Memorabili mascherate dell’800 descritte da Giovanni Bagnaresi (Bacocco)

Michel

Quando ritornarono a casa i reduci del ’59, portarono dal Piemonte canzonette, modi di dire, sentimenti, satire, mascherate ecc. che si mantennero tra noi per lungo periodo di tempo, tanto che la mia generazione, che venne dopo, potè averne conoscenza.

Ora mi piace ricordare la mascherata soprannominata Michel (Michele), che una volta ci divertiva tanto negli ultimi di carnevale. Un fantoccio quasi umano vestito di bianco, al quale era appeso un filo che, tiratosi, gli faceva muovere le gambe e le braccia. Una specie di pulcinella piemontese. Questo era Michele.

Una turba di mascherotti, vestiti di cotonina a variati e differenti colori, accompagnavano Michele, tenendo in mano i loro istrumenti: chi una chitarra, altri una trombetta chi un campanino, un altro ol violino, chi una pistola, un altro il bombardone.

Questi erano gli attori principali: ma altri mascherotti figuravano da coro. In una delle giornate degli ultimi di carnevale, a piedi, o delle volte o in carro o in plaustro, la compagnia usciva e portava in giro per le strade e le piazze del paese, questo loro fantoccio. Quando si fermavano, si creava subito d’attorno una siepe umana di ragazzetti e di adulti, e incominciavano la rappresentazione. Con la filastrocca che dicevano, abbiamo divertito i nostri bambini e nelle vecchie case castellane continueranno ancora, per altre generazioni, a dirla ai figli.

Il coro incominciava:

Alla fiera di Moncalier,
ho comprato una chitarra:
alla fiera di Moncalier,
ho comprato una chitarra:
ara, ara la chitarra
ara, ara la chitarra,
o Michel, o Michel,
alla fiera di Moncalier.

Un mascherotto, quello della chitarra, cominciava allora a pizzicarla nell’aria della canzonetta. Poi la troupe si muoveva seguita dal codazzo dei ragazzi e si piazzava in altro posto:

Alla fiera di Moncalier,
ho comprato una trombetta:
alla fiera di Moncalier,
ho comprato una trombetta:
ara, ara la chitarra,
tè, tè, tè fa la trombetta:
o Michel, o Michel,
alla fiera di Moncalier.

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La trombetta suonava assieme alla chitarra.  Il coro:

Alla fiera di Moncalier,
ho comprato un violino:
alla fiera di Moncalier,
ho comprato un violino:
ara, ara la chitarra,
tè, tè, tè fa la trombetta,
gin, gin, gin fa il violino:
o Michel, o Michel,
alla fiera di Moncalier.

Il violino si faceva sentire con la chitarra e la trombetta. II coro:

Alla fiera di Moncalier,
ho comprato un campanino:
alla fiera di Moncalier,
ho comprato un campanino:
ara, ara la chitarra,
tè, tè, tè fa la trombetta,
gin, gin, gin fa il violino,
tin, tin, tin fa il campanino:
o Michel, o Michel,
alla fiera di Moncalier.

Ed anche il campanino emetteva il suono con gli altri istrumenti. Già il coro:

Alla fiera di Moncalier,
ho comprato una pistola:
alla fiera di Moncalier,
ho comprato una pistola:
ara, ara la chitarra,
tè, tè, tè fa la trombetta,
gin, gin, gin fa il violino,
tin, tin, tin fa il campanino:
pinf, panf la mia pistola:
o Michel, o Michel,
alla fiera di Moncalier.

E tra gli altri suoni, la pistola faceva echeggiare i due colpi. La mascherata sempre spostandosi finiva nella Piazza Maggiore:

Alla fiera di Moncalier,
ho comprato un bombardone:
alla fiera di Moncalier,
ho comprato un bombardone:
ara, ara la chitarra,
tè, tè, tè fa la trombetta,
gin, gin, gin fa il violino,
tin, tin, tin fa il campanino:
pinf, panf la mia pistola:
boum, boum il bombardone:
o Michel, o Michel,
alla fiera di Moncalier.

E qui finiva, mentre tutti gli altri strumenti ricordati emettevano il loro suono.

Quegli che la rinnovò, quando ero bambino, fu il maggiore Leonida Marzari, un egregio mio compaesano, che dopo avere cooperato a fare l’Italia, non disdegnava di prodigarsi a far divertire i castellani: sia organizzando feste, mascherate, balli, che egli preparava, allestiva con una passione ed un trasporto indicibili. Anzi, quando era in servizio attivo, faceva coincidere la licenza annuale col carnevale. Era l’anima di queste feste e, quando venne in pensione, si fece maestro gratuito di ballo e di suono ai giovani del paese. Le serenate del Marzari, fatte da lui e da altri giovani con istrumenti a corda, sono ancora ricordate. Quando la mascherata l’aveva presentata qui, la portava, a mezza quaresima, a farsi vedere e sentire in altri luoghi.

Dopo il ’59, i volontari non fecero subito ritorno alle loro case, ma restarono ancora in Piemonte e vennero incorporati nei battaglioni della Guardia Nazionale, di presidio alle città. Enrico Capra appunto mi raccontava di avere veduta la mascherata di Michele a Savigliano, dove rimase di guarnigione un intero anno.

