Dicembre 1944: cala la lunga notte

di Paolo Grandi

1. La prima quindicina del mese

1a L’evolversi del fronte e la conta dei danni

Il fronte stava avanzando verso ovest lungo la via Emilia, ma ogni fiume era un ostacolo: gli argini, spesso molto alti, servivano ai tedeschi come trincea difensiva ed imponevano agli alleati di esporsi al fuoco nemico per avanzare. Grande fu il tributo di sangue, reso per lo più dai soldati inglesi facenti parte del Commonwealth. Dal 3 al 15 dicembre infuriò la battaglia per la conquista di Faenza che fu liberata il 17 dicembre dalle truppe neozelandesi, mentre i tedeschi già da due giorni si erano ritirati al di qua del Senio, ove, lungo il suo corso, si sarebbe stabilizzato il fronte. Certamente l’esercito tedesco era ridotto quasi allo stremo ma essi erano consapevoli che se si fosse rotto qui il fronte non sarebbe stato per loro possibile creare una valida difesa fino al Po. Si parlava del basso morale delle truppe, Maria Landi racconta che, addirittura, i tedeschi avevano requisito quasi tutti i veicoli a due ruote e li avevano stesi per le campagne con un palo centrale messo in maniera che sembrasse un cannone per far credere agli Alleati in una potente batteria di difesa! Ma i Tedeschi erano fermamente convinti che Hitler avrebbe di lì a poco adoperato la “nuova arma” che avrebbe invertito le sorti delle guerra.
Il centro di Castel Bolognese fu oggetto di tiri di artiglieria e bombardamenti quasi quotidiani a partire dal 1 dicembre. Franco Ravaglia nel suo diario annota incursioni aeree alleate con bombardamenti in centro nei giorni 1, 4, 10 e 15 dicembre e caduta di granate il 2, 5, 6, 7, 8, 9, 11 e 15 sul centro abitato, il 3 al Ponte del Castello ed il 9 nelle campagne. L’8 dicembre, solitamente festa grande per l’Immacolata, furono danneggiate le chiese di San Petronio per la prima volta, di San Francesco e del Suffragio. Colpiti anche tutti i campanili. Il Suffragio fu addirittura crivellato, mentre San Francesco fu colpita in tutte le sue parti in modo orribile. I tedeschi, che affollavano il centro, intanto facevano razzia nelle case, asportando tutto ciò che capitava utile, mentre nelle chiese arrivarono pure a gesti sacrileghi sfondando tutte le mense degli altari in San Francesco immaginando trovarvi chissà quali tesori e violando anche il grande armadio del Reliquiario; nella chiesa del Suffragio razziarono tutta la cera per illuminare i loro rifugi. A metà del mese la cella campanaria di San Francesco crollò trascinando nella rovina il presbiterio ed il settecentesco coro ligneo, mentre più di un terzo dell’abside dell’Arcipretale precipitò sotto i colpi di artiglieria devastando parte dell’altare maggiore e la bancate del coro. Anche gli edifici privati e pubblici del centro e del Borgo subirono in questo periodo danni anche ingenti.
Qua e là negli immediati dintorni del centro si vedevano grandi fuochi ardere le case saccheggiate o bruciate per rappresaglia. In ogni dove continuavano le razzie e furono visti i soldati germanici impacchettare stoviglie, bicchieri, posate o piccole cose d’arredo per spedirle a casa.

1b La vita dei civili

Pian piano, già a partire dagli ultimi mesi di novembre, tutte le cantine del centro storico poste sulla via Emilia, su via Garavini e sulle altre strade laterali si riempirono di sfollati. La gente si rifugiava là con ciò che poteva servirgli e che aveva di più caro, abbandonando al loro destino le proprie case. L’opinione generale, tuttavia, era che nel giro di una settimana, dieci giorni al massimo la buriana sarebbe passata. Tra le cantine più gremite vi erano quelle delle Monache Domenicane poste verso la via Emilia; qui già da metà novembre si erano rifugiati molti abitanti della Pace fuggiti dalle case poste a ridosso del fiume e a metà dicembre giunse pure il parroco don Vincenzo Zannoni con la propria famiglia e altri parrocchiani. L’8 dicembre i tedeschi portarono nella medesima cantina su interessamento di Mons. Sermasi, con l’inganno perché era stato promesso loro il ritorno a casa, sette Ancelle del Sacro Cuore di Faenza con trenta orfanelle della Piccola Opera della Divina Provvidenza di età compresa tra i 2 ed i 18 anni, tutte sfollate a Celle. Per propria sicurezza, i tedeschi misero in comunicazione tutte le cantine tra l’8 ed il 15 dicembre. Nelle cantine si viveva di stenti cercando tuttavia una possibile normalità, qualche famiglia aveva portato la cucina che condivideva con altri; la luce era assicurata da lumi a petrolio o a carburo oppure dalle candele; acqua e servizi igienici non esistevano ed occorreva uscire col pericolo sempre in agguato.

