’ mio padre andò a lavorare da alcuni contadini e dal mulino di Ezio Giovannini. In seguito gli fecero riprendere l’attività».

Il lavoro fino alla chiusura

Grano, granturco, fave e orzo erano le principali colture che i contadini della zona portavano dai Caroli a macinare. Due erano invece le macine: una per il granturco (e formintön) e una per il grano. La pietra per il grano era infatti più tenera, mentre per il granturco si usava una pietra più dura. «Era faticoso – sottolinea – allora non c’erano macchine e si faceva tutto a mano. Il grano doveva essere portato nella tramoggia in spalla tutte le volte». La macinazione era fatta unicamente con l’ausilio dell’acqua del canale, e richiedeva tempo: «quasi un’ora per un quintale di grano – ricorda – e spesso i contadini di quintali ce ne portavano anche tre alla volta. Per questo si vedevano soprattutto dei vecchi. I giovani restavano nel campo a lavorare, non potevano permettersi di perdere mezza giornata al mulino. Ad alcuni il macinato lo portava direttamente mio padre con un cavallo, che poi in seguito rimpiazzammo con una somarina».
Nel 1964 Giovanna si sposò e lasciò il mulino per andare a vivere a Lugo, ma due anni più tardi un grave incidente d’auto le portò via il marito. Rimasta vedova, decise di tornare a vivere al mulino con il figlio Giacomo. Nel 1982, la malattia di Piraja da una parte e il calo del lavoro dall’altra (con i grandi mulini
industriali che stavano gradualmente buttando fuori dal mercato i piccoli artigiani) spinsero i Caroli a cessare l’attività molitoria. Continuarono ad abitare il mulino pagando l’affitto al Comune fino al 1998, anno in cui «ci costrinsero ad andare via – sospira Giovanna -. Dicevano che l’edificio non era più abitabile, e ce ne siamo dovuti fare una ragione».
Il Comune le propose un appartamento in via I Maggio sopra l’officina comunale, ma lei rifiutò la proposta. Rimase a vivere in campagna a Casalecchio e comprò una piccola casa lungo via Lughese (dove abita tuttora insieme al figlio), a poche centinaia di metri di distanza dal suo amato mulino. «Sì, il mulino mi manca. Ci ho vissuto una buona parte della mia esistenza e i miei ricordi sono lì. La casa era brutta, e non era certo una vita agiata – conclude -, ma io ci sono sempre stata bene».

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