Castelbolognese
G. B.


Gli Zingari Calderai

Un’altra mascherata che ricordano quelli che hanno superato i sessanta anni, è quella degli zingari-calderai. Non credo che fosse immaginata dall’egregio maggiore Leonida Marzari: ma piuttosto da lui importata e tolta o dal Piemonte o dalla Lombardia. Fu rappresentata dopo il ‘59 e nel carnevale forse del 1860 o più avanti. Dopo la pace di Villafranca, il Veneto era rimasto ancora sotto il dominio dell’Austria e gli italiani si agitavano ed agognavano di avere incorporata anche la Venezia nella novella nazione. Di questo pensiero vivendo i patrioti, davano il carattere irredento anche alle loro mascherate.

L’allestimento di questa mascherata importava ben piccola spesa. Un vestito di fustagno color oliva o color casacco e più sdrucito che fosse e più rimaneva in carattere: un cappellaccio molle e a larghe tese in testa: la pipa di maiolica con impressi uno o due cervi come usano i ramai trentini per quelli che fumavano, la faccia annerita completavano la caratteristica figura dello zingaro-calderaio.

Per ogni singolo mascherotto, infilato all’omero e per il manico i diversi oggetti di rame che sogliono portare i calderai nell’esercizio del loro mestiere. Chi aveva un caldaio, un altro la padella, chi un calcedro ed in fila, a due a due, formavano una lunga teoria, che si chiudea da quelli che portavano il piccolo incudine ed il mantice.

Giravano così le vie del paese questi nuovi magnani seguiti dalla compiacenza e dal consentimento dei loro paesani, ed erano così bene truccati che si riconoscevano con qualche difficoltà.
Dopo avere percorso un tratto di strada, gli zingari-calderai si soffermavano in una delle piazzette e si sedevano a terra formando un circolo. Allora quello del mantice fingeva di accendere e di attizzare il fuoco, l’altro dell’incudine si apprestava ad aggiustare il pezzo che teneva sulle ginocchia, battendolo con un martello. Poi ad un cenno del capo, che era il Marzari, il coro cominciava a recitare la sua parte:

Noi siamo zingari-calderai
che veniamo da Vicenza
siamo venuti accomodare
le padelle a sua eccellenza:
due botte noi vi diamo,
le padelle accomodiamo
e per quelli che non sentano
ci conviene noi gridar: – i calderai! –

Poi dopo una piccola sosta ripetevano:

Due botte noi vi diamo
le padelle accomodiamo:
battiamo, stagniamo, conciamo caldai:
a chi ci vuole bisogna gridar:
– eccoci qua i calderai! –

Poscia riprendevano il giro sempre seguiti da un codazzo di popolo e giunti in un altro spiazzo, capace di poterli stendere, continuavano, a cantare, tra le risa ed il sollazzo del pubblico:

Noi tenianzo un martellino
lungo un palmo avvantaggiato:
ad un suon di campanino,
quanti colpi abbiamo già dato:
due botte noi ci diamo,
le padelle accomodiamo
e, per quelli che non sentano,
ci conviene a noi gridar: – i calderai –

Poi una sospensione e la ripetizione:

Due botte noi vi diamo
le padelle accomodiamo:
battiamo, stagniamo, conciamo caldai:
a chi ci vuole bisogna gridar:
– eccoci qua i calderai! –

Così continuava la innocua mascherata e le case amiche si facevano un onore di ospitare il corteo e di… abbeverarlo, finchè, sul far della sera, la mascherata si scioglieva nel Borgo di S. Carlo.

Castelbolognese, maggio 1931.
G. B.


L’irriverente mascherata delle oche

[…] In uno degli ultimi giorni di Carnevale del 1872, uscirono per le vie del paese venti maschere, numero corrispondente ai consiglieri assegnati al Comune. Queste maschere erano vestite di bianco e, ad imitazione delle oche, camminavano ad una ad una in lunga fila, Il becco era munito di un congegno di canna d’india, che permetteva l’apertura e la chiusura a volontà.

Quando la mascherata apparve alla ringhiera del Comune, incominciò ad emettere un forte “quà, quà, quà” ed a cantare:

-Vo’ cantarvi la canzone
delle oche e dell’ocone,
che hanno offeso il podestà
per gridare quà, quà, quà.

-Sia un’oca sia un’ ocone
non fò male alle persone,
non fò male al podestà
per strillare quà, quà, quà.

-L’oca poi è un animale
che non nuoce e non fa male,
per la sua bonarietà,
se anche strilla quà, quà, quà.

-Non è ver che sia immune
il palazzo del Comune,
perchè l’oca v’entra già
e vi strilla quà, quà, quà.

-L’oche poi hanno l’orgoglio
che salvaro il Campidoglio,
quando i Galli entravan già
lor strillaron quà, quà, quà.

La folla, che si era fermata nel mezzo della piazza, applaudiva e rideva. […]

Le descrizioni delle tre mascherate sono tratte rispettivamente da:
Valdilamone
, anno X, n. 3
Valdilamone
, anno XI, n. 2
Valdilamone
, luglio-settembre 1933

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