1c L’ospedale e il sacrificio di Moschetti e Donati

Il 7 dicembre il dott. Carlo Bassi decise di trasportare nelle cantine centrali dell’Ospedale tutte le attività di cura, degenza ed operatorie. Nella cantina posta sotto l’ala sud furono ospitati i Cronici, le Orfanelle dell’Orfanotrofio Ginnasi, le partorienti e gli infettivi. Nella cantina centrale furono ospitati i degenti, il tavolo operatorio ed un a stufa ove erano messi a sterilizzare i ferri chirurgici e le siringhe, mentre in quella adibita a cucina stavano il Cappellano, le Suore di Carità, oltre alla Squadra di Pronto Soccorso che ebbe in quei giorni il suo tributo di sangue. Il 15 dicembre, mentre alcuni di loro si soffermavano nell’atrio della porta d’ingresso dell’Ospedale, osservando un aeroplano alleato che volteggiava nel cielo, dal medesimo fu sganciata una bomba che cadde proprio nel mezzo della strada non lontano dal luogo dove essi sostavano. Due di essi un po’ più esposti furono colpiti in pieno dalle schegge: Antonio Donati e Pierino Moschetti (quest’ultimo era il capo squadra) decedettero all’istante.

1d La vita religiosa

Don Garavini nella sua cronaca descrive questi frangenti come il periodo delle Catacombe. Infatti, il 2 dicembre fu celebrata l’ultima funzione in San Petronio: il funerale di Francesco Paolo Liverani. Poi tutte le celebrazioni religiose si trasferirono nelle cantine. Quasi tutti gli abitanti rifugiati là sotto facevano a gara per avere la Santa Messa che naturalmente si celebrava or qua or là solo a turno, dovendo portare pure ogni volta tutto l’occorrente. Per queste si prestavano continuamente l’Arciprete mons. Sermasi, il parroco della Pace e il padre Damiano Cappuccino. Nelle cantine poi vi era un certo numero di sacerdoti rifugiatisi dalle parrocchie di campagna che collaboravano con l’Arciprete, come don Francesco Preti parroco di Campiano che ebbe chiesa e canonica bombardate, il Priore di Valsenio Don Bosi, Don Pasquale Budini, Don Pasquale Cani, don Cleto Venturi della diocesi di Faenza, alcuni seminaristi come Italo Drei, Carlo Marabini e Giuseppe Dal Pozzo. I frati Cappuccini erano rifugiati in una delle loro cantine, mentre le altre erano state requisite dai tedeschi.

2. Un triste Natale

2a La sosta sul Senio e gli ulteriori danni; addio ai campanili

Tra il 15 e il 19 dicembre il fronte si attestò definitivamente sul Senio; il giorno 16, come ricorda Maria Landi, toccò al ponte della Via Emilia sul Senio, che da secoli valicava il fiume ed aveva inglobato lacerti romani, essere vittima della distruzione e poco dopo fu anche fatto saltare il vicino ponte ferroviario. Intanto in centro continuavano i tiri alle chiese, ai campanili e le distruzioni di case e palazzi. Franco Ravaglia informa che in questa seconda parte del mese non vi furono incursioni aeree ma solo tiri incrociati di granate quasi quotidianamente ed a volte anche nella notte. Naturalmente gli obiettivi principali erano i campanili e la torre, possibili luoghi di vedetta.
Il 24 dicembre, giorno solitamente dedicato ai preparativi del Natale, verso mezzogiorno crollò per un buon terzo il campanile di S. Petronio distruggendo il cornicione, l’organo (un prezioso Traeri), il parapetto dell’orchestra, e sprofondando nei gradini dell’altare e nel presbiterio. Il colpo ferale al campanile di San Petronio fu sparato da un militare di origine polacca: Henryk Strzelecki (1925-2012). Costui, disegnatore di moda in tempo di pace, abbandonata l’idea di tornare nella natia Polonia piombata nel comunismo, si trasferì in Gran Bretagna e lì, mutato il nome in Henri Strzelecki fondò nel 1963 a Manchester insieme ad Angus Lloyd la famosa firma di moda Henri Lloyd. Lo Strzelecki tornò due volte a Castel Bolognese tra gli anni ’90 ed i primi del presente secolo recandosi dall’allora Arciprete per consegnare una somma “in riparazione” dei danni da lui causati al campanile. Anche la chiesa delle Domenicane, in una notte di poco precedente al Natale, subì una grave offesa restando in parte scoperchiata. Nella notte del 29 dicembre i tedeschi minarono e fecero saltare in aria campanile e sacrestia di San Francesco; la notte seguente toccò al Suffragio. La Torre civica, ferita e in parte smozzicata, rimase al momento l’unica guardiana di Piazza Bernardi.

2b La vita dei civili e l’eccidio di Biancanigo

Così racconta Maria Landi “Nel buio più assoluto caricammo su un carretto di fortuna le nostre povere cose: la stufa, quattro reti per il letto con i materassi, pentole, tegami e tutto quello che avevamo in casa di commestibile, qualche fagotto con lenzuola e vestiti, il maiale ucciso al momento, le galline dentro un sacco. Noi avevamo indossato un doppio cambio di indumenti ed in una tasca nascosta avevamo i soldi: i risparmi di una vita. E così ci incamminammo verso Castello”. Così descrive la cantina delle Domenicane don Garavini: “La cantina rigurgita di tutte le sorti: oltre i giacigli per gli sfollati, e un po’ di bottame con relativo vino, reti, brande, sofà, sedie, attrezzi da cucina, gli scarsi viveri che sinora si sono potuti salvare, l’ingombrano in gran parte valige e involti che si celano un po’ dappertutto. Non c’è altro che un piccolo passaggio in mezzo per consumare i magri pasti”.
Il parroco di Biancanigo, don Tambini, aveva issato sul campanile il vessillo giallo/rosso vaticano e, in una qualche maniera, riuscì a salvare chiesa e canonica benché fossero a due passi dal Senio. Non fu così invece per i rifugiati nelle cantine di Villa Rossi, a pochi metri dall’argine del Senio. Lì vi erano rifugiate in due cantine non comunicanti, nella prima un certo numero di cieche con la Direttrice ed alcune inservienti provenienti dall’Istituto Ciechi di Bologna, dall’altra le famiglie Montanari. Cristoferi e Lama, le prime due coloni dei poderi annessi alla villa. Quando i tedeschi decisero di far saltar il complesso, avvisarono le cieche, che si rifugiarono in fretta e furia nella canonica di Biancanigo, ma non i coloni che, solo per caso, si accorsero all’alba che la villa era stata minata ed un Montanari tagliò i fili delle mine cosa che tuttavia non fu sufficiente a salvare i rifugiati: poco dopo la villa saltò in aria seppellendo ventuno innocenti di età compresa tra gli 84 ed i 2 anni.
Poco prima di Natale i tedeschi minacciarono lo sfollamento delle Via Garavini, Borghesi e Roma dal macello fino alla Filippina. Ma su interessamento e con l’insistenza dell’Arciprete Sermasi presso il comandante della Piazza fu sventato il pericolo, perché una volta sfollate le case, i tedeschi vi sarebbero entrati facendo man bassa di tutto.

2c Natale in cantina

Parecchie Messe furono celebrate nell’altarino della sacrestia dalla Domenicane, una delle quali dal parroco della Pace, cantata dalle Suore e dalle orfanelle rifugiate in cantina una delle quali, racconta Maria Landi, aveva una bellissima voce. L’ultima delle 10 fu celebrata da don Garavini all’altare maggiore della Chiesa, sfidando i pericoli del caso. In tante cantine di Castel Bolognese fu celebrato il Natale dai vari Sacerdoti presenti in città con partecipazione e devozione, riferisce Angelo Donati, i cui figli prepararono anche il Presepe in cantina.

2d Una Rifugiata particolare

Don Antonio Garavini era sordo, perciò non sentiva i rumori dei bombardamenti e per questo motivo li sfidò cercando di salvare il più possibile arredi sacri e opere d’arte presenti nelle chiese castellane. A lui si deve la messa in salvo di tutti i reliquiari presenti nel grande armadio dell’altare di San Francesco, poi devastato dalle bombe. Non riuscì tuttavia a salvare le opere d’arte presenti nella chiesa del Suffragio, in particolare la grande tela del Cignani.
Ma il 31 dicembre una rifugiata d’eccezione andò ad aggiungersi alla folla presente nelle cantine delle Domenicane: verso le ore 14 fu prelevata dalla chiesa di San Francesco l’Immagine della Madonna della Concezione, Patrona principale di Castel Bolognese e del suo territorio e fu portata nella cantina delle Domenicane, a fianco dell’altare posticcio, qui posta sopra il basamento processionale. Davanti a Lei don Zannoni, all’imbrunire cantò il Te Deum con la Benedizione Eucaristica e tutti quella notte si coricarono con la speranza che il nuovo anno portasse l’alba del nuovo giorno.

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